Sulla incostituzionalità dell'esenzione da revocatoria delle rimesse in conto corrente nell'ambito delle procedure iniziate dopo il d.l. 14 marzo 2005 n. 35
Pubblicato il 13/09/06 02:00 [Articolo 922]






Lo scritto è stato pubblicato ed è dunque reperibile anche in "Diritto fallimentare e delle società commerciali" (Il), 2006, n. 2, CEDAM, parte 1, p. 397.
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L'entrata in vigore delle modifiche all'azione revocatoria fallimentare di rimesse in conto corrente bancario introdotte dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35 ha costituito l'occasione per alimentare il dibattito su numerose questioni di diritto transitorio.

Tra queste vi è di quella di incostituzionalità della disposizione dell'art. 2, nella parte in cui prevede l'applicabilità delle esenzioni dalla revocatoria (lettere a e b del nuovo art. 67 l.f.) alle azioni promosse nell'ambito di procedure iniziate dopo l'entrata in vigore del decreto medesimo e non anche ai giudizi pendenti ed a quelli comunque successivi alla nuova normativa.

La tesi fa perno sull'assunto secondo il quale la disposizione transitoria citata violerebbe gli art. 3 e 24 della Costituzione, in quanto consente che situazioni identiche vengano regolate in modo difforme anche in ipotesi in cui la relativa fattispecie concreta si è verificata nello stesso periodo di tempo.

A sostegno di questa prospettazione, i sostenitori di detta tesi esemplificano spiegando che le rimesse sui conti correnti effettuate nello stesso periodo di tempo da due differenti imprenditori A e B potrebbero essere assoggettate a diversa disciplina, nel senso che quelle effettuate dall'impresa A sarebbero revocabili qualora il fallimento del correntista fosse dichiarato prima della entrata in vigore del d.l. 35/2005, mentre quelle effettuate dall'impresa B non sarebbero revocabili qualora il fallimento della stessa fosse dichiarato successivamente.

Questa situazione darebbe luogo ad una ingiustificata disparità di trattamento di situazioni identiche verificatesi nello stesso periodo di tempo.

Prima di prendere in esame la fattispecie concreta sottoposta alla nostra attenzione, sarà bene richiamare il principio, assolutamente

consolidato nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, secondo il quale «il fatto che alla stessa categoria di soggetti si applichi un trattamento differenziato per effetto del mutamento della disciplina legislativa non contrasta col principio di eguaglianza, poiché il trascorrere del tempo costituisce di per sé un elemento differenziatore».[1] 1 La copiosa giurisprudenza della Corte Costituzionale è, quindi, unanime nel senso di ritenere che il fluire del tempo è di per sé elemento più che idoneo a differenziare le situazioni soggettive dei consociati.

Nel caso che ci occupa, il legislatore ha operato, come in tutti i casi in cui una nuova legge innova il diritto, una scelta ben precisa, indicando il momento di inizio dell'efficacia della norma mediante la dettatura di una chiara e specifica disposizione transitoria. Il legislatore, in sostanza, ha emanato una norma transitoria cd. funzionale, dettata espressamente allo scopo di regolare il passaggio da una disciplina ad un'altra, «in modo che sia più facilmente individuabile la regola giuridica che deve essere applicata a tutte quelle situazioni che non si sono ancora esaurite al momento della entrata in vigore del nuovo diritto e che si sono venute a trovare, per così dire, a cavallo nel momento del passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina normativa».[2]

Sulla base di questi principi è possibile verificare se, nel caso concreto, ove il legislatore ha fissato la decorrenza degli effetti delle nuove norme alle azioni promosse nelle procedure dichiarate dopo il 17 marzo 2005, sia stata posta in essere una scelta ragionevole ovvero se sia stato violato il principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione.

I sostenitori della tesi che si critica, affermano che il fatto generatore e quindi il presupposto per l'applicazione dell'esenzione di cui al III° comma dell'art. 67 della legge fallimentare è costituito dalla effettuazione delle rimesse in conto corrente, per cui sarebbe iniquo che alcune di esse venissero revocate ed altre, effettuate nello stesso periodo, non lo fossero sol perché i relativi fallimenti sono stati dichiarati in tempi diversi.

A modesto parere dell'odierno deducente, questa impostazione non può essere condivisa.

Nel caso della revocatoria fallimentare, infatti, il fatto generatore che costituisce il presupposto della norma che dispone la revocabilità delle rimesse non è costituito solo ed esclusivamente dai singoli atti di pagamento.

L'effettuazione dei singoli pagamenti non è di per sé sufficiente perché si possa procedere alla loro dichiarazione di inefficacia mediante revocatoria fallimentare. Perchè la fattispecie in esame si possa ritenere sussistente occorre, infatti, che intervenga la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore che ha eseguito i pagamenti, occorre che si apra il concorso tra i creditori.

Non vi può essere azione revocatoria fallimentare senza dichiarazione di fallimento.

E' quindi possibile ed ammissibile che versamenti effettuati nello stesso periodo da imprenditori diversi vengano assoggettati a trattamento diverso e questo perché la sorte delle due imprese potrebbe essere diversa nel senso che una potrebbe essere dichiarata fallita e l'altra invece no.

Questa considerazione è la logica conseguenza della particolare fattispecie della revocatoria fallimentare, una fattispecie a formazione complessa, costituita da più presupposti che si susseguono nel tempo: il compimento del singolo atto revocabile (la rimessa sul conto) e la dichiarazione di fallimento che consente di individuare il periodo sospetto.

La dichiarazione di fallimento apre il concorso tra i creditori e l'azione revocatoria è il mezzo per ristabilire la par condicio creditorum anche a ritroso nel tempo.

Senza dichiarazione di fallimento, senza quindi accertamento dell'insolvenza e senza apertura del concorso dei creditori, un'azione revocatoria fallimentare non è ipotizzabile.

Ecco quindi che, in ossequio ad un principio di ragionevolezza, il legislatore non poteva non scegliere la dichiarazione di fallimento per far decorrere l'efficacia delle nuove norme sulla revocatoria di rimesse in conto corrente.

Stabilire un qualsiasi altro criterio, scegliere, ad esempio, come vorrebbero i sostenitori dell'eccezione di incostituzionalità, il tempo in cui sono state effettuate le rimesse, sarebbe stato assolutamente irragionevole, in quanto si sarebbe ancorata l'applicazione della legge ad un fatto che di per sé non integra gli estremi della fattispecie concreta presa in considerazione dall'art. 67 l.f.

La scelta del legislatore, l'unica attuabile, non può pertanto essere considerata incostituzionale.

NOTE
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[1] C. Cost. 22 ottobre 1987, n. 322; 4 luglio 1979, n. 65; 6 dicembre 1979, n. 138; 23 luglio 1980, n. 122; 13 maggio 1987, n. 159; 3 febbraio 1994 n. 18; 16 dicembre 1998, n. 409; 28 novembre 2001, n. 376; 12 aprile 2002, n. 108.

[2] R. Tarchi, Disposizioni transitorie e finali, Giuffrè, p. 22.






















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