I diritti del malato dal principio di autodeterminazione alle cure palliative e terapia del dolore
Pubblicato il 11/03/24 08:29 [Articolo 2175]






(Alla ricerca di una chiave ermeneutica tra bioetica laica e religiosa)

 

Sommario: 1. Il diritto alla salute nella Costituzione. 1.1 Il coordinamento tra l’art. 2 e 32 co. 2 Cost. 2. Il diritto alla salute come libertà di scelta della cura. 2.1 Il caso del c.d. multitrattamento Di Bella e il principio della “ragionevolezza scientifica”. 2.2 Il principio personalista, in contrapposizione al principio pluralista. 3. La multidimensionalità del bene salute in relazione alla sua nozione e al dettato costituzionale. 4. Cure palliative, terapia del dolore e fine vita: Alla ricerca di una chiave ermeneutica che rispetti la vita comunque intesa. 5. Qualità della vita tra bioetica religiosa, bioetica laica e qualità della vita. 5.1 Questioni bioetiche ricorrenti: cenni. 6. Le cure palliative: definizione e principi. 7. L'umanizzazione degli ospedali. 8. Assistenza infermieristica preventiva, curativa, palliativa, educativa. 9. La legge n. 38 del 2010. 10. Cure palliative e terapia del dolore: i due mantelli per il malato. 11. Campagne di informazione (art. 4). 12. Rete nazionale per le cure palliative e le terapie del dolore (art. 5). 13. Progetto «Ospedale-Territorio senza dolore» (art. 6). 13.1 Le forme di assistenza. 14. Osservatorio nazionale permanente per le cure palliative e per le terapie del dolore (art. 9). 15. Etica del dolore. 16. L’assistenza sanitaria: configurazione giuridica e responsabilità.

 

Il Trattato istitutivo dell’OMS afferma che

la salute di tutti i popoli

è una condizione fondamentale

 per la realizzazione della pace

e della sicurezza e dipende

dalla più completa collaborazione

tra gli individui e tra gli stati.”

 

 

  1. Il diritto alla salute nella Costituzione.

Antecedente all’entrata in vigore della Costituzione, la salute era intesa come esclusivo interesse della collettività e come limite alla libertà individuale significato che evidenzia quanto fosse prevalente la dimensione collettiva, nella ricostruzione giuridica del fenomeno.

L’obiettivo della tutela della salute si traduceva, infatti, in un’azione “sanitaria”[1], volta al controllo ed alla salvaguardia della società[2].

La legge 20 marzo 1865 n. 2248 attribuiva, quindi, al Ministero dell’Interno, nella sua amministrazione centrale e periferica, le competenze in materia e sotto il controllo dello Stato le innumerevoli istituzioni pubbliche e private (soprattutto religiose) che erogavano assistenza di tipo ospedaliero, soprattutto agli indigenti[3].

Il percorso della tutela del diritto alla salute quale diritto fondamentale, trova la sua culla sin dai primi dibattiti in Assemblea Costituente.

La prima formulazione della disposizione relativa al diritto alla salute, originariamente rubricata nell’art. 26 della bozza di Carta costituzionale, si limitava a sancire che: «La Repubblica tutela la salute, promuove l’igiene e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessun trattamento sanitario può essere reso obbligatorio se non per legge. Sono vietate le pratiche sanitarie lesive della dignità umana»[4].

La bozza così formulata non ricevette il plauso dell’Assemblea e le obiezioni[5],  condussero all’accoglimento di un emendamento con il quale veniva proposto il seguente articolato: «La Repubblica si propone la tutela della salute come un fondamentale diritto dell’individuo e come un generale interesse della collettività. Lo Stato assolve tale compito attraverso istituzioni coordinate intorno ad un unico organo centrale ed autonomo. Nessun cittadino può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, la quale inoltre garantisce il rapporto di fiducia fra medico e ammalato».

Emergeva, quindi, la necessità di realizzare un sistema sanitario nazionale capace di assicurare la prevenzione e la cura delle malattie a tutti i cittadini, evidenziando come l’ordinamento repubblicano non potesse escludere dall’assistenza quelli meno abbienti, che sarebbero stati costretti a ricorrere a cure dai costi proibitivi.

Sotto il profilo giuridico, dunque, la salute assume una duplice valenza, come “diritto soggettivo[6] (si tratta, peraltro, del solo diritto qualificato espressamente dalla Costituzione come “fondamentale”), e come “interesse della collettività[7], è essenziale per comprendere la portata del “valore salute[8].

Al termine del dibattito, l’Assemblea costituente, recepì la considerazione per i meno facoltosi e confermò l’attenzione per il rispetto della dignità umana, per cui, oggi l’art. 32 della Costituzione dispone che «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

In materia di diritto alla salute, la giurisprudenza della Corte costituzionale, non ammette compressioni del nucleo irriducibile del diritto, considerato come un ambito inviolabile della dignità umana (anche di fronte all’evidente necessità di gestire con equilibrio le risorse finanziarie disponibili nel bilancio dello Stato).

Anche a seguito dell’entrata in vigore della carta Costituzionale, la tutela della salute continuò ad essere garantita attraverso quella complessa organizzazione fatta di presidi di cura e da una molteplicità di enti pubblici operanti nel settore della previdenza sociale.

Apparve da subito chiaro che il disposto dell’art. 32 Cost. era da leggersi unitariamente a quello dell’art. 38, che, al comma 2, che sancisce il diritto per i lavoratori alla previsione ed all’assicurazione di «mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria».

L’affermazione dei diritti sociali[9], ad opera della dottrina e della giurisprudenza, portò ad un ripensamento in ordine alla portata del diritto alla salute, sancito dalla Costituzione, ponendo le premesse per una nuova interpretazione della norma di riferimento da meramente programmatica ad immediatamente precettiva[10].

Ciò condusse all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale[11], ad opera della l. 23 dicembre 1978, n. 833, che rappresentò un primo momento di attuazione del precetto costituzionale[12], cui corrispose l’avvio di un significativo processo di riordino della sanità pubblica del Paese[13].

Dunque il diritto alla salute si sviluppa sui seguenti segmenti:

1) il diritto alla salute come diritto all’integrità psico-fisica della persona;

2) il diritto alla salute come libertà negativa (libertà da) e, quindi, come diritto di difesa di fronte a trattamenti sanitari obbligatori (e non);

3) il diritto alla salute come libertà di cura (libertà positiva o libertà di);

4) il diritto alla salute come diritto a determinate prestazioni, e i suoi rapporti con l’organizzazione e i costi del Sistema sanitario nazionale.

 

  1. Il coordinamento tra l’art. 2 e 32 co. 2 Cost.

L’articolo 2 della Costituzione riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Protegge, quindi, i diritti fondamentali della persona; il suo significate essenziale sta nella pretesa del singolo all’astensione da parte di tutti da qualsiasi comportamento che possa mettere a repentaglio l’integrità della salute e fisica e psichica dell’individuo[14], coerentemente a una concezione integrale della persona umana.

Il comma 2 dell’art. 32 stabilisce che “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Riserva di legge[15] e “rispetto della persona umana” sono i limiti costituzionalmente prescritti ai trattamenti sanitari imposti per legge[16].

Tra le differenti letture che cercano di dare contenuto soprattutto alla seconda proposizione dell’articolo, la Corte costituzionale ha specificato l’ambito di legittimità dei trattamenti sanitari (obbligatori e non)[17].

Nella fondamentale sent. n. 307/1990 è stata dichiarata costituzionalmente illegittima la disciplina dell’obbligatorietà della vaccinazione antipoliomelitica per i bambini entro il primo anno di età, nella parte in cui non prevedeva un sistema di indennizzo per gli incidenti conseguenti a tale vaccinazione[18].

Chi è a favore all'introduzione di leggi che regolino il diritto a rifiutare le cure, e quindi vorrebbe una regolamentazione del suicidio assistito, ritiene che il diritto di autodeterminazione, che trova espressione nell’art. 2 Cost., sia il nucleo fondamentale della questione.

Per autodeterminazione si intende “l’atto con cui l’uomo si determina secondo la propria legge, in assoluta indipendenza da cause che non sono in suo potere[19]

Sempre nella sent. n. 307/1990  si legge: la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 della Costituzione se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale.” Aggiunge la Corte costituzionale che dalla norma “si desume soprattutto che un trattamento sanitario può essere imposto solo nella previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario, e pertanto tollerabili. Con riferimento, invece, all’ipotesi di ulteriore danno alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio - ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica - il rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività non è da solo sufficiente a giustificare la misura sanitaria. Tale rilievo esige che in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno possa essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico, ma non postula il sacrificio della salute di ciascuno per la tutela della salute degli altri.”

Ecco che viene in rilievo l’esigenza di relativizzare le due dimensioni del bene salute: infatti, “un corretto bilanciamento fra le due suindicate dimensioni del valore della salute - e lo stesso spirito di solidarietà (da ritenere ovviamente reciproca) fra individuo e collettività che sta a base dell’imposizione del trattamento sanitario - implica il riconoscimento, per il caso che il rischio si avveri, di una protezione ulteriore a favore del soggetto passivo del trattamento. In particolare finirebbe con l’essere sacrificato il contenuto minimale proprio del diritto alla salute a lui garantito, se non gli fosse comunque assicurato, a carico della collettività, e per essa dello Stato che dispone il trattamento obbligatorio, il rimedio di un equo ristoro del danno patito.”

Per la Corte, il diritto alla salute implica e comprende “il dovere dell’individuo di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui, in osservanza del principio generale che vede il diritto di ciascuno trovare un limite nel reciproco riconoscimento e nell’eguale protezione del coesistente diritto degli altri.” Le simmetriche posizioni dei singoli si contemperano ulteriormente con gli interessi essenziali della comunità, che possono richiedere la sottoposizione della persona a trattamenti sanitari obbligatori, posti in essere anche nell’interesse della persona stessa, o prevedere la soggezione di essa ad oneri particolari” (Cfr. Corte cost., sentt. nn. 218/1994 e 399/1996)[20].

 

  1. Il diritto alla salute come libertà di scelta della cura.

In materia di libertà di scelta della prestazione medica, nella quale il diritto di libera scelta del medico viene ritenuto tutela nei “limiti oggettivi dell’organizzazione dei servizi sanitari[21], della struttura sanitaria pubblica o privata, del luogo di cura, del tipo di prestazione, è nella giurisprudenza prevalente condizionata dall’organizzazione amministrativa dello Stato e dagli ampi margini di discrezionalità politica del legislatore nel disegnarla in concreto; aiuta a comprendere tali aspetti la, C. Cost. sent. n. 87/2013 che collega il “nucleo minimo e irriducibile” della salute al carattere salvavita di un determinato trattamento sanitario[22].

In ogni caso, è costante il riferimento giurisprudenziale alla necessità di salvaguardare il diritto alla salute nel suo “contenuto essenziale”, che spesso viene fatto coincidere con pretese di tutela rinvenibili nelle situazioni in cui l’individuo è “nudo” rispetto a qualsiasi strumento di protezione.

Nella sent. n. 236/2012 la libertà di scelta del luogo di cura è chiaramente indicata priva di carattere assoluto, dovendo essere contemperata con altri valori costituzionali, anche in considerazione di limiti oggettivi derivanti dalle risorse finanziarie disponibili.

Il legislatore può limitare detta libertà di scelta del paziente “a condizione che il sacrificio risulti necessario dall’esigenza di preservare altri beni di rango costituzionale, quale ad esempio un’efficiente ed efficace organizzazione del sistema sanitario[23].

Tornando adesso al “contenuto essenziale” del diritto alla salute, si deve sottolineare come esso viene collegato all’esistenza e alle modalità organizzative del Servizio sanitario nazionale. Nella sent. n. 267/1998, in particolare, si stabilisce che la scelta del paziente è salvaguardata “da quelle disposizioni di legge - come l’art. 3 della legge n. 595 del 1985 - che legittimano il ricorso a forme di assistenza indiretta nelle ipotesi in cui le strutture del servizio sanitario - incluse quelle convenzionate ed oggi quelle accreditate - non fossero in grado di assicurare un tempestivo intervento sanitario, reso peraltro indifferibile dalle condizioni di salute della persona bisognosa di prestazioni di cura”. Per conseguenza, è illegittima la legge che escluda qualsiasi rimborso in mancanza di previa autorizzazione, senza possibilità di deroga, “neppure qualora ricorrano particolari condizioni di indispensabilità, di gravità ed urgenza non altrimenti sopperibili[24]

 

2.1 Il caso del c.d. multitrattamento Di Bella e il principio della ragionevolezza scientifica

La famosa sentenza della Corte Costituzionale sent. n. 185/1998 riguarda il c.d. multitrattamento Di Bella, che prevedeva come cura un mix farmacologico per la cura di determinate patologie tumorali, che il legislatore aveva ritenuto di somministrare gratuitamente, in via d’urgenza e per finalità di sperimentazione, solo ad alcuni malati terminali.

Coloro che erano stati esclusi dalla sperimentazione, che versavano nelle medesime estreme condizioni cliniche, lamentavano la lesione dell’eguale diritto ad essere curati a carico del Servizio sanitario nazionale.

La Corte costituzionale ha deciso con un’additiva parziale e condizionata, riscontrando nella disciplina una violazione degli artt. 3 e 32 della Costituzione: “nei casi di esigenze terapeutiche estreme, impellenti e senza risposte alternative, come quelle che si verificano in alcune patologie tumorali, va considerato che dalla disciplina della sperimentazione, così prevista, scaturiscono indubbiamente aspettative comprese nel contenuto minimo del diritto alla salute. Sì che non può ammettersi, in forza del principio di uguaglianza, che il concreto godimento di tale diritto fondamentale dipenda, per i soggetti interessati, dalle diverse condizioni economiche.”

La sentenza limita gli effetti della declaratoria di incostituzionalità quanto all’oggetto, ai soggetti e ai tempi della sperimentazione, proprio al fine di escludere che dal riconoscimento della garanzia del contenuto minimo del diritto alla salute potesse derivare automaticamente un’assoluta libertà di cura.

Nei casi diversi da quelli ammessi alla sperimentazione per effetto della decisione della Corte “quando cioè esista la possibilità di un trattamento già sperimentato e validato - la pretesa che lo Stato debba essere comunque tenuto a fornire gratuitamente altre prestazioni mediche, anche solo ipoteticamente efficaci, non sarebbe ragionevole”. Infatti, per il giudice delle leggi, “non possono ricadere (…) sul servizio sanitario nazionale le conseguenze di libere scelte individuali circa il trattamento terapeutico preferito, anche perché ciò disconoscerebbe il ruolo e le responsabilità che competono allo Stato, attraverso gli organi tecnico-scientifici della sanità, con riguardo alla sperimentazione e alla certificazione d’efficacia, e di non nocività, delle sostanze farmaceutiche e del loro impiego terapeutico a tutela della salute pubblica”.

In materia di libertà di cura ha assunto sempre più rilievo nella giurisprudenza, sia il ruolo del medico, sia quello del paziente, attraverso il riconoscimento, rispettivamente, sia dell’autonomia della scienza medica rispetto al potere legislativo e a quello della stessa Corte costituzionale, sia del diritto del paziente al consenso informato.

La giurisprudenza costituzionale riconosce al legislatore che interviene in ambito terapeutico, un limite nelle acquisizioni tecnico-scientifiche e, in parallelo, uno spazio alle valutazioni e alla responsabilità del medico.

La conseguenza è che in tale ambito, il controllo della discrezionalità legislativa si arricchisce di un ulteriore test di giudizio, qualificabile come test intorno alla “ragionevolezza scientifica” della disciplina positiva, che restringe ulteriormente la discrezionalità politica di fronte a “evidenze” scientifico-sperimentali[25].

Particolarmente importante, in questo ambito, la decisione intervenuta sulla disciplina della procreazione medicalmente assistita (legge n. 40 del 2004), dichiarata illegittima nella parte in cui limitava il numero di embrioni finalizzati all’impianto.

L’illegittimità del limite positivo di tre embrioni (con parallelo divieto di crioconservazione e obbligo di impianto contemporaneo e contestuale), viene pronunciata con riferimento agli art. 3 e 32 Cost., stabilendosi, di contro, la possibilità di produrne un numero non superiore a quello strettamente necessario secondo accertamenti demandati al medico, con la premura che il trasferimento nell’utero avvenga senza pregiudizio per la salute della donna.

Il limite previsto dalla legge, infatti, aumentava il rischio di patologie connesse a (ripetuti) cicli di stimolazione ovarica; o poteva provocare un diverso pregiudizio per la donna e il feto in caso di gravidanze plurime, in presenza del divieto normativo di riduzione embrionaria selettiva, salva solo la possibilità di ricorrere all’aborto. In definitiva, la “previsione legislativa non riconosce al medico la possibilità di una valutazione, sulla base delle più aggiornate e accreditate conoscenze tecnico-scientifiche, del singolo caso sottoposto al trattamento, con conseguente individuazione, di volta in volta, del limite numerico di embrioni da impiantare, ritenuto idoneo ad assicurare un serio tentativo di procreazione assistita, riducendo al minimo ipotizzabile il rischio per la salute della donna e del feto”.

La Corte ribadisce l’esigenza di tener conto del limite che la discrezionalità legislativa incontra di fronte alle “acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica: sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali”.

Sotto altro profilo, il giudice delle leggi ha riconosciuto in via generale[26], nel combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32 Cost., il diritto del paziente al consenso informato, qualificato come “sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32, secondo comma, della Costituzione” (sent. n. 438/2008).

Al di là degli sviluppi che potrà avere questa giurisprudenza, anche nei confronti del legislatore nazionale, il riconoscimento del consenso informato inserisce nel discorso intorno al diritto alla salute un bene costituzionale ulteriore ma essenziale, che arricchisce, complicandolo certo, il bilanciamento degli interessi, specie nelle situazioni in cui non esistono soluzioni costituzionalmente “a rime obbligate”, come nelle vicende relative all’inizio o al fine vita, che richiedono giudizi condotti con prudentia iuris.

 

  1. Il principio personalista, in contrapposizione al principio pluralista.

L’articolo 3 della Costituzione, garantisce il pieno sviluppo della persona umana contro gli ostacoli che di fatto limitano la libertà e l’uguaglianza, e sancisce la pari dignità sociale dei cittadini di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali.

Sulla base del principio personalista ogni individuo ha il diritto di creare le condizioni migliori per il pieno sviluppo di ogni persona, traducendosi in un divieto per lo Stato, per i suoi apparati e per chiunque altro, di utilizzare il singolo individuo come strumento per sostenere le proprie (e non del singolo) convinzioni politiche, che possono trovare il relativo sostegno in specifici orientamenti etici, filosofici, religiosi.

 Dall’altro troviamo il principio pluralista per cui gli individui possano scegliere le modalità più ritengono opportune per raggiungere quel “pieno sviluppo”, di cui all’art. 3; tale impostazione necessita l’ammissibilità e la coesistenza tutelata di una molteplicità di punti di vista etico-religiosi.

Il combinato disposto dei due principi, personalista e pluralista, sul fronte del diritto alla salute recepito come diritto individuale, sottintende quindi, necessariamente, che differente possa essere il modo di porsi del singolo nei confronti del dolore, delle terapie, dei trattamenti sanitari e delle stesse decisioni mediche relative ai momenti iniziali e finali della sua esistenza.

Gli individui di segno opposto, al contrario, sostengono che non si darebbe pieno sviluppo alla persona umana a prescindere dalla garanzia incondizionata della permanenza in vita del soggetto che invece desidera morire; per alcuni autori il secondo comma, che assegna allo Stato[27] il compito di farsi strumento per assicurare il pieno sviluppo della persona umana, non sarebbe rispettato[28].

In realtà nei paragrafi precedenti sono già stati indicati i riferimenti costituzionali per cui è costante il riferimento giurisprudenziale alla necessità di salvaguardare il diritto alla salute nel suo “contenuto essenziale”, che spesso viene fatto coincidere con pretese di tutela rinvenibili nelle situazioni in cui l’individuo è “nudo” rispetto a qualsiasi strumento di protezione; tuttavia, la questione etica permane e le corti italiane si trovano ancora a dover affrontare le problematiche connesse.

Dobbiamo constatare che questa interpretazione del dettato costituzionale è minoritaria tra i giuristi, ma il suo contenuto trova fondamento nelle norme del dettato legislativo (di cui parleremo in seguito). Parallelamente agli articoli 2 e 3 della Costituzione, l’articolo 13 afferma che “la libertà personale è inviolabile” e il suo esercizio non può essere limitato dallo Stato, se non nei casi previsti dalla legge.

Secondo il giudice costituzionale tale disposizione non contempla solo la libertà dagli arresti, ma in essa «è postulata la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo» e di perseguire, ai sensi dell’art. 2 Cost., il pieno sviluppo di sé come singolo e nelle relazioni con gli altri.

La libertà di decidere del proprio corpo costituisce dunque una parte essenziale della libertà personale anche nel suo risvolto attivo (la libertà di), e in campo biomedico si traduce nel diritto di scegliere se, come, dove e quando curarsi, accedendo ad una prestazione sanitaria che, pur appropriata dal punto di vista clinico, sia al contempo adattata alle esigenze formulate dal paziente[29]

La Corte costituzionale e la Corte di Cassazione hanno interpretato queste disposizioni identificando nella tutela del principio di autonomia lo strumento per garantire il pieno sviluppo della persona umana: l’individuo trova piena realizzazione quando è messo nella condizione di determinare il corso della propria vita indipendentemente da costrizioni altrui, oltre che in modo consapevole e responsabile.

L’affermazione del carattere[30] inviolabile della libertà contenuta nell’art. 13 della Costituzione si limiterebbe quindi, secondo la dottrina dominante, a rafforzare il principio di autodeterminazione, qualificando l’autonomia personale come un bene intangibile, indisponibile ed inalienabile.

Ne consegue che qualsiasi provvedimento legislativo, amministrativo e giurisdizionale, che costituisca una violazione del principio di autonomia, potrebbe risultare in conflitto con la Costituzione: a questa interpretazione sono state mosse le stesse obiezioni degli art. 2 e 3.

Resta ferma la centralità dell’art. 32 già trattato nei paragrafi precedenti, infatti, una parte minoritaria della dottrina sostiene che, sebbene tale diritto sia individuale, non possa essere minimamente compromesso dalle scelte personali dell’individuo, proprio per l’interesse della società alla tutela della salute pubblica. In sostanza, questa tesi interpreta il dettato costituzionale come un chiaro limite all’autodeterminazione in funzione della tutela collettiva.

Da questo assunto si arriva poi, talora, ad argomentare che la salute costituisca uno dei doveri inderogabili di solidarietà sociale ricomprendibile nella clausola aperta dell’art. 2 della Costituzione.

La maggior parte della dottrina è critica verso questa trasformazione surrettizia del diritto alla salute in un dovere alla salute, in quanto se la Costituzione si mostra aperta alla tutela di nuove esigenze emergenti nella società, non pare si possa invece concepire un elenco aperto che ricomprenda nuovi doveri con il sacrificio di altrettanti diritti individuali.

È opinione di alcuni che l’indirizzo teorico a sostegno della tesi del dovere alla salute rivela la già citata tendenza all’imposizione dall’alto di un valore assolutizzato a discapito delle istanze individuali, e non permette di affrontare il problema in modo adeguato[31].

Un ulteriore rilievo che è opponibile a questa tesi è quello relativo al concetto di salute che secondo la definizione data dall’Organizzazione Mondiale della sanità e come confermato dalla giurisprudenza italiana, al concetto di salute rielaborato nel senso di benessere psicofisico, che va commisurato alla condizione psicologica, al progetto di vita e alle aspettative per il futuro di ciascun individuo[32].

Il secondo comma dell’art. 32 sancisce il divieto di trattamenti sanitari obbligatori, che rappresenta un principio di estrema importanza, perché esclude esplicitamente che un trattamento sanitario possa essere imposto contro la volontà del malato, e quindi rende complicato l’accoglimento della tesi di un dovere alla salute.

Il divieto tuttavia non è assoluto, perché si specifica che un obbligo possa configurarsi, ma solo in presenza di una disposizione di legge che lo preveda; in questo caso, si legge nell’ultima parte del secondo comma, la legge ha sempre come limite quello del rispetto della persona umana[33].

È parere di alcuni, quindi, che l’art. 32 Cost. permetterebbe già di inquadrare in termini abbastanza precisi la situazione in esame: risulterebbe dunque delineata, in corrispondenza del divieto di obbligo di trattamento sanitario, la garanzia di un diritto al rifiuto di cure per il malato, riconosciuta pressoché da tutta la dottrina giuridica. La volontà del malato si fa prevalere sulla necessità del trattamento per preservarne la salute, e ciò esclude, di fatto, la configurabilità di un dovere di curarsi.

Autonomia del paziente significa che è egli stesso che deve decidere a quale trattamento voglia o meno sottoporsi e, quindi, può decidere anche di rifiutare le cure, sebbene la mancanza di queste lo porterà con certezza alla morte, anche a breve termine.

In realtà, quindi, la giurisprudenza riconosce già che l’autonomia del paziente implica anche il suo diritto a scegliere di morire, e non solo in casi estremi, ma anche quando la sua prospettiva di qualità della vita non gli sembri più adeguata e soddisfacente.

La scelta di morire, inoltre, è riconosciuta al paziente anche a fronte di motivazioni che per egli sono religiose ma che per molti non religiosi, o di altre religioni, costituiscono solo assoluta e irrazionale superstizione.

Per esempio, i Testimoni di Geova considerano un peccato mortale la trasfusione di sangue, e i membri preferiscono morire piuttosto che accettarne una[34].

Da questa lettura della norma sopra esposta, in combinato disposto con l’art. 13 sulla libertà personale, è stato elaborato un principio di fondamentale importanza in ambito medico: quello del consenso informato.

Come già sopra trattato, il giudice delle leggi ha riconosciuto in via generale21, nel combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32 Cost., il diritto del paziente al consenso informato, qualificato come “sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32, secondo comma, della Costituzione” (sent. n. 438/2008)

Per garantire la scelta del malato di fronte a ciascun[35] trattamento si è reso necessario fornire gli elementi per rendere tale scelta effettiva: attraverso la pratica dell’informazione medica sullo stato di salute e sulle terapie possibili, il paziente è posto in grado di valutare se e quali misure accettare sulla propria persona.

 Non va sottovalutato che ciascun trattamento, più o meno invasivo, va ad incidere in modo rilevante sulla persona e, in virtù dell’art. 13 sulla libertà personale, tale restrizione apparirebbe inaccettabile se prescindesse da un consenso effettivo, e informato, da parte di chi la subisce.

 Si viene ad instaurare così tra medico e paziente un rapporto di dialogo in cui la valutazione medica, nonostante il suo carattere di riscontro oggettivo e il conseguente intervento doverosamente orientato alla salvaguardia della salute, deve incontrarsi con la libera autodeterminazione del malato, il quale, per ragioni individuali, può comunque optare per il rifiuto delle cure.

Infatti, sebbene l’assistenza medica integri un dovere per il medico, da cui può essere esonerato in determinati casi solo opponendo obiezione di coscienza, la dottrina maggioritaria rileva che nella situazione di rifiuto di cure, non solo il dovere di curare viene meno, ma si determina in capo al medico un vero e proprio dovere di astenersi dal curare, in ossequio alla libertà individuale del malato.

Senza dubbio, infatti, un intervento sul quale il malato aveva espresso il proprio dissenso configurerebbe una coazione illegittima, integrando addirittura il reato di violenza privata. In passato, tuttavia, il rapporto medico-paziente presentava caratteri del tutto differenti, poiché lo spazio per le decisioni individuali era minimo se non nullo e il medico, in virtù della sua competenza, era l’unica persona cui si rimettevano tutte le scelte sulla salute del paziente, in un’ottica paternalistica che escludeva un coinvolgimento del malato nel giudizio sulla propria condizione.

Tutto ciò ha subito una battuta d’arresto grazie all’attenzione sulla persona e sulla sua autonomia, emersa, anche in seguito alle nuove prospettive di scelta consentite dalla tecnologia, in un contesto culturale relativamente recente, di cui la Costituzione è stata portavoce, garantendo finalmente anche in ambito medico una valorizzazione della posizione del malato.

Il principio del consenso informato è stato ormai pienamente recepito dall’ordinamento giuridico, dalla giurisprudenza e dalla prassi medica, e si trova espresso nell’art. 33 della legge n. 833 del 23 dicembre del 1978[36] di istituzione del servizio sanitario nazionale e in varie disposizioni del codice di deontologia medica, tra cui in particolare gli articoli [37] 35 e 38.

Ora, trattandosi di casi di fine vita, assume rilievo la situazione del rifiuto di cure cosiddette salvavita, la cui mancata somministrazione o interruzione vale ad anticipare una morte altrimenti evitabile o rinviabile.

È il caso della cosiddetta eutanasia passiva: in base al principio del consenso informato, che ricomprende il parallelo diritto al dissenso informato, un paziente che si trovi di fronte ad una situazione estrema può, come abbiamo detto, senza dubbio rinunciare alle cure, sebbene questo possa permettere l’esplicarsi degli effetti degenerativi della malattia e portarlo alla morte.

La norma in analisi, infatti, non prevede limiti negativi al criterio della volontarietà dei trattamenti sanitari in caso di rischio di morte, così come non esiste alcuna legge contenente una tale prescrizione, mentre la tutela dell’inviolabilità della libertà personale, di cui all’art. 13 Cost., garantisce che l’individuo possa scegliere in merito alla propria vita senza subire imposizioni, tanto meno nel senso di una coercizione al vivere.

Queste conclusioni sono condivise ormai sia dalla dottrina maggioritaria che dalla giurisprudenza, che recentemente ha riconosciuto in più occasioni il diritto soggettivo al rifiuto di una terapia salvavita.

Se si pensa ad un malato la cui vita sia salvabile solo tramite un’operazione chirurgica, ad esempio, nessuno negherebbe la sua facoltà di accettare l’operazione così come quella di rifiutarla.

Allo stesso modo qualsiasi terapia deve essere sempre sottoposta al vaglio della volontà del malato, quali che siano i rischi per la sua vita. Nonostante tutto, qualche incertezza si riscontra in riferimento alle terapie di sostegno vitale, per le quali una parte della dottrina a sostegno dell’inviolabilità della vita, negandone la qualificazione in termini di trattamento sanitario e quindi escludendone la riferibilità all’art. 32 Cost., ritiene inaccettabile il relativo rifiuto. Il divieto[38] di trattamenti sanitari obbligatori, infatti, è comunque vincolato ai limiti imposti dal rispetto della persona umana, limiti che verrebbero oltrepassati ove la sospensione delle cure provocasse la morte del paziente[39].

La nostra Costituzione traccia poi altre strade per mezzo delle quali il diritto di autodeterminazione potrà trovare residenza nel nostro ordinamento: si vedano in particolare l’art. 117, comma 1, Cost. e le sue conseguenze, efficacemente evidenziate dalle sentenze Cost. nn. 348-349/2007[40] e n. 80/2011[41] , che impongono allo Stato di far propri i principi e i contenuti che, in materia di salute e autodeterminazione, sono riconducibili ai trattati internazionali cui l’Italia ha aderito (CEDU e interpretazioni della Corte di Strasburgo incluse).

Anzi, tali norme dovranno essere considerate addirittura come parametri interposti, utilizzabili anche ai fini della dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme interne che siano con esse incompatibili.

 

  1. La multidimensionalità del bene salute in relazione alla sua nozione e al dettato costituzionale.

Per lungo tempo, il concetto di salute si basava sul binomio salute-malattia, che configurava la prima come mera assenza della seconda. La salute aveva, dunque, un contenuto eminentemente biologico collegato all’integrità fisica e funzionale del corpo e della mente[42]; concezione abbandonata a partire dalla metà del secolo scorso.

Al termine del secondo conflitto mondiale si inizia ad avvertire l’esigenza di garantire un pieno riconoscimento della persona umana realizzabile solo attraverso forme di tutela che tengano conto della molteplicità degli aspetti costitutivi dell’individualità umana.

Al termine salute possono, infatti, essere attribuiti significati diversi e concorrenti, che danno conto della “multidimensionalità” del bene, sia sotto il profilo soggettivo (i soggetti coinvolti), che sotto quello oggettivo (i contenuti del diritto alla salute), rinvenibile anche nei principali documenti normativi in vigore nell’ordinamento europeo e internazionale.

Una esaustiva definizione del termine salute a livello internazionale si rinviene nella Costituzione dell’Organizzazione mondiale della sanità del 1946[43] che ne esplicita il contenuto «health is a state of complete physical, mental and social well-being and not merely the absence of disease or infirmity», e detta i contorni del relativo diritto «The enjoyment of the highest attainable standard of health is one of the fundamental rights of every human being without distinction of race, religion, political belief, economic or social condition»[44].

La concezione di salute viene ripresa anche nell’articolo 12 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali[45], dove il godimento della salute viene indicato come un diritto di ciascun individuo, che, tuttavia, per trovare attuazione necessita dell’intervento della Repubblica sui versanti della prevenzione e della cura[46].

Ancora importante è quanto affermato nella Carta di Ottawa[47], secondo cui «grazie ad un buon livello di salute l’individuo e il gruppo devono essere in grado di identificare e sviluppare le proprie aspirazioni, soddisfare i propri bisogni, modificare l’ambiente e di adattarvisi».

Nella Convenzione di Oviedo[48] e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea[49] emerge, invece, una più profonda relazione tra la salute ed altri elementi, quali l’identità, la dignità e l’integrità[50].

Significativo sotto tale profilo è l’art. 1 della Convenzione di Oviedo che profila l’integrità della persona come valore fondante, entro cui si schiudono i principi di supremazia dell’uomo sugli interessi della società e della scienza (art. 2) e di tutela della salute (artt. 3 e 5).

Allo stesso modo, anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, l’integrità della persona[51], qui strettamente collegata al valore supremo della dignità umana[52], sembra racchiudere in un orizzonte più ampio il valore della salute umana, a sua volta interpretata in senso esteso in considerazione della stretta relazione con i principi di autodeterminazione e di uguaglianza[53].

L’articolo 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea[54], pur non fornendo una definizione del termine salute, chiarisce come la stessa si estrinsechi nel «diritto di accedere alla prevenzione sanitaria» e in quello a «ottenere cure mediche» per un «livello elevato di protezione della salute umana»[55].

Il nostro ordinamento recepisce, inizialmente solo in modo implicito, la definizione di salute dell’Oms attraverso il d.lgs. C.p.S. del 4 marzo 1947, n. 1068, di Approvazione del Protocollo concernente la costituzione dell’Organizzazione mondiale della sanità.

Più recentemente la “salute” (e non solo il “diritto alla salute”) è stata oggetto di un’esplicita menzione e di una più ampia rivalutazione, soprattutto ad opera della giurisprudenza.

Per molto tempo, la definizione di salute dell’Oms è andata incontro ad obiezioni in ambito medico ed etico-filosofico da parte di chi[56] si è interrogato sull’opportunità di rivedere la definizione di salute in relazione all’assolutezza del termine “completo” riferito al “benessere”.

La principale obiezione muove dal fatto che il requisito di una salute “completa” potrebbe condurre ad un eccesso di medicalizzazione, che mal si rapporta, ad esempio, con le malattie croniche.

Tale critica viene necessariamente ridimensionata se si pensa che l’accettazione di un’idea ampia di salute non conduce alla “sanitarizzazione” di ogni aspetto della vita del malato[57], ma al contrario, ci fa comprendere come la salute vada oltre a quanto è di stretta attribuzione della professione medica.

L’idea di benessere “globale” muove i processi ed i percorsi dell’integrazione socio-sanitaria, mediante il coordinamento tra interventi di natura sanitaria e sanitario-assistenziale con interventi di natura sociale, a fronte di bisogni di salute molteplici e complessi, non solo legati all’aspetto medicale: ciò risulta di particolare evidenza nella medicina palliativa, laddove all’alta personalizzazione della cura in senso medico si affiancano interventi, individuati e posti in essere da un’équipe multidisciplinare, volti a valorizzare le capacità residue di autonomia del soggetto, nell’intento di identificare, alleviare e gestire la sofferenza attraverso la presa in carico del benessere fisico, psicologico, sociale e spirituale.

Tornando, adesso, al concetto di salute, il dettato dell’articolo 32 della nostra Costituzione non ne dà una compiuta definizione, ma, tramite una formulazione sintetica, che per la sua rigorosità ed immediatezza parte della dottrina ha definito solenne[58], intende tutelarne il relativo diritto[59].

La salute, come «diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività»[60], può essere intesa, secondo due diverse accezioni: in base alla prima, il diritto alla salute è un diritto individuale alla integrità psico-fisica, connotato dall’essere anche espressione della libertà individuale (sia libertà positiva che libertà negativa); in base al secondo profilo, il diritto alla salute è inteso come diritto sociale di prestazione[61].

Il diritto alla salute si interseca e si intreccia con un’elevata quantità di valori e diritti costituzionalmente garantiti, aventi lo scopo di garantire una condizione ottimale di benessere e di efficienza psico-fisica.

La sua trasversalità gli consente di toccare differenti corde e branche del diritto, fino a regolare questioni attinenti alla vita strettamente personale ed intima dei consociati (si pensi alla dignità della persona, il fine vita e le cure palliative).

La nostra Costituzione dimostra, dunque, di aver colto appieno la complessità che caratterizza la struttura del diritto alla salute, evidenziandone la multidimensionalità con componenti soggettive e oggettive, legate in primo luogo alla persona, ma anche alla famiglia, all’ambiente di vita e, in generale, alla collettività[62].

All’evoluzione normativa si accompagna infine il percorso compiuto dalla giurisprudenza, che pure sembra aver condotto al riconoscimento di un’idea ampia e identitaria di salute, in particolare nelle decisioni sul diritto all’autodeterminazione, tema che sarà più volte esplorato nel corso della presente indagine.

 

  1. Cure palliative, terapia del dolore e fine vita: Alla ricerca di una chiave ermeneutica che rispetti la vita comunque intesa.

Quando si tratta la materia dei diritti del malato e dei trattamenti obbligatori e facoltativi, non si piò fare a meno di addentrarci nella fase c.d. del “fine vita”.

Trattare temi come cure palliative, terapia del dolore, fine vita, esige una esplorazione dell’”essere” uomo alla ricerca delle ragioni fondanti e di risposte a quei quesiti esistenziali che assillano da sempre l’intero genere umano: Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo? Il noto pittore che diede vita all’opera omonima[63]  e che ne assunse, o forse è meglio dire, ne assorbì i dilemmi è uno dei tanti esempi che l’arte ci offre, un momento che accomuna ogni essere umano, ma che per ciascuno trova un viaggio diverso.

Nell’opera “D’où venons nous / Que sommes nous / Où allons nous”, Gauguin incorpora la sintesi di tutte le sue angosce che si manifestano come un sentimento di malessere profondo, di inquietudine, di smarrimento e che tormenta il suo spirito: la disperazione. Kierkegaard affermò: “La disperazione è una malattia nello spirito, nell’io, e così può essere triplice: disperatamente non essere consapevole di avere un io; disperatamente non voler essere sé stesso; disperatamente voler essere sé stesso.[64]

Gauguin con il tentativo di suicidio è nella fase: “disperatamente non voler essere sé stesso”. Con la realizzazione del quadro in quella:” disperatamente voler essere sé stesso”.

Che scrive non potrà che accarezzare temi tanto profondi, ma l’umanità che ci domina e il ruolo di giurista impone una ricerca continua e spasmodica alla ricerca del diritto e nel diritto, il limite alla scelta che l’uomo ha, e sino a che punto è giusta, e allo stesso tempo quando e come, il diritto possa prendersi cura della fragilità umana.

La questione attinente al ricorso alle cure palliative ed al loro ambito di applicazione ha cessato di essere un tema riservato esclusivamente alla trattazione della clinica medica ed è divenuta, invece, rilevante anche per i giuristi sin da quando, con la legge n. 39 del 26 febbraio 1999, le cure palliative sono state inserite nell’azione di intervento pubblico sanitario, con conseguente ampliamento dell’ambito di incidenza anche nella fase non terminale della malattia[65].

La spiritualità, che non si identifica per tutti in una fede o in una religione, è ormai anche in ambito medico un aspetto dell’uomo che necessita di cure, e in specie nei temi in trattazione la cura spirituale non è meno importante della cura del dolore: ma come è possibile in una società secolarizzata parlare di spiritualità, che cosa si intende oggi per spiritualità?

Alcuni studi significativi hanno evidenziato come la spiritualità possa e debba essere considerata un concetto ben più ampio rispetto a quello di religione, mentre quest’ultima rappresenterebbe una sola tra le sue possibili modalità di espressione per l’uomo, meno legata all’intimità del singolo e più socialmente e culturalmente determinata[66].

Viene discusso un modello ampliato per concettualizzare le esperienze umane sacre in cui il termine Spiritualità viene ampliato per includere: (1) Spiritualità ritualistica, (2) Spiritualità teistica e (3) Spiritualità esistenziale, tuttavia, chi scrive non ha rinvenuto un provvedimento che recepisca questo modello ampliato.

Anche Platone indicava le tre dimensioni dell’anima: concupiscibile, irascibile, razionale.

Per Platone finché abbiamo un corpo siamo “morti” perché siamo la nostra anima, e l’anima, finché è in un corpo, è come in una tomba e quindi mortificata.

Dunque in Platone la morte è un episodio che ontologicamente riguarda unicamente il corpo e non danneggia l’anima ma le arreca grandi benefici consentendole di vivere una vita più vera senza ostacoli e interamente congiunta all’intellegibile.

Per la Chiesa cattolica, invece fino al concilio di Costantinopoli del 869 d.C., indicava i tre mondi (corpo, anima, spirito), dopodiché scompare l’anima e rimangono il corpo (soma) e lo spirito (nus).

Ciò avviene forse per un pasticcio di traduzione, ma anche per ragioni di potere.

L’anima in greco è psucké (femminile), mentre lo spirito umano incarnato è nus. Nel III e IV sec. d.C. il greco è una lingua in declino mentre il latino è in ascesa. Anima e spirito vengono identificati con anima e il Concilio dichiara che chi dice animus anziché anima è scomunicato.

Ma per Paolo di Tarso era chiaro che l’uomo era fatto di queste tre parti.

Nella prima lettera ai Tessalonicesi (5,23) dice «…e l’intero essere vostro, lo spirito, l’anima e il corpo, sia conservato irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo».

Nella prima lettera ai Corinzi (2, 1415) parla inoltre di un uomo naturale e di un uomo spirituale. Cosa sono questi due tipi di uomo? In realtà una traduzione corretta indica una dimensione dell’uomo animica (psichica) e di una dell’uomo spirito.

Tornando, adesso ad esplorare lo spirito sotto un profilo scientifico, alcuni studiosi, attraverso un questionario self-report composto da 67 item raccolti da 1.301 studenti universitari hanno raccolto una serie di fattori analitici finendo per elaborare una struttura a tre fattori coerente con il modello teorico guida e il raffinamento, ha prodotto tre sotto scale da 10 item. (prove di validità di costrutto e proprietà psicometriche valide erano indicative di uno strumento affidabile, valido e unico per la valutazione la natura multidimensionale della spiritualità[67]).

Una spiritualità ottimamente sana (cioè, in ultima analisi, promuovere la salute e il bene personale rapporti con gli altri) è teoricamente rappresentata come un punto relativamente equilibrato nell’area centrale del nostro modello triangolare ((1) Spiritualità ritualistica, (2) Spiritualità teistica e (3) Spiritualità esistenziale).

Nella spiritualità, come costrutto generale, tutte e tre le dimensioni della spiritualità, ovvero, Religioso, Teistico ed Esistenziale, si sovrappongono nella loro inclusione di credenze e pratiche componenti[68].

Invero, tutte e tre le dimensioni della spiritualità presuppongono o sono fondate sulla fede in una o più entità esterne (ad esempio, divinità, natura e conoscenza) che sono trascendenti e/o sacri.

In quanto tale, ciascuno delle dimensioni della spiritualità, nella loro essenza, aderisce ai tre aspetti critici di religiosità/spiritualità proposta da Zinnbauer e Pargament (2005); ''significato,'' … “cercare”, … [e], “sacro” (pp. 33-34): sulla base di tali assunti, la definizione di base di Il costrutto generale della spiritualità è: la ricerca saliente e approfondita degli aspetti rituali, teistici e/o esistenziali trascendentemente sacri della condizione umana

Allo stesso modo, comportamentale le pratiche o le attività legate a tali credenze svolgono un ruolo in ciascuna dimensione.

Mentre gli individui possono identificarsi con qualsiasi dimensione, si ritiene fondamentale mantenere il rispetto per gli altri nel contesto dei suddetti punti di partenza.

Cioè, mentre un individuo può preferire o inclinare verso una particolare dimensione della spiritualità, la spiritualità ottimale è pensato per includere livelli da modesti a moderati di ciascuna delle tre dimensioni, piuttosto che un’attenzione prepotente su una delle dimensioni.

Ad esempio, un individuo ateo o agnostico (cioè crede nell'inesistenza della divinità o crede che l'esistenza della divinità sia inconoscibili, rispettivamente) possono ancora essere spirituali e avere livelli esistenziali più elevati Spiritualità.

Tuttavia, la misura in cui un tale individuo ignora o manca di rispetto (intenzionalmente o inavvertitamente) altre dimensioni della spiritualità può portare a una spiritualità tutt’altro che ideale (ad esempio, intolleranza, pregiudizio e ostilità).

La distinzione tra spiritualità ottimale e separata sia giusta analogo, e

probabilmente empiricamente parallelo, al coping religioso positivo/negativo[69] ed emozioni costruttive/distruttive[70].

I concetti associati alla spiritualità religiosa, possono essere etichettati come spiritualità ritualistica. È possibile descrivere comportamenti e pratiche religiose come rituali, in particolare quando strutturati e/o nel contesto di obbedienza alle direttive da divinità o coloro che sono leader umani rappresentativi.

Se l’insondabilità oscura dell’anima di ciascuno ci farebbe incomunicanti, per i cattolici, lo spirito che alberga in ciascuno di noi, depositato come una scintilla, dopo l’incarnazione di Gesù Cristo, è il centro dell’Essere Umano. L’anima, in mezzo, ha come radici verso il corpo e verso lo spirito. Una persona non evoluta ha un’anima attratta solo dalle funzioni del corpo. Gli stessi pensieri e lo spirito sono trascinati e servono al solo soddisfacimento dei bisogni fisici, corporei.

Potrebbe anche essere usato questo nuovo termine utile nel prevenire il perpetuarsi della dicotomia tra religiosità e spiritualità, in particolare nel contesto dei suoi effetti potenzialmente polarizzanti[71], e confusione associata all’uso e/o alla congiunzione di tali termini.

Già Aristotele, in polemica con Platone, indicava quanto importante fosse un sano corpo per un sano pensare, ma altro è ridurre l’Essere Umano a funzioni fisiche, materiali.

Già per Aristotele la parte più divina dell’uomo era l’intelletto.

Il pensare (mente) unito al sentire (cuore, morale) origina un nostro pensiero originale e come tale creativo, creatore, che è il compito assegnatoci come creature che devono a loro volta creare (non solo far figli).

Se per gli antichi uomini lo spirito si esprimeva nelle intuizioni (un dono che ancora oggi molti possiedono, una sorta di informazioni che provengono dallo spirito), per l’uomo moderno, così pressato dalle tecnologie, queste facoltà intuitive sono molto sopite.

Dobbiamo così ricorrere alle forze del pensiero, come capacità autonoma di un "Io" che non possiede l’animale (che è invece come posseduto dalle impressioni esterne, da una sorta di "io di gruppo").

Facilitare l’accettazione che tutte le dimensioni della spiritualità possono possedere sia il bene che il male potenzialità[72].

Sarà indispensabile, a latere dell’esame normativo affrontare questioni bioetiche religiose e laiche.

 

  1. Qualità della vita tra bioetica religiosa, bioetica laica e qualità della vita.

Il termine “bioetica” è stato usato per la prima volta nel 1970 dall’oncologo americano Van Rensselaer Potter, nel suo articolo “Bioerhics. The sciense of survival”, il quale riteneva che si dovesse creare una nuova disciplina che racchiudesse in sé sia la conoscenza biologica, sia i valori umani: “ho scelto la radice bio per rappresentare la conoscenza biologica, la scienza dei sistemi viventi; ed ethics per rappresentare la conoscenza del sistema dei valori umani”. Potter ha inteso la bioetica come una scienza il cui raggio d’azione avrebbe dovuto essere l’uomo ma anche ogni suo intervento sulla vita in generale.

L’ambito proprio della bioetica deve far riferimento alle nuove condizioni nelle quali si verificano il nascere, il morire e il prendersi cura degli esseri umani.

La sua natura è multidisciplinare perché include al suo interno varie materie quali la biologia, la medicina, la filosofia, il diritto, la religione.

Le problematiche legate alla bioetica sono numerose, infatti le sue tematiche tipiche sono quelle che riguardano l’aborto, l’accanimento terapeutico, la contraccezione, l’utilizzo delle cellule staminali, la clonazione, l’eutanasia, l’ingegneria genetica, la procreazione assistita, la sperimentazione clinica dei farmaci, la sterilizzazione, il suicidio, il trapianto di organi.

Nel corso degli anni la bioetica diventa una vera e propria disciplina ed entra a pieno titolo nell’ambito della scienza, diversificandosi secondo i valori di chi la sviluppa: si creano due grandi correnti la bioetica laica rappresentata dalla nozione di qualità della vita come valore dell’esistenza umana e la bioetica cattolica di matrice religiosa centrata sul concetto di dignità della persona come valore fondante e quindi sulla sacralità della vita.

 

  1. Questioni bioetiche ricorrenti: cenni.

 La bioetica laica pone a suo fondamento la responsabilità umana di prendere decisioni in merito all’inizio e alla fine della propria esistenza: la cosiddetta “etica della disponibilità della vita, l’individuo deve essere libero di poter scegliere, in situazioni particolarmente difficili, secondo le sue considerazioni, le sue credenze. La bioetica laica non vuole essere antireligiosa ma più semplicemente areligiosa: “essere laici, quindi non implica affatto né l’agnosticismo né l’ateismo, ma solamente l’esclusione di premesse metafisiche o religiose che pretendono di valere per tutti”.

Il principio della bioetica laica è tradizionalmente espresso con la formula “etsi Deus non daretur”, a significare che “laico” è colui che ragiona come se Dio non ci fosse.

La definizione di bioetica laica è di fatto in continua evoluzione non potendo approdare ad una visione unica; la bioetica laica è oggi un insieme di differenti vedute, anziché un corpus di valori unitario anche se non mancano tentativi di definirne, almeno i caratteri generali sino a ritenere il pluralismo, quindi più visioni morali, il carattere predominate.

Inutile, tuttavia, sottolineare che pluralismo di visioni morali finisce per impedire la creazione di una vera identità e autorità. Dal punto di vista dell’interprete, l’assenza di una unicità di una visione morale impedisce una lettura univoca delle norme rischiando di approdare ad interpretazioni, anche distanti tra loro finendo per svilire il principio della certezza del diritto.

Citando Papa Benedetto XVI “si parla di pensiero laico, di morale laica, di scienza laica, di politica laica. In effetti alla base della concezione c’è una visione areligiosa della vita, del pensiero e della morale: una visione, cioè, che trascende la pura ragione, per una legge morale di valore assoluto, vigente in ogni tempo e situazioni[73]”.

La bioetica laica è dunque un insieme di diverse visioni ideologiche, nelle quali è possibile comunque individuare alcuni valori che concorrono a definire l’approccio “laico” alla bioetica e a distinguerli da quelli ispirati dalle religioni.

Per i laici il pluralismo è un valore fondamentale da indicare e da ampliare per la sua conoscenza. Altri aspetti che accomunano e identificano i criteri del porgersi alla bioetica sono: la centralità dell’autonomia e della libertà individuale nelle decisioni che riguardano la vita e la morte nel senso che non devono esistere limiti alla volontà di autodeterminarsi e di automanipolazione; il valore attribuito alla qualità della vita; la disponibilità della vita in relazione alle personali convinzioni e quindi piena autonomia decisionale dell’uomo nello scegliere come vivere e come morire rispetto agli ordini sacri o profani precostituiti, e di conseguenza il diritto di accettare o di rifiutare le cure dopo opportune informazioni.

In Italia la bioetica si è data un documento di riferimento nel “Nuovo manifesto di bioetica laica” presentato a Torino il 25 novembre 2005. In questo documento sono presentati i principi fondamentali sui quali si fonda la bioetica laica: il principio della qualità della vita, non sempre la vita è degna di essere vissuta. In determinate situazioni essa deve poter essere modificata o interrotta.

Per garantire questo diritto deve essere tutelato il principio di autodeterminazione e di autonomia individuale, nel rispetto degli spazi di scelta altrui, che a sua volta porta ad una scelta liberale.

Una società può dirsi liberale quando i suoi cittadini hanno la libertà di esercitare la propria autonomia e tutte le posizioni morali sono ritenute degne di uguale rispetto.

Il principio di autonomia, ogni individuo ha pari dignità e non devono essere autorità superiori ad arrogarsi il diritto di scegliere per lui le questioni che riguardano la sua salute e la sua vita.

Il principio di equità, cioè garantire ad ogni individuo un eguale accesso alle cure mediche.

Il principio della separazione della morale dal diritto, dove i principi morali si fondano sull’adesione volontaria da parte degli individui nello sviluppo, soprattutto, nel campo biomedico, il legislatore deve intervenire solo nei casi in cui vi sia una lesione ai danni di altri individui.

Il principio del diritto alla qualità della vita, rappresentato dallo stato di benessere fisico, psichico e sociale per vivere una vita piacevole, produttiva e ricca di significato. Il concetto di qualità della vita non è riconducibile soltanto ai dibattiti in merito alla circostanza di fine vita, ma anche riguardo all’inizio della vita umana e durante il suo iter.

La vita non è sacra, né in senso biologico né in senso biografico, quello che può essere ritenuto sacro, nel senso di intoccabile e irrinunciabile, è il diritto del singolo individuo all’autodeterminazione nel rispetto della sfera altrui. In questo caso l’individuo ha il diritto di decidere per sé il criterio che determina quando una vita sia decorosa e biologicamente funzionale.

A proposito del principio dell’autodeterminazione, che ispira la bioetica laica, interessante sono le parole di Demetrio Neri: “Questo principio conferisce ad ognuno di noi il diritto di definire e ridefinire per sé lo stile di vita che intende perseguire, i valori che intende condividere insieme al diritto di poter assumere le decisioni che riguardano la propria vita in modo indipendente e libero da interferenze esterne. In quanto autonoma (e salvo personali limitazioni, come la giovane età o una malattia mentale), ogni persona ha diritto al rispetto delle decisioni che assume per governare la propria vita in accordo ai valori che condivide e alla propria visione del bene. Naturalmente questo diritto trova una limitazione nell’eguale diritto altrui e quindi è del tutto appropriato, su questa base, porre dei limiti alle azioni che ognuno di noi può compiere per realizzare il proprio piano di vita. Questi limiti riguardano le azioni, ma non il diritto all’autodeterminazione in sé considerato: nessuno infatti può arrogarsi il diritto di decidere al posto mio ciò che è bene per me”.

Tutte queste differenze consentono, tuttavia, di individuare due modelli teorici che si ispirano a loro volta a due concezioni del mondo e a due distinte filosofie, una a carattere religioso e l’altra laica. Il primo modello è rappresentato dalla bioetica cattolica della sacralità della vita, il secondo modello è rappresentato da quello laico della qualità della vita. In realtà i due modelli non sono in antitesi tra loro, sacralità della vita non significa ignorare la qualità della vita, anzi, è proprio la sacralità ad avvalorare la qualità della vita stessa. Chi scrive non condivide il pensiero di chi sostiene che “la bioetica non è né religiosa, né laica ma semplicemente etica “ (Lucas) ponendo di fatto, l’etica, fuori da ogni paradigma inteso come modo complesso di vedere e concettualizzare la realtà così da fungere da parametro di giudizio e schemi di valore del discorso bioetico.

Ciò che distingue la bioetica laica da quella cattolica è il rifiuto dell’idea teologico-metafisica di un “piano divino del mondo” con funzione normativa.

La laicità sottintende, invece, il rifiuto della metafisica. Da un lato dunque il cattolicesimo Romano che crede nella possibilità di dimostrare razionalmente la verità metafisica, ovvero, l’esistenza di Dio e l’esistenza di un disegno divino iscritto nell’ordine del mondo; la laicità, invece, ritiene che si debba prescindere da quest’assunto, ovvero interpretano l’”etsi deus non daretur” in senso ampio, cioè come se Dio (metafisica) non ci fosse[74].

Dunque, “la qualità della vita” nella visione laica, solitamente contrapposta alla visione cattolica della vita caratterizzata dalla sacralità, una nuova etica del vivere e morire, in questa ottica laica gioca un ruolo fondamentale l’idea secondo cui della qualità della vita è parte integrante la capacità dell’uomo di dare un senso alla propria vita, ossia la libertà di scegliere autonomamente la propria esistenza.

La visione laica della vita tra dunque la propria origine da una visione aristotelica, ripresa da Seneca secondo cui “non enim vivere bonum est, sed bene vivere”, per cui secondo tale bioetica non è la vita in quanto tale, o in quanto espressione di un valore di ordine religioso o metafisico a possedere un valore, ma la qualità della vita, ovvero una vita che deve essere degna di essere vissuta.

Stuart Mill[75], ritiene la qualità della vita in funzione della presenza di stati piacevoli e dell’assenza di stati dolorosi (primo paradigma risalente all’utilitarismo qualitativo).

Il secondo paradigma dell’utilitarismo delle preferenze sostiene che la qualità della vita dipende dalla soddisfazione delle preferenze e deli interessi degli individui, ovvero, ciò che questi ultimi, in base alloro conetto di vita, desiderano in maniere più o meno esplicita.

Il terzo paradigma ritiene che la qualità della vita vada misurata in rapporto ad alcune capacità essenziali per lo sviluppo della persona umana, capacità che risiedono ad esempio in non morire prematuramente, essere nutriti adeguatamente, buona salute, muoversi liberamente, la possibilità del piacere sessuale, l’uso dei cinque sensi, l’immagine, il pensiero, il ragionare: dei tre paradigmi il più diffuso è il secondo.

Da ciò deriva che in una ottica pluralistica, gioca un ruolo fondamentale l’idea che della qualità della vita fa parte integrante la capacità di dare un senso alla propria vita, ossia la capacità di scegliere liberamente la propria qualità di vita: scegliere significa far riferimento al principio cardine della bioetica, ovvero, quello dell’autonomia decisionale dei singoli individui.

Concludendo si può affermare che l’impostazione laica parte da alcuni presupposti quale la difesa del principio di autonomia e del rispetto dell’autodeterminazione dell’individuo limitato solamente alla possibilità di un eventuale danno ai terzi che implichi una diseguaglianza tra i cittadini in base al principio secondo il quale la mia libertà deve essere garantita dagli altri e garantire a sua volta la libertà altrui.

La bioetica laica vede “nel progresso della conoscenza la fonte principale del progresso dell’umanità, perché è soprattutto dalla conoscenza che deriva la diminuzione della sofferenza umana.

Ogni limitazione alla ricerca scientifica imposta nel nome dei pregiudizi che questa potrebbe comportare per l’uomo equivale in realtà a perpetuare sofferenze che potrebbero essere evitate”

Mentre a fondamento della bioetica laica è la qualità della vita e la libertà dell’individuo, in quella cattolica è il principio della dignità e della sacralità della vita umana dal concepimento alla morte naturale.

Questo principio si basa sul fatto che ogni persona è stata voluta da Dio per sé stessa ad immagine e somiglianza del Dio vivente e santo, rendendo la vita di ogni persona non disponibile né nella fase iniziale (esempio pratica dell’aborto) o nella fase terminale (con la sospensione dell’alimentazione e della idratazione artificiale e quindi con l’eutanasia o “suicidio assistito”).

Secondo la bioetica cattolica la vita è un dono che l’essere umano deve solo gestire con cura e attenzione, il solo a poterne disporre è Dio: “la vita che Dio offre all’uomo è un dono con cui Dio partecipa qualcosa di sé alla sua creatura”.

Il principio che l’uomo è stato creato a immagine di Dio è stato chiamato in causa da molti studiosi per sostenere le posizioni del Magistero della Chiesa Cattolica sulle problematiche sollevate dall’evolversi della scienza nel campo medico: “Dio, essere personale, dona all’uomo la dignità di persona: tale dignità è essenziale, riguarda il significato più profondo della vita umana e quindi non può essere diminuita o annullata da niente e da nessuno. Da queste premesse deduciamo che neppure malformazioni fisiche e menomazioni psichiche, per quanto gravi possano essere, sono in grado di affievolire il valore della vita umana, al punto da farle perdere il diritto che è fondamentale per ogni uomo: il diritto alla vita”.

Il concetto della “inviolabilità” e dell’“immutabilità” della vita porta alcune conseguenze nell’ambito della biomedicina: il precetto di non uccidere che orienta e regolamenta le decisioni dei medici, operatori sanitari e familiari che devono affrontare situazioni estreme e complicate.

Un esempio lo si può riscontrare nell’ambito dei problemi sollevati, nell’ambito dell’opinione pubblica, da aborto ed eutanasia i quali devono sempre essere risolti a favore della vita: nel caso dell’aborto non è lecito ricorrervi neanche in presenza di grave rischio della salute della madre o in quello dell’eutanasia non è giustificato né in situazioni di grande sofferenza né nei casi di una volontaria e consapevole riflessione.

Il diritto di salvaguardare la vita è prioritario rispetto a tutto in quanto entità sacra non a disposizione dell’uomo. In sostanza i principi cui si ispirano i documenti del Magistero cattolico che si occupano di questi temi possono così riassumersi:

Principio dell’inscindibilità del significato unitivo e procreativo dell’atto coniugale, il dono della vita umana deve realizzarsi nel matrimonio con atti specifici ed esclusivi degli sposi secondo le leggi inscritte nelle loro persone e nella loro unione.

Principio cui ciò che è tecnicamente possibile non è moralmente ammissibile. Questo principio è particolarmente applicato alla fecondazione assistita, soprattutto nel campo della ricerca non terapeutica dell’embrione. Il giudizio morale sui metodi di procreazione artificiale riconosce che l’embrione sin dal suo concepimento è già un essere umano e la loro manipolazione è una offesa alla sacralità della vita umana, e le parole dell’Evangelium Vitae ne sono la dimostrazione: “Anche le varie tecniche di riproduzione artificiale, che sembrerebbero porsi al servizio della vita e che sono praticate non poche volte con questa intenzione, in realtà aprono la porta a nuovi attentati contro la vita. Al di là del fatto che esse sono moralmente inaccettabili, dal momento che dissociano la procreazione dal contesto integralmente umano dell’atto coniugale, queste tecniche registrano alte percentuali di insuccesso: esso riguarda non tanto la fecondazione, quanto il successivo sviluppo dell’embrione, esposto al rischio di morte entro tempi in genere brevissimi. Inoltre, vengono prodotti talvolta embrioni in numero superiore a quello necessario per l’impianto nel grembo della donna e questi cosiddetti “embrioni soprannumerari” vengono poi soppressi o utilizzati per ricerche che, con il pretesto del progresso scientifico o medico, in realtà riducono la vita umana a semplice “materiale biologico” di cui poter liberamente disporre”.

Secondo l’ordine morale cattolico nessun atto può essere lecito se rappresenta una manipolazione dell’embrione. La fecondazione artificiale eterologa non è conforme alle proprietà oggettive ed inalienabili del matrimonio (il figlio, quale immagine vivente dell’amore dei genitori, può scoprire la sua identità e le sue origini parentali per ricostruire la sua identità personale solo nel matrimonio e soprattutto nella sua indissolubilità). La maternità sostitutiva è moralmente inammissibile in quanto contraria agli obblighi di una madre verso il proprio figlio perché offende la sua dignità e il suo diritto ad essere concepito, portato in grembo, messo al mondo ed educato dai genitori legati nel matrimonio.

La sofferenza per la sterilità coniugale, pur rappresentando una sofferenza per gli sposi non poter avere figli, non può essere una giustificazione, infatti la Chiesa chiede di tener presente che il matrimonio, inteso come vita coniugale, non perde di valore nell’ipotesi non vi sia procreazione. In questo caso l’amore può essere donato attraverso l’istituto dell’adozione perché il rapporto che scaturisce fra l’adottato e l’adottante è così forte, intimo e duraturo da non essere inferiore a quello fondato sull’appartenenza biologica.

Il ricorso all’aborto, la Chiesa lo definisce come “omicidio” che non può essere giustificato in nessun caso e da nessuna ragione, neanche se serve a salvare la vita della donna: la vita è un dono e come tale deve essere difeso.

La posizione ufficiale della Chiesa nel rapporto tra morale e bioetica è ben chiara nell’Enciclica Veritatis Splendor[76]: “il rapporto tra fede e morale splende in tutto il suo fulgore nel rispetto incondizionato che si deve alle esigenze insopprimibili della dignità personale di ogni uomo, a quelle esigenze difese dalle norme morali che proibiscono senza eccezioni gli atti intrinsecamente cattivi. L’universalità e l’immutabilità della norma morale manifestano e, nello stesso tempo, si pongono a tutela della dignità personale, ossia dell’inviolabilità dell’uomo, sul cui volto brilla lo splendore di Dio. L’inaccettabilità delle teorie etiche teleologiche, consequenzialistiche e proporzionaliste, che negano l’esistenza di norme morali negative riguardanti comportamenti determinati e valide senza eccezioni, trova conferma particolarmente eloquente nel fatto del martirio cristiano, che ha sempre accompagnato e accompagna tuttora la vita della Chiesa”. Ed ancora: “Di fronte alle norme morali che proibiscono il male intrinseco non ci sono privilegi né eccezioni per nessuno. (…) Così le norme morali, e in primo luogo quelle negative che proibiscono il male, manifestano il loro significato e la loro forza insieme personale e sociale: proteggendo l’inviolabile dignità personale di ogni uomo, esse servono alla conservazione stessa del tessuto sociale umano e al suo retto e fecondo sviluppo”.

Il massimo principio morale da rispettare secondo la Chiesa è quello di “non uccidere” che determina, di conseguenza, la condanna, senza appello, dell’aborto e dell’eutanasia: “la scelta deliberata di privare un essere umano innocente della sua vita è sempre cattiva dal punto di vista morale e non può mai essere lecita né come fine né come mezzo per un fine buono. È, infatti, grave disobbedienza alla legge morale, anzi a Dio stesso, autore e garante di essa; contraddice le fondamentali virtù della giustizia e della carità. Niente e nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato incurabile o agonizzate. Nessuno, inoltre, può richiedere questo gesto omicida per sé stesso o per un altro affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo” (Da Evangelium Vitae).

Questi principi della Chiesa e della loro influenza sulle decisioni da parte di legislatori e politici italiani lo si è visto in occasione dell’approvazione delle leggi sul divorzio e sull’aborto, sulla procreazione assistita e sull’iter legislativo della proposta di legge sull’eutanasia. Secondo la Chiesa la scienza e la tecnica devono rispettare i criteri fondamentali della morale cioè devono essere al servizio dell’uomo, dei suoi diritti inalienabili ma soprattutto secondo il progetto e la volontà di Dio[77].

Con il progredire della società e, soprattutto, delle nuove tecnologie che attribuiscono all’uomo la possibilità di intervenire sull’evolversi dello studio e dell’ambiente, molti studiosi si sono posti il problema della regolamentazione dello sviluppo degli studi scientifici sia in fase di ricerca sia in quella di utilizzo.

Nessuna formula o definizione, però, potrà portare a identificare ciò che è giusto o sbagliato che sia valida per tutti gli individui di ogni tempo e luogo. Spesso le decisioni vengono assunte più per conformismo a tradizioni culturali e contesti socio – educativi piuttosto che in base ad una critica riflessione su di esse.

Tra queste opportunità si trova quella di indagare le proprie convinzioni e le proprie personali risposte etiche alla luce di quelle altrui, assumendo un atteggiamento tollerante in modo da contribuire ad uno scambio di vedute tra gli esseri umani[78].

Per riflettere sugli interrogativi etici sollevati dal progresso scientifico che ha condotto a nuove situazioni e a nuovi contesti è nata la bioetica.

La contrapposizione tra bioetica laica della qualità della vita e la bioetica cattolica della sacralità della vita ha portato ad un contrasto incolmabile tra le due etiche: “la contrapposizione tra bioetica cattolica e bioetica laica è stata sviluppata, in buona misura artificiosamente. È una polemica di alcuni centri e studiosi per contrapporre a una visione aperta e rispettosa delle scelte di tutti – quale sarebbe quella laica -, la visione cattolica indicata come chiusa e intollerante, inaccettabile in una società pluralistica ed eterogenea come la nostra. L’opposizione tra bioetica cattolica e bioetica laica è dunque fuorviante e fittizia[79].

La contrapposizione tra bioetica cattolica e bioetica laica può essere ridotta con una elaborazione teorica che sia più vicina possibile alle molteplici realtà in cui viviamo, che tenga conto delle differenze reali che caratterizzano la società e che non si basi solo sulla volontà di voler imporre dei principi generali da far valere per tutti senza nessuna distinzione. Solo un costante e reale confronto tra modelli di valori diversi potrà evitare le prevaricazioni di alcune correnti ideologiche sulle altre, in questo modo si consente di collocare nella giusta prospettiva i vari problemi che la scienza e la sanità devono affrontare al loro interno.

Bisogna lasciare più spazio possibile perché un individuo possa svilupparsi secondo le proprie personali aspirazioni, convinzioni e valori, ma anche con la consapevolezza e la necessità di porre dei limiti solo nel momento in cui ci sia la possibilità di procurare un danno ad altri. Solo con il dialogo si può favorire un atteggiamento che tiene conto delle differenze e che non si nasconde dietro degli intenti e delle volontà inesistenti, il dialogo “contribuisce alla realizzazione personale e alla mutua fecondazione fra le tradizioni dell’umanità che non possono vivere più in stato di isolamento, separate tra loro da muri di diffidenza reciproca[80].

 

  1. Le cure palliative: definizione e principi.

Le cure palliative sono state riconosciute e inserite nel Sistema Sanitario Nazionale Italiano nel 1999 con la Legge 39/99 che sancisce la nascita dei c.d. “Hospice”.

Innanzitutto ’aggettivo “palliativo” con cui venivano indicate si rifaceva al termine latino pallium, che significava mantello, per sottolineare l’avvolgente presa in carico, proprio come un mantello, del dolore del malato con terapie mediche e psicologiche.

L’inutilità del dolore da cancro, considerato una sofferenza fine a se stessa perché priva del ruolo di campanello d’allarme, e la sua insopportabilità, unite all’elevata incidenza e mortalità della malattia neoplastica in quegli anni, hanno spinto tanti clinici tra cui l’oncologo Umberto Veronesi, a quel tempo direttore generale dell’Istituto Nazionale dei Tumori dal 1975, e l’anestesiologo professor Vittorio Ventafridda, responsabile del Servizio di Terapia del Dolore e di Cure Palliative e direttore scientifico della Fondazione Floriani, a intraprendere una personale battaglia contro il dolore neoplastico.

Il professor Ventafridda, portando dagli Stati Uniti l’esperienza di una scuola già consolidata sul dolore, fondò nel 1986 la Società Italiana di Cure Palliative. Dall’impegno di questi due clinici e con l’aiuto di altri colleghi, venne istituita anche la European Association for Palliative Care volta a diffondere le cure palliative in Europa.

Le cure palliative, che racchiudevano in sé il concetto di terapia del dolore, hanno cominciato a organizzarsi negli anni ’80 con l’aiuto anche della Fondazione Floriani, nata nel 1977 con il preciso scopo di diffonderle e applicarle ai pazienti in fase terminale.

Il “processo del morire” appare diluito nel tempo e si distingue come fase autonoma dell’esistenza in grado di reclamare un corpus di diritti e regole proprie[81], tra le quali assume una posizione centrale il “diritto a non soffrire”, strettamente correlato ai principi della dignità umana, dell’autodeterminazione terapeutica e della solidarietà.

Per dare corpo a tali principi se ne richiamano anzitutto i contenuti minimi, prendendo le mosse dalla «Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina» del 4 aprile 1997, ratificata in Italia con l. 28 marzo 2001, n. 145, il cui art. 1 prevede un obbligo di protezione dell’essere umano nella sua dignità e nella sua identità, garantendo ad ogni persona, senza discriminazione, il rispetto della sua integrità e degli altri diritti e libertà fondamentali, riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina.

Nel quadro normativo delle fonti sovranazionali, il principio di dignità trova espliciti riferimenti, come già accennato, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ora integrata nel Trattato costituzionale europeo (art. II-63, comma 2) - il cui art. 1 afferma che la dignità umana è inviolabile - e in numerose raccomandazioni del Consiglio d’Europa[82].

In particolare, si richiama quella del 25 giugno 1999 n. 1418, destinata ai malati incurabili ed ai pazienti in punto di morte[83], che sottolinea l’esigenza di tutela della dignità del malato di fronte all’accresciuta tecnicizzazione della medicina, volta a prolungare artificialmente la vita del sofferente.

Nell’ambito del “processo del morire”, viene in rilievo, quale corpus di diritti e norme, la disciplina delle cure palliative, che proprio al carattere olistico che le contraddistingue devono il loro nomen.

Palliativo deriva, infatti, dal latino pallium, ossia, mantello, che, oltre ad assolvere ad una funzione protettiva, possiede un carattere altamente simbolico legato al gesto solidaristico del prestare aiuto ad una persona in stato di bisogno.

Nell’apparato di norme di cui si compone la l. n. 38 del 2010 è, infatti, contemplata anche la c.d. “terapia del dolore”. Mentre le cure palliative si rivolgono alla cura dei pazienti con bisogno sanitario, sociale ed assistenziale “complesso”, in quanto malati ad uno stadio terminale, o ad una patologia ad esito probabilmente infausto, la terapia del dolore, intendendosi per tale «l’insieme di interventi diagnostici e terapeutici volti a individuare e applicare alle forme morbose croniche idonee ed appropriate terapie farmacologiche, chirurgiche, strumentali psicologiche e riabilitative, tra loro variamente integrate, allo scopo di elaborare idonei percorsi diagnostico-terapeutici per la soppressione e il controllo del dolore», che non include la famiglia del malato tra i suoi destinatari, è rivolta a prevenire e lenire il dolore fisico associato a forme morbose croniche ma non terminali.

L’espressione palliative care presenta, invece, carattere multidimensionale, poiché il termine care, come visto, corrisponde al verbo to care, cioè prendersi cura del soggetto con bisogni di cure palliative, mediante un approccio olistico, integrato e multidisciplinare. I caratteri e i principi che danno corpo alle cure palliative si ritrovano sotto varie formule nelle definizioni elaborate dalle organizzazioni sanitarie di riferimento.

Fondamentale è, per ovvie ragioni, quella dell’Organizzazione mondiale della sanità, che nel 2002 definisce il trattamento palliativo come «un approccio che migliora la qualità di vita dei pazienti e delle famiglie che hanno a che fare con i problemi associati ad una malattia potenzialmente mortale, attraverso la prevenzione e il trattamento della sofferenza e tramite l’identificazione tempestiva e il trattamento di altri problemi, fisici, psicologici e spirituali […]. Utilizzando un approccio multidisciplinare in équipe, le cure palliative rispondono ai bisogni dei malati e delle famiglie […] migliorano la qualità della vita e possono influire positivamente sul decorso della malattia […]»[84].

L’Oms descrive le cure palliative non come un ramo specialistico della medicina, bensì, come un «approccio», anche «multidisciplinare», quale insieme di saperi, tecniche ed interventi medici, il cui ambito di specializzazione coincide con l’area dei pazienti prossimi alla morte[85].

Da qui un evidente richiamo all’integrazione dei servizi e delle professionalità, approccio fatto proprio anche dalla l. l. 15 marzo 2010, n. 38 «Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore», che disciplina la medicina palliativa nel nostro Paese (l’analisi del provvedimento è rinviata ai paragrafi seguenti).

La predetta legge, nel definire le stesse come «l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici ed assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici» (art. 1, comma 1, lett. a), dispone che l’accesso ai trattamenti palliativi è tutelato e garantito «al fine di assicurare il rispetto della dignità e dell’autonomia della persona umana, il bisogno di salute, l’equità nell’accesso all’assistenza, la qualità delle cure e la loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze…» (art. 1, comma 2).

Per tali fini, le strutture sanitarie che erogano cure palliative «assicurano un programma di cura individuale per il malato e per la sua famiglia, nel rispetto dei seguenti principi fondamentali: a) tutela della dignità e dell’autonomia del malato, senza alcuna discriminazione; b) tutela e promozione della qualità della vita fino al suo termine; c) adeguato sostegno sanitario e socio-assistenziale della persona malata e della famiglia» (art. 1, comma 3).

È evidente anzitutto il richiamo all’integrazione socio-sanitaria, laddove l’art. 1, comma 1, lett. a) sottolinea l’approccio globale («cura totale») alla persona e l’art. 1, comma 3, lett. c) ricomprende tra i principi fondamentali un «adeguato sostegno sanitario e socio-assistenziale».

Le cure palliative non sono, infatti, limitate all’aspetto strettamente sanitario, ma sono estese anche ad interventi di tipo socio-assistenziale (il prendersi cura oltre che il curare) rivolti al malato ed alla sua famiglia, in un sistema, come si vedrà, articolato a rete. Nella disciplina che regolamenta la rete di cure palliative è pure frequente l’appello ai principi della dignità umana e dell’autodeterminazione terapeutica, non tanto al fine di una tenace difesa della vita e della sua indisponibilità, quanto, piuttosto, per la piena affermazione del diritto del soggetto di essere informato e di effettuare, ove ne abbia la capacità, scelte di cura nella fase terminale della propria vita[86].

In definitiva, dal consenso libero ed informato, come espressione massima del rispetto della dignità umana, si fa discendere il diritto del soggetto ad autodeterminarsi. In tale prospettiva, la medicina palliativa è stata definita come una «medicina delle scelte»[87].

È importante, tuttavia, che il principio di autodeterminazione non sia declinato solo in relazione alla costruzione di una «sfera individuale riservata» nel rispetto delle cure che riguardano il malato, ma anche sul piano dell’effettività, mediante la realizzazione delle condizioni in cui l’autodeterminazione della cura sia possibile[88].

La definizione delle condizioni di effettività dell’autodeterminazione alla cura coinvolge una serie di fattori, che attengono, da un lato, all’effettiva disponibilità di mezzi, di strutture organizzate, di servizi e, dall’altro, all’appropriatezza della cura, con il fine di garantire al soggetto la migliore qualità di vita in relazione alle sue effettive condizioni di salute.

Con riguardo a tale ultimo aspetto, la medicina palliativa si configura, infatti, come l’alternativa all’accanimento terapeutico, dotato di una connotazione negativa e per questo ben distante dalla continuità terapeutica, propria, invece, dell’assistenza al malato terminale e garantita attraverso il sostegno artificiale alle funzioni vitali[89].

 Alla luce di quanto sin ora detto, si può concludere affermando che i rapporti tra la l. n. 38/2010 ed il complesso dei principi richiamati sono molteplici e ricchi di sfaccettature.

L’approccio palliativo, nella sua accettazione del morire, riconosca ai “morenti” quella pari dignità sociale che spetta ad ogni cittadino e come, al contrario, la negazione del morire, oltre a confinare la persona in quella che è stata definita come «la solitudine del morente», impedisca la presa in carico dei suoi bisogni specifici.

Sotto un altro punto di vista, in attuazione del principio di uguaglianza, le cure palliative appaiono come una prestazione, ex art. 3, comma 2, Cost., volta alla rimozione di quegli ostacoli, primo fra tutti il “dolore”, che impediscono il pieno sviluppo della persona sino al confine ultimo della vita.

Solo nella libertà da questo, il morente è messo, infatti, nelle condizioni di pensare la propria fine, di scegliere “che fare” tra le tante, se pur non risolutive, opzioni terapeutiche, senza timore che il rifiuto di sottoporsi a trattamenti gravosi equivalga ad una morte segnata dal tormento.

Anche la normativa di settore, di rango secondario, si è fatta carico di disciplinare tale aspetto: l’art. 3 del Codice di deontologia medica del 2014 sottolinea, infatti, tra i doveri dei medici, anche quello del «trattamento del dolore e del sollievo dalla sofferenza, nel rispetto della libertà e della dignità della persona, senza discriminazione alcuna, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali in cui opera».

Non da ultima, la giurisprudenza, nel pronunciarsi in tema di responsabilità medica per omessa tempestiva diagnosi di patologia ad esito infausto, affronta il tema della medicina palliativa, per stabilire che l’area dei danni risarcibili non si esaurisce nel pregiudizio arrecato all’integrità fisica del paziente, ma include la perdita di un “ventaglio” di opzioni con le quali affrontare la prospettiva della fine ormai prossima[90].

Ancora, la Corte di cassazione ricorda come il legislatore sia intervenuto a dare tutela alla libertà dell’individuo in ordine alle «scelte ultime» mediante la l. n. 38/2010 e la l. n. 219/2017, attraverso le quali trova attuazione, sul piano normativo, l’autodeterminazione del soggetto, chiamato «alla più intensa ed emotivamente pregnante prova della vita, qual è il confronto con la realtà della fine»[91].

La copertura costituzionale del diritto di accesso alle cure palliative appare, in definitiva, particolarmente solida, tanto da potersi sostenere che la legge n. 38/2010 rappresenta oggi uno dei tasselli fondamentali per la realizzazione di quel programma di solidarietà verso i soggetti deboli, che costituisce un tratto distintivo del nostro ordinamento.

Le cure palliative rappresentano, infatti, un terreno privilegiato in cui si esprime la solidarietà umana, l’ambito in cui si attua, come si vedrà più avanti, la «medicina di relazione»: la progettazione, l’organizzazione e l’erogazione della cura e dell’assistenza al malato terminale si fondano sul rispetto dei diritti dei più deboli e sul compimento del dovere della solidarietà.

 

  1. L'umanizzazione degli ospedali.

Per pensare all'umanizzazione degli ospedali e della cura è necessario pensare a un concetto, cioè a quello di Utopia: “Utopia significa non arrendersi alle cose così come sono e lottare per le cose così come dovrebbero essere; sapere che il mondo, (..), ha bisogno di essere cambiato e riscattato(..). Utopia dà senso alla vita, perché esige, contro ogni verosimiglianza, che la vita abbia un senso[92].

Umanizzare significa utopisticamente pensare a quel processo in cui il malato è il centro della cura, mettere al centro la persona con le sue componenti fisica, mentale, emotiva, spirituale e relazionale. Si può chiamare il paziente, malato, cliente, utente, cittadino, ma quello che non cambia è che si ha davanti ad una persona.

Soggettività-unicità: l’io pensa, vuole, sperimenta sentimenti ed emozioni, esprime atti di libertà e di amore, che non deve far dimenticare la relazione, legata all'essere più profondo fin dal concepimento.

L’individuo, infatti, è una soggettività in relazione con i famigliari, con la società, con il medico.

Il malato dunque chi è? Il malato è essenzialmente persona, non è il corpo a essere malato, ma la persona nella sua inviolabile singolarità.

Il medico viene a contatto nell’immediatezza con un corpo su cui è chiamato a intervenire con tutta la sua abilità e professionalità.

Per l’ammalato il corpo è il suo essere; quando s'interviene sul corpo, si tocca la profondità dell’io interiore[93].

La relazione fondamentale quindi è il rapporto medico- paziente che oggi viene anche chiamata alleanza terapeutica, della cui relazione il linguaggio della scienza, che spesso si applica esclusivamente secondo i parametri di un sapere medico, passa attraverso una persona, il medico, a un'altra, il paziente.

Che lo si voglia o no si entra in relazione, anche quando si crede di essersi attenuti a comunicazioni esclusivamente tecniche.[94]

La centralità della persona è prevista anche dal Codice di Deontologia Medica del 16 dicembre 2006, che così recita all’Art. 20: "Rispetto dei diritti della persona: Il medico deve improntare la propria attività professionale al rispetto dei diritti fondamentali della persona".

A questo proposito nel 1998 la “Dichiarazione di Barcellona” per la Commissione Europea, aggiunge ai principi già noti un quinto principio, la vulnerabilità, che senza nulla togliere al principio di autonomia, rispetta la situazione di fragilità che viene a determinarsi con la malattia e ne tiene conto per non dare un senso di solitudine alla persona.

La relazione umanizzante all'interno di un contesto di cura deve considerare questi valori etici: Beneficità, Non maleficità, Autonomia, Giustizia, Vulnerabilità.

Questo concetto segna il passaggio da una concezione del malato come mero portatore di una patologia a una che intenda il paziente come persona con i suoi sentimenti, le sue conoscenze, le sue credenze rispetto al proprio stato di salute.

Si può sottolineare quindi che il processo di umanizzazione consiste sostanzialmente nel ricondurre al centro l'uomo con la sua esperienza di malattia e i suoi "vissuti”: tale è la definizione di umanizzazione in letteratura medica.

Il tema dell’umanizzazione è stato inserito per la prima volta nel Patto per la salute 2014-2016, laddove si afferma che “nel rispetto della centralità della persona nella sua interezza fisica, psicologica e sociale, tutte le Regioni e le Province Autonome italiane s'impegnano ad attuare interventi di umanizzazione in ambito sanitario che coinvolgano aspetti strutturali, organizzativi e relazionali dell’assistenza” e si predispone un programma annuale di umanizzazione delle cure che comprenda la definizione di un’attività progettuale in tema di formazione del personale e un’attività progettuale in tema di cambiamento organizzativo indirizzato soprattutto all’Area critica, Pediatria, Comunicazione, Oncologia, Assistenza domiciliare[95].

L’umanizzazione dei contesti di cura in Italia è stata sottoposta a un processo di “misurazione” ed è stato fatto dall'Agenas[96], Agenzia Nazionale della Sanità con la collaborazione dell'Agenzia di Valutazione Civica di Cittadinanzattiva[97], attraverso il coinvolgimento diretto di cittadini.

Nel Convegno Nazionale “La valutazione della qualità delle strutture ospedaliere secondo la prospettiva del cittadino”, svoltosi a Roma nel 2014 sono stati presentati i risultati della ricerca e i modelli di ospedale umanizzato e senza dolore.

L’indagine, molto complessa, ha visto il coinvolgimento di 278 strutture ospedaliere, 286 associazioni, 594 cittadini su tutto il territorio nazionale e ha riguardato in particolare quattro aree: i processi assistenziali e organizzativi orientati al rispetto e alla specificità della persona; l’accessibilità fisica, la vivibilità e il comfort dei luoghi di cura; l’accesso alle informazioni, la semplificazione e la trasparenza; la qualità della relazione con il paziente-persona.

A queste si aggiungono sei focus su ambiti dell’assistenza particolarmente significativi: pronto soccorso, rianimazione, ostetricia, pediatria, multiculturalità e ospedale senza dolore.

È stato notato che i punteggi tendono verso l’alto col crescere del numero dei posti letto, infatti, i numeri più alti corrispondono alle strutture con almeno 800 posti.

Anche in tema di umanizzazione, come si è riscontrato nel Programma Nazionale le strutture con maggiori volumi, offrono migliori performance.

Tra i modelli di Ospedale senza dolore è emerso quello dell'Ospedale di Parma.

Se risulta molto buona l’accessibilità ai disabili motori, poco o niente è stato fatto per l’eliminazione delle barriere sensoriali. È emerso, inoltre, che necessita anche uno snellimento delle modalità di prenotazione delle prestazioni: scarse infatti le alternative per il pagamento del ticket, come farmacie, ricevitorie, casse automatiche presso esercizi commerciali, uffici postali.

Ancora rari i sistemi di condivisione telematica dei dati clinici tra strutture e medici di medicina generale e poco diffusa la possibilità di consultare online le cartelle cliniche e i referti di esami diagnostici strumentali.

Le strutture sono carenti in merito all’attivazione di corsi di formazione sulla comunicazione clinica e/o sulla relazione di aiuto per i pazienti. Rare inoltre le iniziative di medicina narrativa.[98]

L’impegno nel promuovere l’umanizzazione delle cure si evidenzia nella lotta alla sofferenza inutile con la realizzazione dell'ospedale senza dolore. Francesco Bevere, Direttore Agenas, ha sottolineato come “la persona prima di tutto” debba essere il presupposto per tutti coloro che operano nella sanità. “Agenas - ha proseguito - svolgerà attività di monitoraggio dell’attuazione delle misure del Patto per la Salute e, quindi, anche di quelle previste in tema di umanizzazione”, il possibile cambiamento è attuabile solo con il “favorire la partecipazione dei cittadini alle scelte relative ai percorsi di cura attraverso cui si conoscono altri bisogni delle persone assistite, e, di conseguenza, costruire un sistema dove l’attenzione ai bisogni più intimi delle persone possa conciliarsi perfettamente con la necessità di assicurare un elevato livello di qualità delle cure e di appropriatezza terapeutica”.[99]

Le ragioni che spingono al ricorso della categoria dell’umanizzazione nella pratica medica e nelle strutture sanitarie sono di natura diversificata, come possono essere ragioni di omogeneità normativa a livello europeo.

I riferimenti normativi europei e internazionali vedono coniugarsi la Dichiarazione Universale di Alma Ata sull’Assistenza Sanitaria Primaria del 1978[100] con la strategia di Lisbona per la crescita e l’occupazione del 2000 e con il Libro Bianco della Commissione Europea[101], come strategia per il quinquennio 2008-2013 la cui traduzione nel nostro Paese si attua nel Libro bianco sul Futuro del modello sociale del 2009.[102] [103]

Il confronto incrociato di questi documenti ci mostra l’incidenza di fattori organizzativo aziendali la cui ottimizzazione ha una ricaduta concreta in termini di prevenzione e politiche per la salute in senso stretto, oltre che opportunità di carattere economico.

In effetti, la conclusione cui si giunge è che l’ampliamento dei servizi e la ricerca della qualità nelle prestazioni non può essere disgiunto da quello che in termini aziendali si definisce come “attenzione al cliente”; inoltre il portato economico dell’assistenza sanitaria ha un'incidenza significativa sui PIL nazionali, sia in quanto ‘costo’ sia in quanto ‘investimento’.

Insieme a questi fattori ‘intrinseci’ ne compaiono altri ‘estrinseci’ sia di tipo epidemiologico che socio- culturale, volti a quella che con un termine improprio si può definire come ‘fidelizzazione’ del cliente che ha la finalità di rendere ottimale il suo stato di salute e il mantenimento della qualità della vita.

Su questo versante, il coordinamento tra strutture territoriali e il corretto funzionamento sistemico non può prescindere dagli aspetti umani nella gestione degli elementi del sistema, pena la disaffezione e l’allontanamento degli utenti.

Non sono quindi soltanto fattori strutturali, opportunità di bilancio e necessità di uniformità normativa a livello europeo a orientare verso un'umanizzazione della medicina.

Dietro queste esigenze oggi, come in passato, si può rilevare una ricerca spasmodica di guarigione, da parte della popolazione, di allontanamento da sé delle situazioni di “male” e sofferenza.

Sono elementi che rientrano in una concezione antropologica specifica.

Essa parte dalla domanda fondamentale su chi l’uomo sia, si dipana attraverso domande a essa correlate, sul significato dell’esistenza primariamente, e quindi, sul significato attribuito al dolore, alla malattia, alla morte[104].

Si delinea parimenti una necessità di cambiamento nel lavoro all’interno delle strutture ospedaliere che parta dai bisogni degli utenti: si tratta di una necessità che attiva pratiche, strumenti, progetti anche di pregio, che costituiscono in un certo senso il punto di partenza di questo lavoro ma la cui accettazione definitiva da parte di tutte le figure professionali che operano nella sanità è ancora lontana dall’essere raggiunta.

Tale necessità si configura, in effetti, come vuoto formativo da intendersi come necessità di attivazione di interventi che forniscano competenze tali da raggiungere livelli di professionalità adeguati a fornire risposte coerenti con quanto auspicato nelle sedi istituzionali.

Con quanto richiesto, a livello organizzativo per rendere il proprio istituto efficiente e competitivo e di cambiamento come accoglimento di quanto richiesto dalle persone, dai pazienti e dalle loro famiglie che sono il centro dell’attività che si svolge in ospedale.

 

  1. Assistenza infermieristica preventiva, curativa, palliativa, educativa.

Secondo il Profilo professionale, D.M. 14/09/1994 N. 739, l’infermiere è la figura professionale responsabile “dell’assistenza infermieristica preventiva, curativa, palliativa, educativa”, mentre nel Codice Deontologico del 2009, nell’art. 34: “L’infermiere si attiva per prevenire e contrastare il dolore e alleviare la sofferenza. Si adopera affinché l’assistito riceva tutti i trattamenti necessari”.

Come è scritto anche nel Codice deontologico medico del 2010, nell’art. 3 “Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo della sofferenza nel rispetto della libertà e dignità della persona umana, senza distinzione di età, di sesso, di etnia, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, in tempo di pace e in tempo di guerra, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera”.

Altresì, nella Carta Europea dei Diritti del malato, presentata per la prima volta a Bruxelles il 15 novembre del 2002, si elencano i diritti dei pazienti e dei cittadini in campo sanitario. L’undicesimo, in particolare, prevede che il paziente riceva dall’operatore sanitario il “diritto a evitare le sofferenze e il dolore non necessario”.

 

  1. La legge n. 38 del 2010.

L’iter legislativo raggiunge il suo apice con la legge n. 38 del 2010 definisce che le cure palliative rappresentano un diritto inviolabile di ogni cittadino.

L’art. co. 1 L. 28/2010 sancisce il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore.

Le disposizioni da esso recate sono nel complesso riconducibili agli ambiti materiali «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale», di competenza legislativa esclusiva dello Stato (articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione), e «tutela della salute», di competenza legislativa concorrente tra lo Stato e le regioni (articolo 117, terzo comma, della Costituzione).

Il testo in esame istituisce ex novo la rete nazionale per le cure palliative e la rete nazionale per le terapie del dolore, articolate su base regionale, disciplinando la procedura per la definizione delle modalità di accreditamento delle strutture appartenenti alla rete.

Esso, inoltre, stanzia risorse aggiuntive al fine di rafforzare l’attività dei Comitati istituiti in attuazione del progetto «Ospedale senza dolore», di cui all’accordo tra il Ministro della sanità, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano in data 24 maggio 2001, che – in considerazione delle novità introdotte dalla presente proposta di legge – assume la denominazione di progetto «Ospedale-Territorio senza dolore».

L’articolo 10, commi 1 e 2, prevedendo un’autorizzazione di spesa finalizzata alla completa attuazione del progetto «Ospedale senza dolore», è riconducibile prevalentemente alla materia «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale», rientrante nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi del secondo comma, lettera m), dell’art. 117 della Costituzione; l’articolo 17, commi 2 e 3, nel prevedere un’intesa tra il Governo e le regioni per la realizzazione delle finalità della legge, impone che l’intesa deve destinare alle iniziative previste dalla legge stessa una specifica quota delle risorse vincolate del Fondo sanitario nazionale, il quale Fondo è però destinato a finalità relative alla «tutela della salute».

La Corte Costituzionale ha più volte dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che prevedono puntuali vincoli di destinazione per stanziamenti in ambiti materiali rientranti nella potestà legislativa concorrente dello Stato e delle regioni, per violazione dell’articolo 117, terzo comma, e dell’articolo 119 della Costituzione; la vigente normativa (articolo 1, comma 34, della legge n. 662 del 1996) prevede che quote del Fondo sanitario nazionale possono essere vincolate dal CIPE solo con intesa sancita in sede di Conferenza Stato-regioni;

Il testo reca, altresì, disposizioni in materia di ordinamenti didattici universi tari e di master professionalizzanti per la formazione del personale medico e sanitario sulle cure palliative e sulle terapie del dolore, ai sensi dell’articolo 17, comma 95, della legge 15 maggio 1997, n. 127, e successive modificazioni, e per il suo aggiornamento periodico, nell’ambito dei programmi obbligatori di formazione continua in medicina di cui all’articolo 16-bis del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni; ulteriori disposizioni concernono la formazione dei volontari che operano nel settore.

Il testo, infine, semplifica le procedure di accesso ai medicinali impiegati nelle terapie del dolore, novellando, a tal fine, il testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni.

Su questa materia è intervenuta, con finalità analoghe, l’ordinanza del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali del 16 giugno 2009 (integrata dalla successiva ordinanza del 2 luglio 2009), espressamente emanata «nelle more di una idonea revisione legislativa del testo unico, relativamente ai criteri di classificazione e alle modalità di prescrizione dei medicinali oppiacei da utilizzare nella terapia del dolore».

Viene, dunque, tutelato e garantito, in particolare, l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore da parte del malato[105], al fine di assicurare il rispetto della dignità e dell'autonomia della persona umana, il bisogno di   salute, l’equità   nell'accesso all'assistenza, la qualità delle cure e la loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n.  502[106], e successive modificazioni.

Le strutture sanitarie che erogano cure palliative e terapia del dolore devono assicurare un programma di cura individuale per il malato e per la sua famiglia, nel rispetto dei seguenti principi fondamentali:

    a) tutela della dignità e dell’autonomia del malato, senza alcuna discriminazione;

    b) tutela e promozione della qualità della vita fino al suo termine;

    c)  adeguato sostegno sanitario e socio-assistenziale   della persona malata e della famiglia.

In definitiva, la L. 38, dunque si pone a tutela della dignità della persona, sancisce il diritto di accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore di ciascuno, esplicitando un modo di intendere il diritto alla salute che guarda alla globalità della persona, un approccio universalistico e che si fa carico dell’uguaglianza della persona.

Prima di procedere nell’esame dei singoli aspetti dei diritti e delle tutele inerenti alle cure palliative e la terapia del dolore occorre partire dalla definizione di malato propriamente inteso a tali fini.

Si definisce «malato» ai sensi dell’art. 2 L. 38/2010: la persona affetta da una patologia ad andamento cronico ed evolutivo, per la quale non esistono terapie o, se esse esistono, sono inadeguate o sono risultate inefficaci ai fini della stabilizzazione della malattia o di un prolungamento significativo della vita, nonché' la persona affetta da una patologia dolorosa cronica da moderata a sever[107]a.

Le cure palliative si rivolgono, quindi, a pazienti in fase terminale di ogni malattia cronica ed evolutiva, in primo luogo malattie oncologiche, ma anche neurologiche, respiratorie, cardiologiche e hanno lo scopo di dare al malato la massima qualità di vita possibile, nel rispetto della sua volontà, aiutandolo a vivere al meglio la fase terminale della malattia e accompagnandolo verso una morte dignitosa.

 

  1. Cure palliative e terapia del dolore: i due mantelli per il malato.

Appare da subito evidente, già dall’art. 1 che non sussiste identità tra cure palliative e terapia del dolore. L’art. 2, co, 1, lett. a), della Legge 38/2010, infatti definisce le «cure palliative» come “L’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici”.

Le cure palliative si sviluppano anche attraverso l’«assistenza residenziale»: l’insieme degli interventi sanitari, socio-sanitari e assistenziali nelle cure   palliative erogati ininterrottamente da equipe multidisciplinari presso una struttura, denominata «hospice».

Viene definita invece «terapia del dolore»: l'insieme di interventi diagnostici e terapeutici volti a individuare e applicare alle forme morbose croniche idonee e appropriate terapie farmacologiche, chirurgiche, strumentali, psicologiche e riabilitative, tra loro   variamente integrate, allo    scopo    di    elaborare    idonei     percorsi diagnostico-terapeutici per la soppressione e il controllo del dolore.

Per essa è prevista l’«assistenza specialistica di terapia del dolore» ovvero l'insieme degli interventi sanitari e assistenziali di terapia del dolore erogati in regime ambulatoriale, di day hospital e di ricovero ordinario e sul territorio da equipe specialistiche.

Sia le cure palliative che la terapia del dolore si esplicano attraverso la rete nazionale per le cure palliative e  la  rete nazionale per la terapia del dolore, volte a garantire la continuità assistenziale del malato dalla struttura ospedaliera al suo domicilio e costituite dall'insieme delle strutture  sanitarie,  ospedaliere  e territoriali, e assistenziali, delle  figure  professionali  e  degli interventi diagnostici e  terapeutici  disponibili  nelle  regioni  e nelle  province  autonome,   dedicati   all'erogazione   delle   cure palliative, al controllo del dolore in tutte le fasi della  malattia, con particolare riferimento alle  fasi  avanzate  e  terminali  della stessa, e al supporto dei malati e dei loro familiari.

Tra gli strumenti sussiste l’«assistenza  domiciliare», ovvero,   l'insieme  degli   interventi sanitari,   socio-sanitari   e   assistenziali    che    garantiscono l'erogazione di cure palliative e di terapia del dolore al  domicilio della persona malata, per ciò che riguarda  sia  gli  interventi  di base, coordinati dal medico di medicina generale,  sia  quelli  delle equipe specialistiche  di  cure  palliative,  di  cui  il  medico  di medicina generale è in ogni caso parte  integrante,  garantendo  una continuità assistenziale ininterrotta; ma anche il «day hospice»: l'articolazione organizzativa  degli  hospice che eroga  prestazioni  diagnostico-terapeutiche  e  assistenziali  a ciclo diurno non eseguibili a domicilio.

 

  1. Campagne di informazione (art. 4).

Il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali promuove nel triennio 2009-2011 la realizzazione di campagne istituzionali di comunicazione destinate a informare i cittadini sulle modalità e sui criteri di accesso alle prestazioni e ai programmi di assistenza in materia di cure palliative e di trattamento del dolore connesso alle malattie neoplastiche e a patologie croniche e degenerative, anche attraverso il coinvolgimento e la collaborazione dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta, delle farmacie pubbliche e private nonché delle organizzazioni private senza scopo di lucro impegnate nella tutela dei diritti in ambito sanitario ovvero operanti sul territorio nella lotta contro il dolore e nell’assistenza nel settore delle cure palliative.

Le campagne di cui al comma 1 promuovono e diffondono nell’opinione pubblica la consapevolezza della rilevanza delle cure palliative, in particolar modo delle cure palliative pediatriche, e della terapie del dolore, al fine di promuovere la cultura della lotta contro il dolore e il superamento del pregiudizio relativo all’utilizzazione dei farmaci per il trattamento del dolore, illustrandone il fondamentale contributo alla tutela della dignità della persona umana e al supporto per i malati e per i loro familiari.

 

  1. Rete nazionale per le cure palliative e le terapie del dolore (art. 5).

Al fine di consentire il costante adeguamento delle strutture e delle prestazioni sanitarie alle esigenze del malato in conformità agli obiettivi del Piano sanitario nazionale e comunque garantendo i livelli essenziali di assistenza di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni, il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali promuove l’attivazione di una specifica rilevazione sui presìdi e sulle prestazioni assicurati in ciascuna regione dalle strutture del Servizio sanitario nazionale nel campo delle cure palliative e delle terapie del dolore, al fine di consentire la successiva attivazione della rete a livello regionale.

Con accordo stipulato in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, su proposta del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, sono individuate le figure professionali con specifiche competenze ed esperienza nel campo delle cure palliative e delle terapie del dolore, anche per l’età pediatrica, con particolare riferimento ai medici di medicina generale e ai medici specialisti in anestesia e rianimazione, geriatria, neurologia, oncologia, pediatria, agli infermieri, agli psicologi e agli assistenti sociali nonché alle altre figure professionali ritenute essenziali.

Con il medesimo accordo sono, altresì, individuatele tipologie di strutture nelle quali si articola a livello regionale la rete per le cure palliative e la rete per le terapie del dolore, nonché le modalità per assicurare il coordinamento della rete a livello nazionale e regionale.

 

  1. Progetto «Ospedale-Territorio senza dolore» (art. 6).

John Bonica ha realizzato il primo "Ospedale senza dolore" negli anni Cinquanta a Seattle, ma è solo nel 1992 che presso l'Ospedale St-Luc di Montreal (Canada) è stato avviato il progetto internazionale che ha ricevuto l'appoggio ufficiale dell'OMS ed è attualmente in corso in Francia, Svizzera, Belgio, Spagna, Stati Uniti e Italia.

L’esperienza Canadese nasce nel 1992 con lo scopo di modificare le attitudini e il comportamento dei sanitari e dei malati ricoverati sostenuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

In Italia si diffonde nei primi ospedali alla fine degli anni ’90, ispirato ad analoghi progetti internazionali, allo scopo di migliorare il processo assistenziale rivolto al controllo del dolore, ed è inserito nel più vasto programma HPH - “Health Promoting Hospital” (Ospedale per la Promozione della Salute). 

La nuova concezione di Ospedale, oggi, deve orientarsi verso l’umanizzazione delle cure in una sanità sempre più tecnologicamente avanzata in cui diventano imprescindibili qualità della degenza, le relazioni con il paziente, il processo di cura e la presa in carico del cittadino al centro di ogni intervento sanitario ed assistenziale.

Nel settembre 2000 il Ministero della Salute ha istituito una commissione di studio "Ospedale senza dolore" che ha elaborato un progetto specifico: in Italia si è costituito un gruppo di venti ospedali che hanno condotto un'indagine che ha documentato un quadro di prevalenza elevata e di non ottimale controllo del dolore anche all'interno degli ospedali.

Il progetto Ospedale senza dolore (Osd) si inserisce nell'ambito dei progetti HPH della Regione Toscana. Tutte le aziende ospedaliere e sanitarie vi hanno aderito.

I coordinatori aziendali del progetto hanno stabilito dieci requisiti minimi, chiamati per semplicità i dieci comandamenti, in accordo con le linee guide ministeriali, che sono essenzialmente dei passi graduali perseguiti secondo una programmazione annuale specifica per ogni ospedale che ha aderito al progetto.

Nel 2001, sono state presentate le Linee Guida per la realizzazione del progetto “Ospedale senza dolore” che comprendono gli interventi, le tempistiche e le modalità necessarie per controllare il dolore e le sofferenze evitabili (Accordo tra Ministero della Sanità, le regioni e le province autonome Gazzetta Ufficiale n. 149 del 29-06-2001).

 

  1. Le forme di assistenza.

Molteplici sono le forme di «assistenza», diversa da quella ospedaliera, contemplate dalla legge: si è prevista, infatti, una:

a) «assistenza residenziale», intendendosi per tale l’insieme degli interventi sanitari, socio-sanitari e assistenziali nelle cure palliative erogati ininterrottamente da équipe multidisciplinari presso una struttura, denominata «hospice»;

b) «assistenza domiciliare», ossia l’insieme degli interventi sanitari, socio-sanitari e assistenziali che garantiscono l’erogazione di cure palliative e di terapia del dolore al domicilio della persona malata, per ciò che riguarda sia gli interventi di base, coordinati dal medico di medicina generale, sia quelli delle équipe specialistiche di cure palliative, di cui il medico di medicina generale è in ogni caso parte integrante, garantendo una continuità assistenziale ininterrotta;

c) «day hospice», vale a dire l’organizzazione di hospice che eroga prestazioni diagnostico-terapeutiche e assistenziali a ciclo diurno non eseguibili a domicilio;

d) «assistenza specialistica di terapia del dolore», comprensiva di interventi sanitari e assistenziali di terapia del dolore erogati in regime ambulatoriale, di day hospital e di ricovero ordinario e sul territorio da équipe specialistiche.

L’operatore medico-sanitario ha, altresì, l’obbligo di riportare nella cartella clinica le caratteristiche del dolore rilevato e della sua evoluzione nel corso del ricovero, nonché la tecnica antalgica e i farmaci utilizzati, i relativi dosaggi e il risultato antalgico conseguito (art. 7, comma 1°, l. n. 38 del 2010); farmaci speciali che le famiglie hanno diritto di poter acquisire con procedure semplificate e senza ritardi.

Emerge in tutta evidenza la particolare posizione che assumono il paziente e la sua famiglia nella relazione di cura palliativa; essa appare fortemente connotata dalla necessità di fornire, accanto alle prestazioni sanitarie per la malattia di cui si è vittime, anche quelle prestazioni accessorie, necessarie per la migliore attuazione delle prestazioni mediche principali, finalizzate solo a proteggere ed accompagnare il malato nel segmento finale della sua esistenza.

 

  1. Osservatorio nazionale permanente per le cure palliative e per le terapie del dolore (art. 9).

Presso il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali è istituito, avvalendosi delle risorse umane disponibili a legislazione vigente, l’Osservatorio nazionale permanente per le cure palliative e per le terapie del dolore connesso alle malattie neoplastiche e a patologie croniche e degenerative, di seguito denominato «Osservatorio».

Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano forniscono tutte le informazioni e i dati utili all’attività dell’Osservatorio e possono accedere al complesso dei dati e delle informazioni in possesso del medesimo Osservatorio.

L’Osservatorio, alla cui attività collaborano l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, la Commissione nazionale per la formazione continua, l’Agenzia italiana del farmaco e l’Istituto superiore di sanità, fornisce al Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali e alle regioni elementi per la valutazione dell’andamento della prescrizione dei farmaci utilizzati per le terapie del dolore, del livello di attuazione delle linee guida di cui all’articolo 3, comma 2, nonché dello stato di realizzazione e di sviluppo della rete su tutto il territorio nazionale, con particolare riferimento alle disomogeneità territoriali e all’erogazione delle cure palliative in età neonatale, pediatrica e adolescenziale.

L’Osservatorio provvede a monitorare, in particolare:

a) i dati relativi alla prescrizione e all’utilizzazione di farmaci nelle terapie del dolore, e in particolare dei farmaci analgesici oppiacei;

b) lo sviluppo della rete, con particolare riferimento alla verifica del rispetto degli indicatori e dei criteri nazionali previsti dalla normativa vigente;

c) lo stato di avanzamento della rete;

d) le prestazioni erogate e gli esiti delle stesse, anche attraverso l’analisi qualitativa e quantitativa dell’attività dei centri per le terapie del dolore e delle strutture della rete;

e) le attività di formazione a livello nazionale e regionale;

f) i programmi e le campagne di informazione a livello nazionale e regionale;

g) le attività di ricerca;

h) gli aspetti economici relativi alla realizzazione e allo sviluppo delle reti di centri e di servizi per la terapia del dolore e delle cure palliative

Entro il 31 dicembre di ciascun anno, l’Osservatorio redige un rapporto da trasmettere al Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, finalizzato a rilevare l’andamento delle prescrizioni di farmaci per la terapia del dolore connesso alle malattie neoplastiche e a patologie croniche e degenerative, con particolare riferimento ai farmaci analgesici oppiacei, a monitorare lo stato delle reti dei centri e dei servizi per le terapie del dolore e delle cure palliative su tutto il territorio nazionale e il livello di omogeneità e di adeguatezza delle stesse, formulando proposte per la risoluzione dei problemi e delle criticità eventualmente rilevati, anche al fine di garantire livelli omogenei di trattamento del dolore su tutto il territorio nazionale.

Nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, l’Osservatorio può avvalersi di figure professionali del Servizio sanitario nazionale con dimostrate competenze specifiche e, anche tramite apposite convenzioni, della collaborazione di istituti di ricerca, società scientifiche e organizzazioni senza scopo di lucro operanti nei settori delle cure palliative e della terapia del dolore connesso alle malattie neoplastiche e a patologie croniche e degenerative.

Il Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, con proprio regolamento da adottare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, definisce, nel limite della spesa di cui al comma 5, l’organizzazione e le funzioni dell’Osservatorio, anche ai fini del collegamento con gli osservatori eventualmente istituiti dalle regioni con propri provvedimenti, senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica.

 

  1. Etica del dolore.

Fattori affettivi (emotivi), comportamentali e cognitivi (pensieri o attitudini) e culturali influenzano la percezione del dolore e possono essere più o meno intensi.

Diversamente, altre emozioni, credenze, comportamenti e cognizioni possono aiutare ad alleviare il dolore.

Proprio nella nostra epoca è importante richiamare ripetutamente alla memoria quelle tradizioni della filosofia e della teologia che hanno sviluppato concezioni essenziali per la comprensione del dolore che sono andate perdute in questa epoca di anestesia e modernità, ma che potrebbero, in molti casi, essere di aiuto agli uomini nelle diverse situazioni di dolore e sofferenza.

Il dolore e la sofferenza sono sempre stati considerati un segno di riconoscimento della conditio humana; quando si parla di questi aspetti si deve sempre essere consapevoli che si parla di una condizione che definisce la persona umana come tale.

Due possono essere le ragioni fondamentali che giustificano clinicamente, deontologicamente ed eticamente l’attenzione per un adeguato controllo del dolore: la prima, è il rispetto dei bisogni dell’utente, e deve caratterizzare l’atteggiamento di medici e infermieri, soprattutto nei momenti difficili della sofferenza e della malattia in cui egli raggiunge una debolezza estrema; la seconda, è data dalle innumerevoli possibilità offerte ai nostri giorni dalla scienza e dalla tecnica, che nel trattamento antalgico hanno dimostrato grandi sviluppi. Alleviare la sofferenza al malato, anche togliendo il dolore, non è solo legata alla deontologia della prassi medica, ma ha una più generale valenza etica. È questa la dimensione morale dell’azione di cura all’uomo sofferente. Ciò che la nostra politica sanitaria indica come esigenza prioritaria è il miglioramento della qualità delle prestazioni per elevare il grado di soddisfazione dell’utente.

Si è in precedenza analizzato come l’esperienza del dolore sia sempre soggettiva, per cui l’autovalutazione del paziente è da considerarsi la regola per la sua misurazione. Numerosi studi hanno, infatti, evidenziato la sottostima del dolore derivante da una valutazione esterna infermieristica e medica talvolta poco attenta.

Una valutazione efficace, supportiva e coadiuvante per il paziente rimane indispensabile soprattutto se eseguita da personale specializzato nella strutturazione di una relazione d'aiuto centrata sul paziente stesso e ciò vale in particolare per soggetti vulnerabili come bambini e bambine.

La necessità di valutazioni multiple nasce, pertanto, dalla possibilità di avere un quadro completo e reale dell’esperienza dolorosa del soggetto per cui alla relazione d'aiuto è necessario affiancare l’utilizzo di tests valutativi più generale della qualità della vita. Si tratta fondamentalmente di un progetto di umanizzazione degli ospedali.

La vocazione filosofica della bioetica nella dimensione della qualità della vita.

Quando si parla di etica del dolore e di qualità della vita, non si può non parlare di bioetica.

Il termine bioetica è utilizzato per la prima volta da Potter, cancerologo americano di origine olandese, all’inizio degli anni ’70 del novecento, per dare al termine un senso diverso da quello che poi si è andato ad affermare[108]. Potter voleva coniugare le scienze della vita (life sciences) con un’etica della vita in grado di fungere da “scienza della sopravvivenza “(science of survival) così da garantire un ponte (the bridge) per il benessere dell’uomo, poiché lo sviluppo della tecnica, della biologia e della scienza in genere poteva trasformarsi in un pericolo per l’uomo e l’intero ecosistema. In tal senso questa disciplina assume un carattere multidisciplinare. Il termine, tuttavia, più che nell’accezione di Potter è usato prima nel senso di Hellengers, fisiologo dell’embriologia umana, che fonda nel 1971 l’Università gesuita di Georgetown del Kennedy Institute of Ethics, poi nel senso di Reich che nel 1978 fonda l'“Enciclopedia di Bioetica” e definisce la bioetica in tal modo: “Lo studio sistematico della condotta umana nell’ambito delle scienze della vita e della cura della salute, in quanto tale condotta sia esaminata alla luce di valori e principi morali".

La bioetica, così, s’inscrive a pieno titolo nella tradizione della filosofia morale. Mentre Potter vede la bioetica come una nuova disciplina che avrebbe dovuto armonizzare conoscenza scientifica e umanistica, il modello di Georgetown vede la bioetica come parte di una disciplina tradizionale, una branca dell’etica.

Nei primi trent’anni della storia della bioetica il modello che è prevalso è stato quello etico-biomedico. I motivi che l'hanno determinato, sono di vario ordine: il progresso biomedico, i suoi dilemmi, i diritti dell’uomo, del malato, la sperimentazione animale e umana.

È importante porre l'accento che non si può restringere il campo a un’unica definizione di bioetica, poiché l’agire dell’uomo e i progressi bio-tecnologici dipendono molto e risentono molto del momento storico in cui si manifestano.

Il paradigma cui fare riferimento per impostare un’etica all’altezza dei nuovi poteri d’intervento sulla vita è costituito dalla loro novità, poiché molto spesso i nuovi poteri della biomedicina si spingono in zone inaccessibili un tempo all’intervento umano: vere e proprie zone di confine in cui sono collocate le basi biologiche dell’identità del singolo individuo e della stessa natura umana.

Un altro elemento di novità è rappresentato dall’utilizzo di questi nuovi poteri dalla pratica medica. I progressi biomedici ampliano gli orizzonti, le capacità terapeutiche e diagnostiche e mettono il tutto a disposizione della medicina.

È così che, da una parte, la disponibilità di nuove potenzialità rinforza le risorse in mano alla medicina stessa, al contrario, in alcune situazioni, un loro uso arbitrario rischia di espropriare l’uomo della sua autonomia, come sostiene Illich nel suo noto scritto Nemesi medica. L'espropriazione della salute[109].

Le questioni bioetiche sollevano il problema di un’integrazione delle nuove potenzialità tecnologiche coerente con i fini propri della medicina. Il campo biomedico e sanitario, dunque, sono tra i luoghi principali dove più direttamente si decide della dimensione dell'uomo.

La bioetica, quindi, diventa un vero e proprio locus antropologicus, in cui l’uomo sente sempre di più il bisogno di eticità facendola diventare parte integrante del bagaglio intellettuale della contemporaneità. Come si sono avuti il secolo dei Lumi e del Positivismo, in quest’epoca bisogna parlare di “Età della bioetica”.

Se la filosofia, come sosteneva Platone, è la disciplina che s'interroga sull’uso del sapere a vantaggio dell’uomo e sui modi con cui deve condurre la vita, la bioetica rappresenta una delle maggiori incarnazioni dello spirito filosofico. Questo incontro tra bioetica e filosofia s'inscrive in quell’ampia vicenda culturale costituita dal passaggio dalla metaetica, cioè dallo studio riflesso del linguaggio etico e dei suoi modelli argomentativi, all’etica normativa, cioè a una filosofia morale in grado di trattare the matters of life and death (aspetti della vita e della morte) e di orientare i comportamenti.

Stephen Toulmin ironicamente sostiene che la medicina ha contribuito a salvare la vita dell’etica, sottraendola talvolta all’aridità delle sue metateorie, impegnandola nelle discussioni di dottrine finalizzate all’agire. Siamo alla presenza di una doppia valenza: normativa e descrittiva. La vocazione normativa della bioetica non esclude, infatti, una componente descrittiva.

Da un lato la bioetica tende a configurarsi come un sapere diretto a trovare principi e valori in grado di valutare gli interventi sulla vita e sulla salute, dall’altro tende a strutturarsi come una riflessione di tipo analitico, volta al chiarimento logico delle posizioni in campo, tramite un lavoro di ripulitura concettuale e terminologica.

Nell’ambito di questa doppia valenza: analitico-descrittiva e normativo-orientativa del discorso bioetica, il filosofo tende a giocare l’importante ruolo di "geografo dei concetti e dei valori".

Ai filosofi va, così, il merito di aver contribuito alla delineazione della bioetica come disciplina di ampio respiro. Dal canto suo la bioetica ha finito per configurarsi come una grande sfida per la filosofia, che con l'oltre-confine biotecnologico deve interrogarsi in maniera problematica e critica su di essi. Per dirla come Jaspers: “in quest’epoca d’illuminismo, con l’accrescersi del sapere e delle capacità, con la fede smisurata nel progresso è diventato spesso incomprensibile che cosa, per l’uomo, sia veramente importante “.

Alcuni studiosi fanno rientrare la precisa collocazione spazio-temporale della bioetica nel crocevia storico a seguito del processo di Norimberga e al turbamento provocato dalla scoperta dei crimini di guerra nazisti che sul piano giuridico portò alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo (1948) e sul piano filosofico alla rinascita del giusnaturalismo degli anni '50 del Novecento.

Altri studiosi ritengono invece che la bioetica abbia trovato il suo terreno fertile nel cambiamento epocale nei successivi anni '60 e '70 del novecento che vede in parallelo la rivoluzione biologica e l’avvento di nuove situazioni etiche (in primis l’aborto) che hanno messo il soggetto nella condizione di rivolgersi a nuove teorie filosofiche in grado di legittimare nuove scelte e comportamenti.

Se l’etica, come sosteneva Aristotele, è il “mestiere di uomo “, la bioetica, come afferma Hubert Doucet[110], è “un’impresa di saggezza”. “Impresa di saggezza” e “mestiere di uomo” devono contemplare la dimensione con cui l’uomo molto spesso fa i conti: il dolore.

 

  1. L’assistenza sanitaria: configurazione giuridica e responsabilità.

In ordine alla qualificazione del diritto alla salute, genericamente inteso, è ormai consolidato, sia nella dottrina che nella giurisprudenza, l’orientamento in forza del quale il diritto all’integrità psico-fisica della persona costituisce in capo ad essa una situazione giuridica soggettiva, facente parte della schiera dei diritti personalissimi ed inviolabili.

Il cui contenuto può essere configurato come diritto ad uno stato di completo benessere che coinvolge anche gli aspetti interiori della vita così come avvertiti e vissuti dalla persona; un diritto che, corredato di una dimensione attiva, deve essere tutelato garantendosi che «Gli atti terapeutici, secondo una visione allargata dell’idea di salute […] non fanno più solo riferimento ad una concezione organica della malattia, ma tengono conto degli aspetti fisici e psichici della persona, e delle sue personali ed insindacabili aspettative di vita»[111].

Com’è noto, a questa lata accezione concettuale del diritto alla salute si è pervenuti già da tempo in sede di elaborazione dottrinale e giurisprudenziale intorno all’art. 32 Cost.; essa si è ulteriormente rafforzata con la stipulazione della Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997, la cui ratifica è stata autorizzata con legge del 28 marzo 2001, n. 145.

Nel variegato e complesso quadro normativo delle fonti sovranazionali, poi, il diritto all’integrità psico-fisica della persona ha trovato un suo esplicito riferimento nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ora integrata nel Trattato costituzionale europeo (art. II-63, comma 2°), ed è stato ulteriormente garantito dalla salvaguardia del principio del consenso libero ed informato nell’ambito della medicina e della biologia[112].

Inoltre, alla fine degli anni novanta, in seno al Consiglio d’Europa è stata emanata una Raccomandazione, destinata ai malati incurabili ed ai pazienti in punto di morte[113] , al fine di accentuare l’esigenza di tutela del principio della dignità del malato di fronte all’accresciuta tecnicizzazione della medicina volta sempre più a prolungare artificialmente la vita di chi soffre, anche quando dal trattamento non si ricava alcun beneficio.

Nel contesto del rapporto terapeutico tra medico e paziente in cui esso nasce, il diritto alla integrità psico-fisica, occupa un ruolo centrale nel delineare il contenuto della prestazione principale del medico.

Per la verità, sulla configurazione da dare alla posizione di interesse del paziente in ordine al suo diritto al consenso informato e, conseguentemente, sulle reazioni che può suscitare la violazione di esso, non si è raggiunta ancora una posizione univoca. Infatti, in alcuni casi, il diritto ad un consenso informato si è riferito al consenso prestato per la conclusione del contratto di prestazione medica, sicché, dalla sua violazione, discenderebbe una responsabilità di natura precontrattuale[114]. In altre fattispecie, l’informazione al paziente è stata inquadrata come uno dei modi di atteggiarsi della prestazione medica ai fini dell’esatto adempimento[115].

In altri casi, infine, l’informazione necessaria per un valido consenso è stata riconosciuta come un vero e proprio dovere imposto dalla legge a salvaguardia della libertà personale dell’individuo, la cui violazione dà luogo ad un fatto illecito, rilevante ex art. 2043c.c., con possibilità di cumulo con la responsabilità per inadempimento della prestazione medica[116].

Il diritto soggettivo direttamente azionabile erga omnes[117] sta nella pretesa del singolo all’astensione da parte di tutti da qualsiasi comportamento che possa mettere a repentaglio l’integrità della salute e fisica e psichica dell’individuo[118], coerentemente a una concezione integrale della persona umana (art. 2 Cost.).

La giurisprudenza ha concretizzato questa fattispecie nel diritto al risarcimento del cosiddetto “danno biologico”: ossia il danno derivante dalla lesione del bene salute a prescindere da qualsiasi conseguenza di ordine patrimoniale prodotta nella sfera giuridica del danneggiato[119].

Dopo la Cassazione, superata qualche incertezza[120], anche la Corte costituzionale ha pienamente sanzionato questa pretesa.

Nella sent. n. 184 del 1986, il diritto al risarcimento è fondato non sull’art. 2059 (come nella sent. n. 88/1979), ma sull’art. 2043 del codice civile.

Secondo una impostazione più recente, la configurazione, che, da tempo, si era ormai accreditata sia in dottrina che in giurisprudenza[121], del diritto del malato terminale alle cure palliative nel contesto del rapporto terapeutico tra medico e paziente come parte essenziale del contenuto delle prestazioni da esso derivanti era sembrata più utile ad avvalorare la posizione giuridica soggettiva del paziente.

Sulla responsabilità civile del medico, l’orientamento prevalente e più recente della giurisprudenza qualifica la responsabilità sia della struttura sanitaria che del medico come responsabilità contrattuale o da inadempimento, ex art. 1218 c.c.[122].

Come noto, in tali ipotesi al danneggiato bastava provare il solo danno, mentre l’onere probatorio sull’assenza della colpa gravava sulla struttura o sul medico.

Se è stata sempre pacifica la natura della responsabilità contrattuale della struttura, vincolata con il cd. contratto di spedalità con il paziente, è, tuttavia, risultata non univoca quella dell’esercente la professione sanitaria; ciò, in particolare, dopo la legge dell’8 novembre 2012, n. 189, che, richiamando espressamente l’art. 2043 c.c., sembrava aver attribuito natura extracontrattuale alla responsabilità del sanitario; con conseguente ripercussioni sulla disciplina sia dell’onere della prova - che, in tal caso, è invertito, dovendo essere il danneggiato a provare in giudizio la colpa del danneggiante – sia sul termine di prescrizione per l’azione di risarcimento di minore durata).

Si è ritenuto, infatti, che la diversa impostazione del diritto alle cure come vera e propria prestazione consentisse di delineare meglio la pretesa da vantare in ordine alla scelta del rimedio da esperire in caso di lesione, in modo tale da potersi avvalere di quello più in grado di assicurare la migliore soddisfazione di un diritto strettamente connesso alla sfera esistenziale della persona e, come tale, appartenente ai diritti inviolabili che beneficiano della copertura dell’art. 2 Cost[123].

Il riferimento teorico attraverso cui tale ricostruzione è sembrata possibile anche alla più recente giurisprudenza è quello della responsabilità imputabile per via del c.d. contatto sociale, cui veniva ricondotta la responsabilità del medico[124].

Trattandosi, infatti, di operatori che esercitano una professione che è possibile qualificare come “protetta”, essendo richiesta una speciale abilitazione per esercitarla, ed avendo tale professione ad oggetto diritti anche costituzionalmente garantiti (art. 32 Cost.), secondo la teoria del c.d. contatto sociale, agli operatori socio-sanitari, impegnati in questi programmi di cura, non è richiesto semplicemente di non ledere la sfera giuridica di coloro i quali vi si rivolgono ma anche e soprattutto di esercitare la loro attività con la perizia che la deve contrassegnare in ogni momento; tanto a prescindere dall’esistenza o meno di un contratto, traducendosi quelli in obblighi di comportamento nei confronti di chi su tale professionalità ha fatto affidamento entrando in “contatto” con l’operatore[125].

Si è ritenuto che con riguardo a questo tipo di relazioni terapeutiche, si fosse dinanzi ad una particolare categoria di rapporti contrattuali, ascrivibili al più ampio settore dei cc.dd. contratti di protezione, dove, in considerazione degli interessi concreti da realizzare, l’eventuale inadempimento, avendo riguardo alla salute ed alla sfera esistenziale della persona, fosse suscettibile di ledere anche diritti inviolabili.

Conseguentemente, in questo genere di rapporti contrattuali, il contenuto delle obbligazioni non poteva considerarsi limitato alle prestazioni sanitarie di cui il paziente avesse avuto bisogno in quanto costituenti il nucleo essenziale del sinallagma tipico del contratto avente ad oggetto la prestazione sanitaria; esso comprenderebbe, invece, anche tutti quegli obblighi di protezione che, sulla base del criterio di valutazione della buona fede, si potrebbero ritenere essenziali per il soddisfacimento degli interessi concreti del paziente. La configurazione del danno alla integrità psico-fisica come danno da contatto sociale non era stata scalfita neppure dalla previsione normativa contenuta nella l. 8 novembre 2012, n. 189 che sembrava, almeno negli intenti, destinata ad arginare la tendenza verso la progressiva contrattualizzazione della responsabilità medica[126].

Al comma 1° dell’art. 3 della citata legge, infatti, veniva espressamente previsto che «L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo»[127].

La ratio della disciplina mirava a depenalizzare la condotta lesiva caratterizzata da colpa lieve del sanitario che si fosse attenuto alle linee guida ed alle buona pratiche accreditate dalla comunità scientifica; alla norma in questione non è stato, invece, unanimemente riconosciuto il fine di dettare una nuova regola per la responsabilità civile di chi svolga un’attività sanitaria, limitandosi essa a richiamare la regola generale di cui all’art. 2043 c.c. per i casi in cui si incorra in responsabilità. Fondata e legittima, dunque, la questione posta dagli interpreti in ordine alla intenzione del legislatore speciale di modificare, con il richiamo all’art. 2043 c.c., il regime di responsabilità dell’esercente una professione sanitaria.

La giurisprudenza e la dottrina immediatamente successive all’entrata in vigore della l. 189 del 2012, infatti, con riferimento alla qualificazione della responsabilità medica, si sono divise in ordine alla portata innovativa della norma[128].

Questa disposizione, relativa alla responsabilità aquiliana per “danno ingiusto”, è stata letta come una norma “in bianco” che, nella fattispecie, doveva essere riempita di contenuto in virtù dell’art. 32 Cost., in linea con il diritto vivente giurisprudenziale.

Secondo la Corte costituzionale, è “l’ingiustizia (lesione del diritto alla salute) insita nel fatto menomativo dell’integrità bio-psichica, il fondamento giuridico del risarcimento del danno biologico ed eventualmente, ove esistano, anche di altre conseguenze dannose.

Non è, l’esistenza, in concreto, di conseguenze dannose (quali che siano) a costituire il fondamento dell’ingiustizia del fatto illecito e, pertanto, anche della menomazione bio-psichica.

In tanto le ulteriori (oltre l’evento) conseguenze dannose sono rilevanti e risarcibili in quanto, prima, già esiste un’ingiustizia dell’illecito (determinata dalla violazione della norma primaria desunta dal combinato disposto degli artt. 32 Cost. e 2043 c.c.) ed una lesione, presunta, del bene-giuridico salute” (Corte cost. sent. n. 184/1986).

In altri termini: “la tutela risarcitoria del diritto alla salute, che il diritto vivente riconduce alla norma risultante dal combinato disposto degli artt. 32, primo comma, della Costituzione e 2043 cod. civ., riguarda prioritariamente e indefettibilmente il danno biologico in sé considerato, rappresentato dalla stessa menomazione psico-fisica, a prescindere dalle conseguenze che da essa possano o meno derivarne: a prescindere, cioè, dalla eventuale perdita o riduzione di reddito che ne sia conseguenza immediata e diretta, così come dai danni morali soggettivi contemplati dall’art. 2059 cod. civ. Questo è quanto si evince da una lettura “costituzionale” dell’art. 2043, la quale, nel correlare il risarcimento al contenuto dell’iniuria, deve tener conto della evoluzione che il diritto privato ha subìto per effetto della Costituzione: dalla tendenziale considerazione dei soli beni patrimoniali alla prioritaria garanzia di beni e valori personali. Se è vero che l’art. 32, primo comma, della Costituzione tutela la salute come diritto fondamentale del privato e se è vero che tale diritto è primario e pienamente operante anche nei rapporti tra privati, non sono configurabili limiti alla risarcibilità in ogni caso del danno biologico per sé considerato” (cfr., testualmente, Corte cost. sent. n. 356/1991).

Sul fronte giurisprudenziale, la Corte di Cassazione[129] è, infatti, più volte intervenuta stabilendo che la “materia della responsabilità civile segue le sue regole consolidate [...] anche per la responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria, da contatto sociale”.

Nell’interpretazione data dai giudici della Suprema Corte, l’intervento del legislatore del 2012 aveva inteso solo modificare il diritto penale vigente, «per agevolare l’utile esercizio dell’arte medica, senza il pericolo di pretestuose azioni penali», senza volere, invece, mutare la natura della responsabilità civile[130].

Più variegato è, invece, l’orientamento seguito in materia dalla giurisprudenza di merito[131], considerandosi da parte di alcune corti il richiamo all’art. 2043 c.c come ininfluente e, dunque, non da intendersi nel senso di un ritorno alla responsabilità aquiliana del medico, dovendosi considerare “del tutto neutro rispetto alle regole applicabili”.

Tra le decisioni dei giudici di merito, alcune sentenze sono state, tuttavia, espressione di un orientamento affatto diverso ed in senso contrario; per il Tribunale di Torino[132]l’art. 3 della l. 189 del 2012 cambia il “diritto vivente”, operando una scelta del tutto chiara” che comporta l’abbandono della teoria del contatto sociale “e porta la lite all’interno della responsabilità aquiliana, con conseguente spostamento dell’onere probatorio tutto a carico della parte attrice”.

Del tutto dirimente l’apporto della l. 189 del 2012 circa la qualificazione della natura della responsabilità medica anche per il Tribunale di Varese[133] secondo cui “il legislatore sembra, (consapevolmente e non per dimenticanza) suggerire l’adesione al modello di responsabilità civile medica così come disegnato anteriormente al 1999, in cui, come noto, in assenza di contratto, il paziente poteva richiedere il danno iatrogeno esercitando l’azione aquiliana[134].

Da ultimo è intervenuto di nuovo il Tribunale di Milano[135] il quale, allineandosi a quest’ultimo orientamento, ha operato una netta distinzione in ambito di responsabilità sanitaria tra il regime di responsabilità della struttura ospedaliera - che ha natura contrattuale - e quello richiamabile nei confronti del medico – che risponde, invece, a titolo di responsabilità extracontrattuale – con conseguente diverso atteggiarsi dell’onere probatorio e diverso termine di prescrizione[136].

Il contrasto tra l’orientamento della Suprema Corte e di una parte della giurisprudenza di merito – orientamento che pure era rimasto a stigmatizzare la poca chiarezza della norma e l’incapacità del legislatore di incorporare nella ratio legis alcune delle istanze, pure fondate, che stanno alla base della disciplina (la tendenza ad arginare il ricorso alla c.d. “medicina difensiva” ed il proliferare delle azioni di responsabilità verso i medici) – e di coniugarle con l’individuazione del regime di responsabilità più adeguato ad assicurare la migliore tutela ai danneggiati, sembra sia destinato ad essere definitivamente risolto con l’entrata in vigore della disciplina relativa a «Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie»[137] che, nei giorni in cui si scrive, ha ricevuto il voto finale della Camera dei Deputati.

A questa ipotesi è parificata anche quella del “danno - da malattia trasmessa per contagio dalla persona sottoposta al trattamento sanitario obbligatorio o comunque a questo ricollegabile - riportato dalle persone che abbiano prestato assistenza personale diretta alla prima in ragione della sua non autosufficienza fisica (persone anche esse coinvolte nel trattamento obbligatorio che, sotto il profilo obbiettivo, va considerato unitariamente in tutte le sue fasi e in tutte le sue conseguenze immediate)”( C. Cost. sent. n. 307/1990).

Di conseguenza, è introdotto nell’ordinamento “un rimedio destinato a operare relativamente al danno riconducibile sotto l’aspetto oggettivo al trattamento sanitario obbligatorio e nei limiti di una liquidazione equitativa che pur tenga conto di tutte le componenti del danno stesso”, che si affianca alla responsabilità civile che, come visto, “opera sul piano della tutela della salute di ciascuno contro l’illecito (da parte di chicchessia) sulla base dei titoli soggettivi di imputazione e con gli effetti risarcitori pieni previsti dal detto art. 2043 c.c.[138].

La nuova normativa, infatti, – che si annuncia come una vera e propria riforma della responsabilità in materia sanitaria – individua chiaramente l’area della responsabilità civile cui ascrivere quella degli operatori sanitari[139] nell’ambito della responsabilità extra-contrattuale prediligendo, così, inquadrarla come violazione del principio del neminem laedere; ne deriverà il mutamento della disciplina in sede di giudizio di responsabilità, essendo l’azione per risarcimento del danno da illecito extracontrattuale sottoposta ad un termine di prescrizione quinquennale e gravando l’onere della prova sul paziente che lamenta la violazione del suo diritto.

In questa fondamentale giurisprudenza, dunque, è il valore della persona umana che costituisce il presupposto per comprendere il valore della salute, quale presupposto per il risarcimento del danno biologico.

Nella giurisprudenza successiva sono rinvenibili pronunce che dichiarano l’illegittimità di discipline in qualche modo limitative della tutela risarcitoria, proprio sulla base dell’assunto che i danni alla salute psicofisica del soggetto sono danni che compromettono la capacità di porre in essere “attività realizzatrici della persona umana” (Cfr. Corte cost. sent. n. 356/1991, 485/1991).

Collegato al diritto all’integrità psico-fisica, è anche il tema del riconoscimento e della tutela del “diritto all’ambiente salubre”. Senza entrare nel merito di una materia dai confini amplissimi, si può solamente ricordare come la giurisprudenza, con la dottrina prevalente, anche se esclude di configurare l’ambiente (medio ambiente), come oggetto di un generico e generale diritto soggettivo, preferisce assumere la categoria qualificatoria del valore costituzionale comprensivo di una pluralità di beni e situazioni giuridiche soggettive (fondato negli artt. 2, 9 e 32 della Costituzione).

Di conseguenza, in dialogo con pionieristiche decisioni dei giudici comuni, il giudice delle leggi riconosce all’individuo il “diritto alla salubrità dell’ambiente di vita”, come prolungamento del diritto alla salute dell’individuo[140].

Giurisprudenza questa, che si muove in parallelo a quella che ha esteso la tutela del diritto alla salute dalla persona anche ai luoghi di lavoro[141]. In definitiva, l’integrità psico-fisica protetta dal diritto alla salute comprende la pretesa dell’individuo a condizioni di vita, di ambiente e di lavoro che non pongano a rischio tale bene fondamentale (sent. 218/1994).

 


[1] In argomento si vedano R. Ferrara, L’ordinamento della sanità, Torino, 2007 e G. Cilione, Diritto Sanitario, Rimini, 2005, 2 ss.

[2] Una delle motivazioni era quella di evitare la diffusione di malattie contagiose, così da consentire un costante aumento demografico, al fine di soddisfare il fabbisogno di forza lavoro e ampliare il mercato.

[3] Il r.d. n. 2841/1993 denominò le istituzioni operanti nel settore «Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza» (Ipab) allo scopo di precisare il tipo di attività svolta.

[4] Per un resoconto sulle differenti posizioni che condussero all’attuale formulazione dell’art. 32 della Costituzione, si rinvia a Camera dei Deputati - Segretariato generale, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Roma, 1970, vol. 2, 1215 ss.™

[5] Per alcune riflessioni in argomento, si veda A. Simoncini - E. Longo, Art. 32, in R. Bifulco - A. Celotto - M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, I, Torino, 2006, 671 ss.

[6] È il contenuto proprio del diritto alla salute, tutelato come diritto soggettivo direttamente azionabile erga omnes (Corte cost., sentt. nn. 247/1974, 88/1979, 356/1991, 107/2012), sia nei confronti dei pubblici poteri, sia nei confronti dei privati (Corte cost. sentt. nn. 88/1979, 184/1986; 557/1987; 202/1991).

[7] Emblematica, oltre ai casi di cui si dirà più diffusamente, la declaratoria di legittimità della disciplina diretta a prescrivere l’obbligatorietà del casco per la circolazione sui motoveicoli. Cfr. Corte cost. sent. n. 180/1994 (ritenuta non in contrasto con gli art. 16 e 32 Cost.).

[8] In questo senso, riassuntivamente, la sent. n. 85/2013, che risolve con una decisione di infondatezza il “caso Ilva”, componendo così un complesso conflitto di valori costituzionali (tutela della salute, tutela dell’ambiente, tutela del lavoro) collegato alla vicenda di un importante stabilimento siderurgico nazionale situato a Taranto in Puglia (chiuso dal giudice per ragioni di inquinamento e di protezione della salute dei lavoratori e, poi, autorizzato a riprendere il ciclo produttivo dal Governo, a garanzia dei livelli occupazionali, mediante un decreto-legge poi portato all’attenzione della Corte costituzionale). Sul ragionevole bilanciamento cfr. Morrone 2011.

[9] Quanto riportato nel testo si ricollega al superamento della tradizionale contrapposizione, tra diritti di libertà e diritti sociali, oggetto di analisi nella parte che precede.

[10] Pur avendo assegnato la Costituzione un valore primario al diritto alla salute, riconoscendo in esso una delle più rilevanti espressioni dello Stato sociale, tuttavia per molto tempo alla disposizione contenuta nell’ art. 32, comma 1, Cost. è stato attribuito un carattere meramente programmatico e non precettivo, fino a quando la Corte costituzionale non si è chiaramente espressa pienamente per la sua azionabilità, ritenendolo un diritto primario ed assoluto, anche processualmente, in caso di sua violazione (Cfr., tra le prime affermazioni in tal senso, Corte Cost. n. 88/1979; n. 559/1987).

[11] L’art. 1, comma 3, della l. n. 833/1978 dispone: «Il Servizio Sanitario Nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio. L’attuazione del Servizio Sanitario Nazionale compete allo Stato, alle regioni e agli enti locali territoriali, garantendo la partecipazione dei cittadini».

[12] Ai sensi dell’art. 1, comma 1, della l. n. 833/1978: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività mediante il Servizio Sanitario Nazionale».

[13] Il Servizio sanitario nazionale fu strutturato secondo caratteri di universalità, sancendo definitivamente la responsabilità della Repubblica in ordine alla tutela della salute, da finanziarsi attraverso la fiscalità generale.  Dal punto di vista organizzativo, fu prevista un’articolazione territoriale basata su Unità sanitarie locali che avevano il compito di provvedere in modo uniforme «alla gestione unitaria della tutela della salute» avvalendosi delle strutture e dei servizi ereditati dal pregresso sistema mutualistico, dagli Enti locali e dagli ospedali, con oneri a carico dello Stato centrale, previa istituzione del Fondo sanitario nazionale. La scelta dei costituenti si concentrò, verso l’articolazione di un modello di responsabilità degli enti pubblici di tipo “territoriale”, in considerazione del fatto che la territorializzazione delle strutture e la loro diffusione sul territorio nazionale costituisse il modello organizzativo più efficiente nella garanzia del diritto alla salute (A. M. Poggi, Istruzione, formazione e servizi alla persona tra regioni e comunità nazionale, Torino, 2007, 87.). La revisione costituzionale operata nel 2001 ha poi, come noto, innovato il quadro delle competenze, riservando alla potestà legislativa esclusiva dello Stato «la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117, comma 2, lett. m, Cost.) e attribuendo la materia «tutela della salute» (che sostituisce la precedente dizione «assistenza sanitaria e ospedaliera») alla competenza legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni (art. 117, comma 3, Cost.). Il legislatore statale e quello regionale hanno il compito, nei termini sopra accennati, di innovare il sistema delle fonti. Rilevante, a tal proposito, è l’esempio della Regione Lombardia che, come si vedrà, ha avviato con la l. reg. 11 agosto 2015, n. 23 la sperimentazione di un nuovo servizio socio-sanitario, “positivizzando” un modello organizzativo e di gestione dei servizi socio-sanitari che supera parte delle fonti nazionali.

[14] Cfr. sul punto sent. n. 167/1999, con riferimento al diritto della persona handicappata di potere accedere dal proprio condominio alla pubblica via mediante strutture architettoniche adeguate.

[15] Si discute in letteratura se l’art. 32, comma 2, Cost, contenga una riserva di legge assoluta o solo relativa; comunque si riconosce l’esigenza che il legislatore stabilisca una disciplina sufficientemente determinata (Cfr. per tutti Luciani 1989, 10). Secondo alcuni la disposizione equivale ad una riserva di legge statale, vietando interventi da parte della legge regionale (Cartabia 2012, 458).

[16] Qualificabili come l’insieme delle “attività diagnostiche e terapeutiche volte a prevenire o curare le malattie”, cfr. Luciani 1989, 10.

[17] I TSO vanno distinti dai trattamenti coattivi, che sono quelli imposti con la forza (come ad esempio i ricoveri imposti ai malati di mente o i prelievi ematici): questi, in quanto implicano una degradazione della personalità o una invasione nella sfera personale, sono sottoposti alle più rigorose garanzie dell’art. 13 Cost., laddove per le misure restrittive della libertà personale si stabilisce la duplice garanzia della riserva assoluta di legge e della riserva di provvedimento giurisdizionale. Si tratta, però, di svolgere un’indagine caso per caso: come dimostra bene la giurisprudenza, cfr. Corte cost. sent. n. 30/1962 (sui rilievi segnaletici previsti dalla legislazione in materia di pubblica sicurezza, distinti a seconda che importino ispezioni personali – come prelievi di sangue, o complesse indagini di ordine psicologico o psichiatrico o accertamenti su parti del corpo non esposte alla vista altrui – o che restino esteriori alla persona, come i rilievi fotografici o antropometrici); sent. 64/1986 (sui prelievi ematici su persona non consenziente); e soprattutto 238/1996, nella quale chiaramente si afferma che il prelievo ematico su persona non consenziente comporta una restrizione della libertà personale, “in quanto non solo interessa la sfera della libertà personale, ma la travalica perché, seppur in minima misura, invade la sfera corporale della persona - pur senza di norma comprometterne, di per sé, l’integrità fisica o la salute (anche psichica), né la sua dignità, in quanto pratica medica di ordinaria amministrazione (cfr. sentenza n. 194 del 1996) - e di quella sfera sottrae, per fini di acquisizione probatoria nel processo penale, una parte che è, sì, pressoché insignificante, ma non certo nulla”.

[18] La decisione della Corte costituzionale ha poi spinto il Parlamento ad approvare la legge n. 201 del 1992, disciplina poi più volte sottoposta al giudizio della Corte costituzionale e talora colpita da pronunce di illegittimità costituzionale (cfr., ad esempio, Corte cost. sentt. nn. 27/1998 e 43/2000).

[19] P.F d’Arcais, A chi appartiene la tua vita? Saggi Ponte alle Grazie, 28 Milano, Salani editore, 2009, pag. 15.

[20] La giurisprudenza costituzionale è quindi intervenuta in più occasioni a tracciare distintamente i confini del ricorso ai trattamenti sanitari obbligatori. Così, nelle sentt. 307/1990 e 132/1992 in tema di vaccinazione antipoliomelitica e nella sent. 218/1994 in tema di prevenzione e lotta contro l’HIV, la Corte ha affermato che detti trattamenti possono essere imposti solo dalla necessità di salvaguardare contemporaneamente la salute individuale e la salute collettiva, nel senso che “l’eventuale conflitto tra la libertà individuale e l’interesse della salute collettiva può essere risolto a favore di quest’ultimo solo nei casi in cui la sua tutela non contrasti ma coincida con la tutela della salute individuale”. Sarà pertanto compatibile con l’art. 32 Cost. il trattamento sanitario obbligatorio che “sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale” (sent. 258/1994). La sent. 253/2003, a proposito della misura coercitiva del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, chiarisce come “le esigenze di tutela della collettività non potrebbero mai giustificare misure tali da recare danno, anziché vantaggio, alla salute del paziente”. Richiamando peraltro le precedenti sentt. 307/1990, 258/1994 e 118/1996, in tema di misure sanitarie obbligatorie a tutela della salute pubblica

[21] Cfr. C. Cost. sent. n. 175/1982

[22] Nel caso si trattava della domanda diretta a estendere l’applicazione dell’indennità sostitutiva della retribuzione per il lavoratore costretto a dialisi anche in periodi non coperti normativamente dall’indennizzo; questione dichiarata comunque inammissibile in quanto diretta ad ottenere una pronuncia additiva “non a rime obbligate”, stante la latitudine delle scelte operabili in questo ambito, non consentite perciò alla Corte costituzionale e, quindi, rimesse a un intervento diretto e auspicato del legislatore.

[23] Nella specie è stata dichiara illegittima la disciplina della Regione Puglia, riconosciuta priva di ragioni di pregio costituzionale per giustificare la restrizione del diritto ex art. 32 Cost., nella parte in cui restringeva la possibilità per le Aziende sanitarie locali di stipulare accordi contrattuali (su prestazioni riabilitative domiciliari) con i soli operatori situati nel territorio della Regione. Il divieto assoluto di stipulare contratti con operatori extraregionali, infatti, “non ottiene necessariamente un risparmio di spesa; anzi, potrebbe tradursi persino in una diseconomia, nel caso in cui le tariffe praticate dai servizi sanitari di altre Regioni siano inferiori a quelle pugliesi”. Inoltre, la norma colpisce, discriminandoli, soprattutto i disabili più gravi, che necessitano di prestazioni a domicilio, rispetto a quanti mantengono una capacità di mobilità che consente loro di ricevere le prestazioni anche in ambulatorio, con “pregiudizio anche della continuità nelle cure e nell’assistenza che costituisce un profilo del diritto alla salute ugualmente riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 19 del 2009 e n. 158 del 2007) – specie per i pazienti che da tempo sono presi in carico da strutture ubicate al di fuori della Regione Puglia, con le quali non risulta più possibile concludere accordi contrattuali”.

[24] Cfr. Corte cost. sent. n. 509/2000.

[25] Cfr. Corte cost. sentt. nn. 282/2002, 383/2003 e 151/2009.

[26] 1 Tende a ridurne la portata di questo “diritto” il giudice costituzionale Marta Cartabia, ritenendo che la pronuncia – resa in un giudizio in via d’azione, promosso dallo Stato nei confronti di una legge della Provincia autonoma di Trento, che violava la riserva costituzionale in capo al legislatore statale dei principi fondamentali della materia “tutela della salute”, nella quale secondo la Corte costituzionale rientrano le norme sul “consenso informato” – non vada letta “in modo decontestualizzato” (Cartabia 2012, 463).

[27] D. Canale, Conflitti pratici, Editori Laterza, Urbino, 2017, pp. 151-153

[28] I. Lagrotta, Diritto alla vita ed eutanasia nell’ordinamento 35 costituzionale italiano: principi e valori, in LexItalia, reperibile alla pagina http://www.lexitalia.it/articoli/lagrotta_eutanasia.htm

[29] Comitato scientifico, Fascicolo 2019, 1-BIS, “Questioni di fine vita”, in  G i u r i s p r u d e n z a P e n a l e , re p e r i b i l e a l l a p a g i n a http:// www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2019/01/ gp_2019_1bis_questioni_fine_vita.pdf

[30] S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, 37 Milano 2006, capp. 1 e 9.

[31] P.F d’Arcais, A chi appartiene la tua vita? Saggi Ponte alle Grazie, 40 Salani editore, Milano, 2009, pag. 103-106

[32] Cfr., ad esempio, Corte cost. 27/1975 il cui testo è reperibile alla 41 pagina http://www.giurcost.org/decisioni/1975/0027s-75.html , Corte cost. 161/1985 il cui testo è reperibile alla pagina http:// www.giurcost.org/decisioni/1985/0161s-85.htm

[33] P.F d’Arcais, A chi appartiene la tua vita?, Saggi Ponte alle Grazie, 42 Salani editore, Milano, 2009, pag. 103-106

[34] P.F d’Arcais, A chi appartiene la tua vita? Saggi Ponte alle Grazie, 44 Salani editore, Milano, 2009, pag. 103-106

[35] D. Cardillo, Le istanze di fine vita, relazione, in Rete Oncologica 45 Piemonte, reperibile alla pagina http://www.reteoncologica.it/images/ stories/Volontariato/la_scintilla/ intervento_Avv_DANIELA_CARDILLO.pdf

[36] Il cui testo è reperibile alla pagina http://www.handylex.org/stato/ 46 l231278.shtml

[37] Il cui testo è reperibile alla pagina https://www.studiocataldi.it/ 47 normativa/codice-deontologia-medica/

[38] D. Demurtas, Scelte di fine vita, in UAAR, reperibile alla pagina 48 https://www.uaar.it/uaar/premio-laurea-uaar/2010/demurtas-finevita.pdf

[39] A. Scalisi, Il valore della persona nel sistema e i nuovi diritti della 49 personalità, Giuffrè, Milano 1990, pag. 115

[40] I testi delle sentenze sono reperibili alle pagine http:// 50 www.giurcost.org/decisioni/2007/0348s-07.html e http:// www.giurcost.org/decisioni/2007/0349s-07.html

[41] l testo della sentenza è reperibile alla pagina http://www.giurcost.org/ 51 decisioni/2011/0080s-11.htm

[42] In argomento si veda la ricostruzione di V. Durante, Dimensioni della salute: dalla definizione dell’OMS al diritto attuale, in Nuova giur. civ. comm., 2001, II, 132 ss.; Id., Salute e diritti tra fonti giuridiche e fonti deontologiche, in Politica del diritto, n. 4/2004, 563 ss.

[43] Reperibile nel sito dell’OMS, in http://www.who.int

[44] Significativi sono, altresì, i seguenti passaggi del Preambolo: «The extension to all peoples of the benefits of medical, psychological and related knowledge is essential to the fullest attainment of health. Governments have a responsibility for the health of their peoples which can be fulfilled only by the provision of adequate health and social measures».

[45] Adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con Risoluzione 2200A (XXI) del 16 dicembre 1966, entrata in vigore in l’Italia il 15 dicembre 1978. Reperibile in http://www.ohchr.org/EN/ProfessionalInterest/Pages/CESCR.aspx

[46] R. Balduzzi - G. Carpani (a cura di), Manuale di diritto sanitario, Bologna, 2013, 23 ss.

[47] Il Documento, stilato nel 1986 nella prima «Conferenza internazionale per la promozione della salute», costituisce un importante quanto attuale riferimento per lo sviluppo di politiche orientate alla salute.

[48] Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina: Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina (Oviedo, 4 aprile 1997). Com’è noto, nonostante l’Italia abbia approvato la legge 28 marzo 2001, n. 145, lo strumento di ratifica non è stato ancora depositato né sono stati emanati i «decreti legislativi recanti ulteriori disposizioni occorrenti per l’adattamento dell’ordinamento giuridico italiano ai principi e alle norme della Convenzione e del Protocollo di cui all’articolo 1» (art. 3 l. n. 145/2001).

[49] La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Italia anche nota come Carta di Nizza, è stata solennemente proclamata una prima volta il 7 dicembre 2000 a Nizza e una seconda volta, in una versione adattata, il 12 dicembre 2007.

[50] In argomento si vedano le osservazioni di V. Durante, La salute come diritto della persona, in AA.V.V., Il governo del corpo, Trattato di Biodiritto (a cura di S. Rodotà e P. Zatti), tomo I, Milano, 2011, 582; P. Zatti, Rapporto medico-paziente e «integrità» della persona, in Nuova giur. civ. comm., 2008, II, 406 ss.; R. Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010, 77 ss.

[51] Art. 3 «Ogni persona ha diritto alla propria integrità fisica e psichica…».

[52] Art. 1«La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata».

[53] 2 L’art. 3, come visto, lega immediatamente l’integrità psico-fisica al “consenso libero e informato della persona”, che risulta quindi lo strumento attraverso cui si forma un rapporto di «inclusione […] tra integrità e autodeterminazione» (R. Pucella, Autodeterminazione e responsabilità, cit., 83).

[54] L’art. 35 della Carta dei diritti prevede che «ogni individuo ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali. Nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana». Ma si v. anche l’art. 3, comma 1, «ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica».

[55] Disposizioni riferite al tema sono altresì rinvenibili nell’art. 25, comma 1, della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.

[56] Sono note le critiche, in particolare di D. Callahan, The WHO Definition of Health, in Hastings Center Studies, I, 3, 1973, 77 ss., legate sostanzialmente alla presunta ampiezza eccessiva di tale definizione e al suo carattere utopistico; Id., What Kind of Life. The Limits of Medical Progress, Washington, Georgetown University Press, 1990. Secondo tale impostazione, dunque, vi sarebbero da un lato il rischio di includere ogni problema sociale nella sfera dei problemi di salute e le conseguenti difficoltà nel delimitare i compiti della medicina, dall’altro i pericoli legati ad una definizione palesemente utopistica, non potendo alcun individuo affermare di trovarsi in uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale.

[57] 6 Cfr. R. Moynihan - R. Smith, Too much medicine? in British Medical Journal, 2002, 859 ss.

[58] N. Aicardi, La sanità, in S. Cassese (a cura di) Trattato di diritto amministrativo, Milano, 2003, 626.

[59] Ai sensi dell’art. 32 Cost.: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

[60] Tra i lavori di maggiore interesse che evidenziano i profili costituzionali del diritto alla salute, senza pretesa di completezza, si vedano: S. Lessona, La tutela della salute pubblica, in P. Calamandrei, A. Levi, Commentario sistematico alla Costituzione italiana, Firenze, 1950, 336 ss.; C. Lega, Il diritto alla salute in un sistema di sicurezza sociale, Roma, 1952; F. Pergolesi, Tutela costituzionale della salute, in Corriere amministrativo, 1961, 991 ss.; C. Mortati, La tutela della salute nella Costituzione italiana, in Riv. infortuni e malattie professionali, 1961, I, 1, ora in Raccolta di scritti, Milano, 1972, 433 ss.; R. Pasquini, La tutela della salute nell’ordinamento italiano, in Problemi della sicurezza sociale, 1966, 254 ss.; L. Carlassare, L’art. 32 cost. e il suo significato, in R. Alessi (a cura di), L’amministrazione sanitaria italiana, Atti del congresso celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione, Vicenza, 1967; S. Merlini, Libertà personale e tutela della salute mentale: profili costituzionali, in Democrazia e Diritto, 1970, 78 ss.; M. Bessone - E. Roppo, Diritto soggettivo alla salute, applicabilità diretta dell’art. 32 Cost. ed evoluzione della giurisprudenza, in Politica del diritto, 1974; Id., Garanzia costituzionale del diritto alla salute e orientamenti della giurisprudenza di merito, in Giur. it., IV, 1975; F.D. Busnelli - U. Breccia (a cura di), Tutela della salute e diritto privato, Milano, 1978; F. Di Cerbo, La tutela della salute nell’ordinamento giuridico italiano, Roma, 1978; M. Luciani, Il diritto costituzionale alla salute, in Diritto e società, 1980, 769 ss.; R. D’Alessio, I limiti costituzionali dei trattamenti “sanitari”, in Diritto e società, 1981, 536 ss.; B. Pezzini, Il diritto alla salute: profili costituzionali, in Diritto e società, 1983, I, 21 ss.; B. Caravita, La disciplina costituzionale della salute, in Diritto e società, 1984; C. Bottari, Principi costituzionali e assistenza sanitaria, Milano, 1991; F. Modugno, I “nuovi diritti” nella giurisprudenza costituzionale, cit., 40 ss.; I. Teresi, La tutela della salute nelle decisioni della Corte costituzionale, in Rass. dir. civ., 1998, n. 1, 114 ss.; R. Ferrara, voce «Salute (diritto alla)», in Digesto (disc. pubbl.), XIII, cit., 513 ss.; M. Cocconi, Il diritto alla tutela della salute, Padova, 1998; C. Bottari, Il diritto alla tutela della salute, in P. Ridola - R. Nania (a cura di), I diritti costituzionali, II, Torino, 2001; D. Morana, La salute nella Costituzione italiana, Milano, 2002. Sui profili organizzativi v. R. Balduzzi - G. Di Gaspare, Sanità e assistenza dopo la riforma del Titolo V, Milano, 2002; L. Chieffi (a cura di), Il diritto alla salute alle soglie del terzo millennio. Profili di ordine etico, giuridico ed economico, Torino, 2003; R. Balduzzi - G. Carpani (a cura di), Manuale di diritto sanitario, cit., 14 ss.

[61] Nell’ambito dei due profili cennati è possibile distinguere, secondo R. Balduzzi - D. Servetti, La garanzia costituzionale del diritto alla salute e la sua attuazione nel Servizio sanitario nazionale, in R. Balduzzi - G. Carpani (a cura di), Manuale di diritto sanitario, cit., 25 «cinque situazioni giuridiche soggettive coordinate tra di loro: il diritto dell’ individuo a che la Repubblica tuteli la sua salute; l’interesse generale a che la Repubblica tuteli la salute collettiva; il diritto della persona in stato di indigenza a pretendere cure gratuite; la libertà dell’ individuo di non sottoporsi a o di rifiutare trattamenti sanitari obbligatori; il dovere dell’ individuo di sottoporsi a trattamenti sanitari in base ad un obbligo di legge, mai in violazione dei limiti imposti dal rispetto della persona umana».

[62] È importante sottolineare come la salute sia l’unico diritto che la Costituzione espressamente qualifica come fondamentale, per affermare la sua essenza di nucleo fondativo di tutti gli altri diritti e presupposto irrinunciabile per la piena realizzazione della persona umana

[63] “D’où venons nous / Que sommes nous / Où allons nous”. Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo? è un dipinto del 1897 di Paul Gauguin ad olio su tela (141 x 376 cm). Oggi l’opera è conservata al Museum of Fine Arts di Boston.

[64] “La malattia mortale” di Kierkegaard.

[65] Rileva, al riguardo, PAMPALONE, op. cit., 147 ss.: «La legge del 1999 ha, quindi, il pregio di avere introdotto le c.p. nell’orbita dell’intervento pubblico, dando così l’avvio a numerosi altri provvedimenti che nel tempo hanno concorso al loro progressivo consolidamento nel nostro paese. Fondamentale è il d.m. 28.9.1999 che in attuazione della legge n. 39/1999 ha adottato il “Programma nazionale per la realizzazione di strutture per le c.p.”, richiedendo alle Regioni e le Provincie autonome l’istituzione di una vera propria rete di assistenza ai pazienti terminali al fine di garantire il continuum delle cure nelle varie fasi assistenziali e il coordinamento delle attività sanitarie. Numerosi provvedimenti di diversa natura, sia statali che regionali, si sono poi susseguiti per il raggiungimento degli obiettivi del Programma. Degni di particolare attenzione sono l’inserimento delle c.p. tra i livelli essenziali di assistenza previsti dal d.p.c.m. 29.11.2001, per il fatto che con esso si evidenzia la centralità delle c.p. per il contenuto fondamentale del diritto alla salute e, infine, la l. 8.2.2001, n. 12 che, introducendo significative semplificazioni per la prescrizione dei farmaci oppiacei, ha contribuito a colmare il notevole ritardo del nostro paese nell’uso e nel ricorso alla morfina».

[66] Del Rio & White, 2012; Miller & Thoresen 1999.

[67] Ritualistic, Theistic, and Existential Spirituality: Initial Psychometric Qualities of the RiTE Measure of Spirituality Jon R. Webb, Loren Toussaint & Chris S. Dula. Journal of Religion and Health ISSN 0022-4197 J Relig Health DOI 10.1007/s10943-013-9697-y.

[68] Vedi Zinnbauer e Pargament 2005.

[69] Pargamento, KI (1997). La psicologia della religione e il coping: teoria, ricerca, pratica. Guildford Press. Di fronte a una crisi, perché alcune persone si rivolgono alla religione per aiutarsi ad affrontare una crisi, mentre altre se ne allontanano? La fede religiosa è semplicemente una difesa o una forma di negazione? La religione è un aiuto o un ostacolo nei momenti di stress? Costruendo un ponte tra due diversi mondi di pensiero e pratica – religione e psicologia – questo volume intreccia la teoria con resoconti di prima mano, intuizioni cliniche e ricerca empirica. Il libro sottolinea la necessità di una maggiore sensibilità alla religione e alla spiritualità nel contesto delle relazioni di aiuto e suggerisce diversi modi in cui i medici possono lavorare in modo più efficace con le questioni religiose in terapia. L'autore attinge alle esperienze di persone che sono state messe alla prova da tragedie e perdite: dai sopravvissuti al terrorismo e ai disastri naturali a coloro che affrontano tipi di crisi più comuni, come la malattia e le transizioni di vita. Il pubblico a cui è rivolto sono professionisti della salute mentale, ricercatori psicologi, professionisti ed educatori religiosi. Il libro funge anche da testo per corsi che trattano l'interfaccia tra religione, psicologia e salute mentale. (Record del database PsycINFO (c) 2016 APA)

[70] Ellis, A. e Dryden, W. (1997). La pratica della terapia comportamentale emotiva razionale (2a ed.). Springer Publishing Co. [Gli autori hanno] tentato di produrre un volume che presenti un quadro completo della pratica della REBT [terapia comportamentale emotiva razionale] che possa essere utilizzato efficacemente da qualsiasi terapista che voglia impiegare le sue importanti modalità cliniche. (Record del database PsycINFO (c) 2016 APA,).

[71] I significati emergenti di religiosità e spiritualità: problemi e prospettive Brian J. Zinnbauer, Kenneth I. Pargamento, Allie B. Scott Pubblicato per la prima volta:25 dicembre 2001 https://doi.org/10.1111/1467-6494.00077. Questo articolo esamina le caratterizzazioni psicologiche tradizionali e moderne della religiosità e della spiritualità. Vengono esaminati tre modi in cui religiosità e spiritualità sono polarizzate dai teorici contemporanei: religione organizzata contro spiritualità personale; religione sostanziale versus spiritualità funzionale; e religiosità negativa contro spiritualità positiva. Viene presentato un approccio alternativo alla comprensione della religiosità e della spiritualità che integra anziché polarizzare questi costrutti e stabilisce i confini della disciplina pur riconoscendo la diversità delle espressioni religiose e spirituali. Vengono presentate le indicazioni per le future indagini su questi due costrutti.

[72] Zinnbauer, BJ e Pargament, KI (2005). Religiosità e spiritualità. In RF Paloutzian & CL Park (a cura di), Manuale di psicologia della religione e della spiritualità (pp. 21–42). La stampa di Guilford. Questo capitolo inizia con un esame delle tendenze storiche e delle sfide attuali affrontate dagli psicologi che cercano di definire religiosità e spiritualità. Vengono quindi esaminate e valutate le tendenze moderne a differenziare e polarizzare la religiosità e la spiritualità, e vengono prese in considerazione alcune sfide e possibilità per la concettualizzazione e la misurazione di questi costrutti. Il capitolo si conclude con la presentazione di definizioni di religiosità e spiritualità che evitano le trappole del passato e del presente e incorporano i concetti di analisi multilivello-multidimensionale e di cambiamento evolutivo. (Record del database PsycInfo (c) 2023 APA).

[73] DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI AI PARTECIPANTI AL CONVEGNO NAZIONALE PROMOSSO DALL’UNIONE GIURISTI CATTOLICI ITALIANI, Aula delle Benedizioni, Sabato, 9 dicembre 2006.

 

[74] D’Ivernois J.F., Gagnayre R., Educare il Paziente – Un approccio pedagogico, Mc Graw Hill, Milano

[75] Stuart Mill J., 1999, La libertà. L’utilitarismo. L’asservimento delle donne, traduzione e note di Enrico Mistretta. Introduzione di Eugenio Lecaldano, Milano, Rizzoli

[76] Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis Splendor6 agosto 1993, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, articolo 90.

[77] E. Sgreccia, Manuale di bioetica, vol. I, Vita e pensiero, Milano, 1988.

[78] B. Magliona, Un percorso comune. Sacralità e qualità della vita umana nella riflessione bioetica, Giuffrè editore, Milano, 1996.

[79] E. Sgreccia, Manuale di bioetica, vol. I, Vita e pensiero, Milano, 1988, p. 68.

[80] R. Panikkar, Il dialogo intrareligioso, Cittadella Editrice, Assisi, 2001, p. 21.

[81] Il riferimento va, tra gli altri, a P. Cendon, I malati terminali e i loro diritti, Milano, 2003.

[82] Il Consiglio d’Europa rappresenta la più antica istituzione internazionale nata dall’ “idea di Europa”. Fondato nel 1949, con la progressiva adesione delle nuove democrazie dei Paesi dell’Europa Orientale, l’Organizzazione di Strasburgo ha oggi acquisito una dimensione paneuropea, comprendendo attualmente 47 Stati. Hanno status di osservatore la Santa Sede, gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone e il Messico. Funzione del Consiglio d’Europa è promuovere gli ideali che costituiscono il patrimonio comune degli Stati membri: democrazia, stato di diritto e rispetto dei diritti umani, questi ultimi tutelati dalla più importante delle Convenzioni del Consiglio: la Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950.

[83] Raccomandazione del 25 giugno 1999 n. 1418, intitolata «Protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dei malati incurabili e dei morienti»

[84] A conclusione di un progetto condiviso e multidisciplinare che ha coinvolto 88 paesi, nel 2018 l’International Association for Hospice and Palliative Care ha individuato una nuova definizione di cure palliative (CP). L’obiettivo della formulazione di una nuova definizione di CP è promuovere la loro implementazione a livello mondiale superando gli ostacoli legati ad una mancanza di consenso circa il “quando, il come e da chi” devono essere offerte. Il progetto prese le mosse dal rapporto «Alleviating the Access Abyss in Palliative Care and Pain Relief. An Imperative of Universal Health Coverage» stilato nel 2017 dalla Lancet Commission on Global Access to Palliative Care and Pain Relief. La Lancet Commission ha formulato una nuova e più ampia concezione di CP rispetto alle storiche definizioni di CP dell’Organizzazione Mondiale delle Sanità, raccomandando a quest’ultima la revisione della definizione. La IAHPC, in accordo con l’OMS, ha realizzato un progetto di costruzione per consenso progressivo di una definizione focalizzata sul sollievo dalle sofferenze di tutti i malati che ne necessitino, indipendentemente dalla diagnosi, prognosi, localizzazione geografica e reddito. Ulteriori informazioni sono reperibili al seguente link: https://hospicecare.com/what-we-do/projects/consensus-based-definition-of-palliative-care/v

[85] Sui caratteri fondamentali delle cure palliative v. E. Ivalù Pampalone, Cure palliative (voce), in R. Sacco (a cura di), Digesto delle discipline privatistiche, Milano, 2014, 149 ss. e l’ampia bibliografia ivi citata

[86] In argomento v. T. Pasquino, Dignità della persona e diritti del malato, in L. Lenti - E. Palermo Fabris - P. Zatti (a cura di), Trattato di biodiritto - I diritti in medicina, Milano, 2011, 555.

[87] In tal senso F. Persano, Cure palliative in Italia tra etica e diritto, Siena, 2015, 38. A tal riguardo si sostiene che nella formula secondo cui «nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge» bisogna riconoscere un diritto all’autodeterminazione che si sostanzia, per quanto qui interessa, nella scelta di avere accesso alle cure palliative, come forma di salvaguardia della dignità umana. Sul tema v. G.U. Rescigno, Dal diritto di rifiutare un determinato trattamento sanitario secondo l’art. 32, co. 2, cost., al principio di autodeterminazione intorno alla propria vita, in Diritto pubblico, 2008, 109; S. Tordini Cagli, Principio di autodeterminazione e consenso dell’avente diritto, Bologna 2008.

[88] Cfr. le riflessioni di B. Pezzini, Diritto costituzionale alla salute, trattamento sanitario, cure palliative: spunti di riflessione sulla relazione terapeutica, in E. Stradella (a cura di), Diritto alla salute e alla “vita buona” nel confine tra il vivere e il morire: riflessioni interdisciplinari, Pisa, 2011, 172-173

[89] L’appropriatezza della cura palliativa viene riconosciuta dall’art. 16 del Codice di deontologia medica del 18 maggio 2014, il quale afferma che il controllo efficace del dolore si configura, in ogni condizione clinica, come trattamento appropriato e proporzionato.

[90] Cfr. in tal senso, Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2008, n. 23846. Due medici di un ospedale romano omettono di diagnosticare una malattia incurabile ad una paziente, afflitta da fortissimi dolori alla schiena e all’addome, la quale, circa un mese dopo, si sottopone privatamente ad ulteriore visita presso altro specialista, apprendendo di essere affetta da un tumore già in fase molto avanzata. La paziente, alla quale subentrano poi gli eredi, promuove la causa civile per chiedere il risarcimento del danno conseguente alla mancata tempestiva diagnosi nei confronti dei medici e della struttura sanitaria. Su queste basi il Tribunale e la Corte d’Appello di Roma respingono la domanda risarcitoria, osservando che, pur sussistendo l’errore professionale, esso tuttavia non aveva svolto alcuna incidenza sull’aggravamento delle condizioni di salute della paziente e sulla sua morte, in quanto l’ultimo stadio della malattia si era già sviluppato irreversibilmente. Tale prospettazione viene rovesciata dalla Corte di Cassazione che si sofferma ad esaminare i vari profili del danno alla persona e da perdita di chance sofferti dall’ammalato a causa dell’omissione della diagnosi di una malattia terminale. La Cassazione osserva che il ritardo nell’esecuzione dell’intervento, a causa della mancata tempestiva diagnosi, ha privato la paziente dei benefici terapeutici, seppur palliativi, per circa un mese. La perdita della qualità della vita che i benefici avrebbero potuto assicurarle durante detto lasso di tempo integra certamente un danno alla salute in conseguenza dell’accertata responsabilità dei sanitari (che fa carico anche alla struttura ospedaliera), che erroneamente la Corte territoriale ha invece escluso. Inoltre la Cassazione censura la sentenza di merito per aver escluso l’esistenza di un danno sotto il profilo della perdita della qualità della vita anche per il periodo successivo alla diagnosi esatta. In proposito la Suprema Corte rileva che la paziente avrebbe tratto maggiori benefici dalle terapie - sia pure inidonee a scongiurare l’esito finale della malattia - qualora esse fossero state tempestivamente effettuate, in considerazione delle sue migliori condizioni generali di salute. La qualità di vita della persona nelle sue proiezioni psico-fisiche ne risulta, pertanto, compromessa, sì che si configura un danno morale.

[91] Cass. civ., sez. III, 15 aprile 2019, n. 10424, in https://www.biodiritto.org/Biolawpedia/Giurisprudenza/Corte-di-Cassazione-sez.-III-civ.-sent.-10424-2019-responsabilita-medicaper-danni-da-omessa-tempestiva-diagnosi-di-patologia-oncologica-ad-esito-infausto

[92] Oltre il presente. Ci serve un'utopia ragionevole per poter guardare al futuro, Paola Ricci Sindoni giovedì 2 gennaio 2020 Avvenire.

[93] Zannini L., Medical Humanities, e medicina narrativa. Nuove prospettive nella formazione dei professionisti della cura, Milano Raffaello Cortina, 2008, pp57-65

[94] Lozupone, E., Contributi pedagogici in ambito sanitario: dall’intervento psicoeducativo all’educazione terapeutica, in I problemi della pedagogia, nn. 4-6, 2009, pp. 557-569.

[95] CENSIS, Forum per la Ricerca Biomedica, Quale futuro per il rapporto medico-paziente nella nuova sanità? Roma, Fondazione CENSIS, 2012.

[96] L’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (AGENAS) è un Ente pubblico non economico di rilievo nazionale, istituito con decreto legislativo del 30 giugno 1993 n.266 e s.m.i., e si configura come organo tecnico-scientifico del SSN svolgendo attività di ricerca e di supporto nei confronti del Ministro della salute, delle Regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano, ai sensi dell’art. 2, comma 357, legge 24 dicembre 2007 n. 244. AGENAS assicura, inoltre, la propria collaborazione tecnico-operativa alle Regioni e alle singole aziende sanitarie in ambito organizzativo, gestionale, economico, finanziario e contabile, in tema di efficacia degli interventi sanitari, nonché di qualità, sicurezza e umanizzazione delle cure. Il decreto legge 8 aprile 2020 n. 23, convertito con modificazioni dalla legge 5 giugno 2020 n. 40, ha affidato ad AGENAS il compito di collaborare all’azione di potenziamento della rete di assistenza ospedaliera e territoriale, al fine di assicurare la più elevata risposta sanitaria all’emergenza epidemiologica. Inoltre, con decreto legge 27 gennaio 2022 n. 4, convertito con modificazioni dalla legge 28 marzo 2022 n. 25, è stato assegnato ad AGENAS il ruolo di Agenzia nazionale per la sanità digitale, con l’obiettivo di assicurare il potenziamento della digitalizzazione dei servizi e dei processi in sanità.

[97] L'Agenzia per la Valutazione Civica si occupa di monitorare e valutare i servizi pubblici in Italia, in particolare quelli legati alla salute, all'istruzione, all'ambiente e alla trasparenza amministrativa, per misurare quanto rispondono ai bisogni dei cittadini in termini di qualità e garanzia dei diritti. Le valutazioni dell'Agenzia vengono quindi utilizzate per promuovere il miglioramento dei servizi pubblici e per sollecitare le Istituzioni a fornire risposte concrete alle esigenze dei cittadini. L'obiettivo dell'Agenzia è promuovere la partecipazione attiva dei cittadini alla vita pubblica, attraverso la produzione di dati “civici” e la diffusione di informazioni trasparenti e accessibili. Per fare ciò, l’Agenzia ha messo a punto una metodologia denominata AUDIT CIVICO® che si avvale di esperti e di volontari che collaborano per costruire indicatori civici e raccogliere informazioni sul territorio, coinvolgendo anche le associazioni locali e le comunità. Inoltre, l'Agenzia promuove la partecipazione attiva dei cittadini attraverso la formazione e la sensibilizzazione sui temi della partecipazione civica e della trasparenza amministrativa.

 

[98] Charon, R. «Narrative Medicine, a Model for Empathy Reflection, Profession, and Trust», in Journal of American Medical Association, 2001, n° 286, pp. 1897-1902.

[99] Atti del Convegno: La valutazione della qualità delle strutture ospedaliere secondo la prospettiva del cittadino Il grado di umanizzazione delle strutture di ricovero. AGENAS, Roma 7 Novembre 2014

[100] World Health Organization, Declaration of Alma-Ata. International Conference on Primary Health Care, Alma-Ata, USSR, 6-12 September 1978.

[101] I libri bianchi della Commissione europea sono documenti contenenti proposte per l’azione dell’Unione europea (Unione) in un settore specifico. In alcuni casi, fanno seguito a libri verdi pubblicati allo scopo di avviare un processo di consultazione a livello europeo. Lo scopo di un libro bianco è l’avvio di una discussione con il pubblico, le parti interessate, il Parlamento europeo e il Consiglio al fine di approdare a un consenso politico.

[102] Commissione delle Comunità Europee, Libro Bianco, Un impegno comune per la salute, Approccio strategico dell’UE per il periodo 2008-2013, Bruxelles, 23.10.2007, COM (2007) 630 definitivo.

[103] Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, Libro bianco sul Futuro del modello sociale, La vita buona nella società attiva, Maggio 2009.

[104] Drusini, A. G., 1991, Antropologia del dolore: un’analisi Bio-culturale , AA.VV. La valutazione nella formazione del medico, Pedagogia medica, 5 (numero monografico).

[105] Come definito dall'art.  2, co.  1, lett.  c), nell'ambito dei livelli essenziali di assistenza di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 29 novembre 2001, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 33 dell'8 febbraio 2002

[106] La tutela della salute come diritto fondamentale dell'individuo ed interesse della collettività è garantita, nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana, attraverso il Servizio sanitario nazionale, quale complesso delle funzioni e delle attività assistenziali dei Servizi sanitari regionali e delle altre funzioni e attività svolte dagli enti ed istituzioni di rilievo nazionale, nell'ambito dei conferimenti previsti dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, nonché delle funzioni conservate allo Stato dal medesimo decreto.

[107] V. § 1.

[108] V. R. Potter,1971, Bioethics: Bridge to the Future, Prentice-Hall Englevood, Cliff, pp.95-103

 

[109] I.Illich, 2004,Nemesi medica. L'espropriazione della salute , Mondadori Bruno ed., Milano, 331 p.

 

[110] H. Doucet, 1996, Au pays de la bioetique, l'étique biomédicale aux Etats-Unis, Genève, Ed. Labor et Fides, pp. 40-45.

[111] Cfr. la sentenza del Trib. Milano, 14.5.1998, in NGCC, 2000, I, 92 ss da cui prende spunto per le sue acute considerazioni ZATTI, Il diritto a scegliere la propria salute (in margine al caso S. Raffaele), ivi, II, 1 ss., nella quale era stata recepita l’impostazione data alla questione dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 471 del 22 ottobre 1990. Numerosi sono stati gli interventi giurisprudenziali nei quali è stato affrontato il tema della qualificazione della relazione di cura tra medico e paziente; da ultimo non può non essere menzionata la decisione del Cons. Stato, 2.9.2014, n. 4460 che, per la rilevanza e per la completezza che ad essa è stata unanimemente riconosciuta, si trova commentata da molti in NGCC, 2015, I, 20 ss.

[112] La dottrina e la giurisprudenza in materia sono ormai sconfinate. Da ultimo, in argomento, tra i tanti, cfr. ZATTI, “Parole tra noi così diverse”. Per una ecologia del rapporto terapeutico, in NGCC, 2012, II, 143 ss.; FERRANDO, Diritto alla salute e autodeterminazione tra diritto europeo e Costituzione, in PD, 2012, 3 ss.; FRANZONI, Dal consenso all’esercizio dell’attività medica all’autodeterminazione, in RC, 2012, 85 ss., ove riferimenti alla giurisprudenza più significativa e recente in argomento; BALESTRA, L’autodeterminazione nel “fine vita”, in RTDPC, 2011, 1009 ss.; PELLEGRINO, Consenso informato e distorsioni cognitive, in RCDP, 2012, 637 ss.; MONTANI, Violazione del consenso informato e nesso di causalità, in DR, 2012, 627 ss.; DI CRISTO, Il difetto di consenso al trattamento medico-sanitario, in FPS, 2012, 275 ss.; PUCELLA, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010; MARINI, Il consenso, in Tratt. di Biodiritto, diretto da RODOTÀ-ZATTI, Ambito e fonti del biodiritto, Milano, 2010, 361 ss.; FACCI, Il rifiuto del trattamento sanitario: validità e limiti, in CI, 2006, 1671 ss.; CACACE, Il consenso informato del paziente al trattamento sanitario, in DR, 2007, 283 ss

[113] Raccomandazione n. 1418 del 25 giugno 1999, intitolata Protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dei malati incurabili e dei morienti.

[114] cfr. Cass., 10.9.1999, n. 9617, ivi, 2000, 730 ss., con nota di NATOLI, Consenso informato e obbligazioni di risultato tra esigenze di compensation ed esigenze di deterrence; Cass., 15.1.1997, n. 364, in FI, 1997, I, c. 771 con nota di PALMIERI, Relazione medico-paziente tra consenso “globale” e responsabilità del professionista; Cass., 25.11.1994, n. 10014, in NGCC, 1995, I, 937 ss., con nota di FERRANDO, Chirurgia estetica, “consenso informato” del paziente e responsabilità del medico. V. anche PARADISO, Il dovere del medico di informare il paziente. Consenso contrattuale e diritti della persona, in AA. VV., La responsabilità medica, Milano, 1982, 144 ss., nonché ID., Il danno alla persona, Milano, 1981.

[115] Trib. Milano, 29.3.2005, in RCP, 2005, 751 ss., con nota di GENNARI, Consenso (dis)informato: quale il danno da risarcire? Trib. Reggio Emilia, 20.7.2004, in RC, 2005, 904 ss., con nota di PRIMICERI, La responsabilità medica per omessa informazione.

[116] Cass., 6.10.1997, n. 9705, in RCP, 1998, 667 ss., con nota di CITARELLA, Obblighi di informazione e responsabilità del chirurgo plastico.

[117] Corte cost., sentt. nn. 247/1974, 88/1979, 356/1991, 107/2012.

[118] Cfr. sul punto sent. n. 167/1999, con riferimento al diritto della persona handicappata di potere accedere dal proprio condominio alla pubblica via mediante strutture architettoniche adeguate

[119] Ovviamente il risarcimento presuppone una lesione del bene salute di una persona che resta in vita con menomazioni invalidanti, e non si estende alla lesione dell’integrità fisica con esito letale (Cfr. Corte cost. sent. n. 372/1994).

[120] Cfr. ad es. Corte cost. sent. n. 202/1981.

[121] Diverse sentenze di merito hanno, infatti, optato per la responsabilità extracontrattuale del medico ex art. 2043 c.c. (tra le altre, Trib. Varese, 26.11.2012, n. 1406; Trib. Torino, 26.2.2013; Trib. Milano, 17.7.2014, n. 9693); altre, al contrario, ne hanno affermato la natura contrattuale (Trib. Arezzo, 14.2.2013; Trib. Cremona, 1.10.2013; Trib. Rovereto, 29.12.2013; Trib. Milano nn. 13574 e 1430 del 2014).

Più concorde la giurisprudenza della Cassazione che, nonostante l’intervento della legge n. 189 del 2012, ha continuato a qualificare come contrattuale (cd. “da contatto sociale”) la responsabilità del sanitario ritenendola, peraltro, riconducibile ad una obbligazione solidale con quella della struttura, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1218 e 1228 c.c., a prescindere dalla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato o comunque di collaborazione tra ospedale-clinica e sanitario (tra le altre, Cass., 13.1.2015, n. 280 e 31.3.2015, n. 6436)

[122] Tra le altre, cfr. Cass., sez. un., 11.1.2008, n. 577

[123] Per una puntuale esposizione del “diritto vivente” che si è affermato al riguardo, merita di essere richiamata la decisione del Trib. Caltanissetta, 1.7.2013, annotata da SCOGNAMIGLIO, La natura della responsabilità del medico inserito in una struttura ospedaliera nel vigore della l. n. 189/2012, in RCP, 2013, 1988 ss

[124] Non è possibile in questa sede rendere conto di tutta l’elaborazione teorica che è stata fatta intorno alla figura del “contatto sociale”; da ultimo, in dottrina, v. per tutti, CASTRONOVO, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015, soprattutto 128 ss. In giurisprudenza la locuzione “contatto sociale” è apparsa per la prima volta in una sentenza del 1999 (Cass., 22.1.1999, n. 589, in DR, 1999, 299 ss. con nota di CARBONE, La responsabilità del medico ospedaliero come responsabilità da contatto). É stata questa la prima occasione in cui la Cassazione, richiamandosi alla dottrina ed alla giurisprudenza tedesche – sulla base della previsione di cui all’art. 1173 c.c., che, com’è noto, contempla, tra le fonti delle obbligazioni, oltre al contratto ed al fatto illecito, qualsiasi altro atto o fatto idoneo a produrle – ha riconosciuto che è possibile rinvenire fattispecie di responsabilità contrattuale anche in assenza di contratto; le quali, pur non essendo il fatto generatore di esse un contratto, tuttavia, si atteggiano come vere e proprie obbligazioni sottoponendosi, in tal modo, alla loro disciplina (in tal senso, di recente, Cass., 20.12.2011, n. 27648, la quale, trattando della natura della responsabilità pre-contrattuale della P.A., è stata oggetto di numerosi commenti, tra i quali si segnalano: CASTRONOVO, La Cassazione supera se stessa e rivede la responsabilità precontrattuale, in EuropaDP, 2012, 1233 ss.; SCOGNAMIGLIO, Tutela dell’affidamento, violazione dell’obbligo di buona fede e natura della responsabilità pre-contrattuale, in RCP, 2012, 1944 ss.). Da ultimo, in senso fortemente critico verso il concetto di contatto sociale, v. ZACCARIA, Der aufhaltsame aufstieg des sozialen kontakts (La resistibile ascesa del «contatto sociale»), in RDC, 2013, I, 77 ss.

[125] Per una disamina critica di tale ricostruzione e delle posizioni assunte dalla giurisprudenza «… in cui appare prevalere una certa confusione di idee …», v. ZACCARIA, op. ult. cit., 93 ss..

[126] Si vedano, tra i molti, ZENO-ZENCOVICH, Una commedia degli errori? La responsabilità medica fra illecito e inadempimento in RDC, 2008, I, vol. II, 297 ss.; OCCORSIO, Cartella clinica e responsabilità medica, Milano, 2011; ALEO, DE MATTEIS, VECCHIO (a cura di), Le responsabilità in ambito sanitario, Padova, 2014.

[127] Sulla norma citata, con ordinanza del 21.3.2013, il Tribunale di Milano ha sollevato una questione di illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3, 24, 25,27, 28, 32, 33, 111 Cost.. La Corte Costituzionale (ord. n. 295 del 6 dicembre 2013, reperibile in www.giurcost.org) ha dichiarato, però, la questione manifestamente inammissibile.

[128] Per una rassegna di pronunce, sul tema, si veda: Trib. Milano, 17.7.2014, in PeM, 3, 2014 con nota di GORGONI; Cass., 19.2.2013, n. 4030; Trib. Arezzo, 14.2.2013; Trib. Milano, 21.3.2013; Trib. Torino, 26.2.2013; Trib. Varese, 26.11.2012, n. 1406, tutte pubblicate in DR, 2013, I, 367 ss. con commento di CARBONE, La responsabilità del medico pubblico dopo la legge Balduzzi. Molte posizioni dottrinali sono riportate e brevemente analizzate da QUERCI, Le evoluzioni della responsabilità sanitaria, fra riforma Balduzzi, disegni di legge e novità giurisprudenziali, in NGCC, 2014, II, 15 ss. Si vedano poi: BUSNELLI, La dottrina delle Corti e il risarcimento del danno alla persona, in DR, 2014, II, 473 ss.; VETTORI, La responsabilità medica e il danno non patrimoniale fra legge e giudice. Un invito al dialogo, in PeM, 2013, 356; BREDA, Responsabilità medica tra regole giurisprudenziali e recenti interventi normativi, in Ce., 2014, 3, 786; SCOGNAMIGLIO, La natura della responsabilità del medico inserito in una struttura ospedaliera nel vigore della l. n. 189/2012, in RCP, 2013, 1988 ss. (nota a Trib. Caltanissetta, 1.7.2013, ivi, 1980 ss.); Trib. Cremona, 19.9.2013, in NGCC., 2014, I, 452 ss. con nota di QUERCI, La riforma Balduzzi alla prova della giurisprudenza: il punto di vista del Tribunale di Cremona; Trib. Firenze, 12.2.2014, in RIML, 2014, 737 ss. con nota di GARIBOTTI, Un nuovo fronte di battaglia per gli studiosi della responsabilità civile: l’interpretazione della legge Balduzzi; Trib. Enna, 18.5.2013, n. 252, in DR, 2014, 74 ss. con commento di ZORZIT, La responsabilità del medico alla luce del “Decreto Balduzzi”: un viaggio tra nuovi e vecchi scenari; GATTARI, Profili civilistici della legge Balduzzi: il senso del richiamo all’art. 2043 c.c., in RCP, 2014, 1039 ss.; PARTISANI, La nuova responsabilità sanitaria, dopo il decreto Balduzzi, ivi, 2013, 350 ss.; BREDA, La responsabilità civile dell’esercente la professione sanitaria alla luce della c.d. legge Balduzzi: ipotesi ricostruttive a confronto, in RIML, 2013, 751 ss.; CASTRONOVO, Eclissi del diritto civile, cit., 159 ss.

[129] Cass., 19.2.2013, n. 4030 cit., 367; Cass., 17.4.2014, n. 8940, reperibile online su Cassazione civile ove si legge testualmente che la norma “quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c., poiché in lege aquilia et levissima culpa venit, vuole solo significare che il legislatore si è soltanto preoccupato di escludere l’irrilevanza della colpa lieve in ambito di responsabilità extracontrattuale, ma non ha inteso certamente prendere alcuna posizione sulla qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità di quella natura”.

[130] Da ultimo, ex multis, Cass., 31.3.2016, n. 6209; Cass., 8.11.2016 n. 22639; Cass., 10.1.2017, n. 243.

[131] Trib. Arezzo, 14.2.2013, cit. In senso conforme, Trib. Caltanissetta, 1.7.2013, in RCP, 2013, 1980 ss., con nota di SCOGNAMIGLIO, cit.; Trib. Cremona, 19.9.2013, cit.; Trib. Firenze, 12.2.2014, cit

[132] Trib. Torino, 26.2.2013.

[133] Trib. Varese, 26.11.2012, n. 1406,

[134] Secondo il Tribunale di Varese, questa interpretazione sarebbe coerente con la finalità perseguita dal legislatore che, tra le finalità della disciplina speciale, ha tenuto in considerazione anche il contrasto alla c.d. medicina difensiva, “in quanto viene alleggerito l’onere probatorio del medico e viene fatto gravare sul paziente anche l’onere (non richiesto dall’art. 1218 c.c.) di offrire dimostrazione giudiziale dell’elemento soggettivo di imputazione di responsabilità”. Conclusioni simili anche per Trib. Enna, 18.5.2013, n. 252, cit., che riprende, in parte qua, le motivazioni del Trib. di Varese.

[135] Trib. Milano, 17.7.2014.

[136] Tra i passaggi più rilevanti della decisione citata si legge: «Nell’art.3 comma 1 della legge Balduzzi il Parlamento Italiano (…) ha voluto indubbiamente limitare la responsabilità degli esercenti una professione sanitaria ed alleggerire la loro posizione processuale anche attraverso il richiamo all’art. 2043 c.c. – escludendo la responsabilità penale nei casi di colpa lieve riconducibili al primo periodo, ma facendo salva anche in tali casi la responsabilità civile (da inadempimento nei casi in cui preesiste un contratto concluso dal medico con il paziente e da fatto illecito negli altri casi, come si dirà meglio in seguito) – mentre nel comma 3 del medesimo articolo ha poi introdotto un criterio limitativo dell’entità del danno biologico risarcibile in tali casi al danneggiato (mediante il richiamo agli artt. 138 e 139 cod. ass.). Così interpretato, l’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi porta dunque inevitabilmente a dover rivedere l’orientamento giurisprudenziale pressoché unanime dal 1999 che riconduce in ogni caso la responsabilità del medico all’art. 1218 c.c., anche in mancanza di un contratto concluso dal professionista con il paziente. In considerazione sia del diverso regime giuridico (art. 1218 c.c.) applicabile alla responsabilità della struttura presso cui il medico opera, sia della prevedibile maggiore solvibilità della stessa, il danneggiato sarà infatti ragionevolmente portato a rivolgere in primo luogo la pretesa risarcitoria nei confronti della struttura sanitaria. Ricondurre in tali casi la responsabilità del medico nell’alveo della responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c. dovrebbe altresì favorire la cd alleanza terapeutica fra medico e paziente, senza che (più o meno inconsciamente) venga inquinata da un sottinteso e strisciante “obbligo di risultato” al quale il medico non è normativamente tenuto (ma che, di fatto, la responsabilità ex art. 1218 c.c. da “contatto sociale” finisce a volte per attribuirgli, ponendo a suo carico l’obbligazione di risarcire il danno qualora non sia in grado di provare di avere ben adempiuto e che il danno derivi da una causa a lui non imputabile) e che è spesso alla base di scelte terapeutiche “difensive”, pregiudizievoli per la collettività e talvolta anche per le stesse possibilità di guarigione del malato».

[137] Si tratta della Proposta di legge N. 259-262-1312-1324- 1581-1769-1902-2155-B, trasmessa al Senato il 12 gennaio 2017 e definitivamente approvata alla Camera il 28 febbraio 2017: ora l. 8 marzo 2017, n. 24.

[138] La sent. n. 226/2000 ammette che il legislatore abbia la possibilità ai sensi degli artt. 2 e 38 della Costituzione di riconoscere, come conseguenza di eventuali danni connessi a trattamenti sanitari obbligatori, anche il diritto a misure di sostegno assistenziale. Sul punto, da ultimo, cfr. sent. n. 293/2011.

[139] All’art. 7 del testo definitivamente approvato alla Camera il 28 febbraio 2017, rubricato Responsabilità civile della struttura e dell’esercente la professione sanitaria, è espressamente previsto che: «1. La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose. 2. La disposizione di cui al comma 1 si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell’ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina. 3. L’esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell’esercente la professione sanitaria ai sensi dell’articolo 5 della presente legge e dell’articolo 590-sexies del codice penale, introdotto dall’articolo 6 della presente legge. 4. Il danno conseguente all’attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell’esercente la professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, integrate, ove necessario, con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti alle attività di cui al presente articolo. 5. Le disposizioni del presente articolo costituiscono norme imperative ai sensi del codice civile».

[140] A partire dalla storica sentenza della Corte di Cassazione n. 5172/1979, cfr., tra le decisioni della Corte costituzionale che hanno fatto da apripista in materia, sentt. nn. 210 e 641 del 1987, nonché da ultimo sent. n. 83/2013 sul “caso Ilva”.

[141] 8 Cfr. Montuschi 1976, passim; e, ad esempio, Corte cost. sent. 559/1987 in materia di congedi straordinari per cure idrotermali.

 

 



















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