Secondo l'insegnamento della Suprema Corte, tale norma, come novellata dall'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012 (conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012), " non esige lo svolgimento di un "progetto alternativo di sentenza", né una determinata forma, né la trascrizione integrale o parziale della sentenza appellata, ma impone all'appellante di individuare, in modo chiaro ed inequivoco, il "quantum appellatum", formulando, rispetto alle argomentazioni adottate dal primo giudice, pertinenti ragioni di dissenso che consistono, in caso di censure riguardanti la ricostruzione dei fatti, nell'indicazione delle prove che si assumono trascurate o malamente valutate ovvero, per le doglianze afferenti questioni di diritto, nella specificazione della norma applicabile o dell'interpretazione preferibile, nonché, in relazione a denunciati "errores in procedendo", nella precisazione del fatto processuale e della diversa scelta che si sarebbe dovuta compiere (in questo senso si veda l'ordinanza della Cass. Civ., sez. III, n. 10916 del 5/5/17).
Con riferimento alle modifiche concretamente apportate al processo di appello va ricordato anzitutto che la vecchia formulazione dell'art. 342 del codice di rito prevedeva che l'appello dovesse contenere "l'esposizione sommaria dei fatti ed i motivi specifici dell'impugnazione nonché le indicazioni prescritte nell'articolo 163"; analogo poi era il contenuto dell'art. 434 c.p.c. (riguardante l'appello nel processo del lavoro) che effettuava un richiamo all'art. 414 c.p.c., che come è noto disciplina il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado nel rito del lavoro.
Tali norme, nella loro originaria formulazione, non prevedevano conseguenze nella ipotesi di assenza di specificità dei motivi di gravame.
La giurisprudenza di legittimità, però, ha ritenuto che il requisito della specificità dei motivi dell'appello postulasse che alle argomentazioni della sentenza impugnata venissero contrapposte quelle dell'appellante, finalizzate ad inficiare il fondamento logico-giuridico delle prime, in quanto le statuizioni di una sentenza non sono scindibili dalle argomentazioni che la sorreggono.
È pertanto necessario che l'atto di appello contenga tutte le argomentazioni volte a confutare le ragioni poste dal primo giudice a fondamento della propria decisione, pena la inammissibilità dell'impugnazione stessa.
La nuova versione degli articoli 342 (e 434) del codice di rito, dopo avere confermato la necessità della specificità dei motivi di gravame, aggiunge che l'appello deve contenere a pena di inammissibilità:
1) l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado;
2) l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata
Nel solco tracciato dalle Sezioni Unite n. 27199/20172017 si inserisce un'altra importante pronuncia: l'ordinanza della Cassazione n. 13535/2018[1] in cui gli Ermellini, a proposito della portata del 342 c.p.c., dettano chiare indicazioni per il difensore chiamato a redigere l'atto introduttivo del giudizio di appello. Secondo le precisazioni fornite nella decisione a) non si deve esigere dall'appellante alcun "progetto alternativo di sentenza"; b) non si deve esigere dall'appellante alcun vacuo formalismo fine a sé stesso; c) non si deve esigere dall'appellante alcuna trascrizione integrale o parziale della sentenza appellata o di parti di essa.
La Cassazione giunge a tali conclusioni sulla base di un presupposto fondante il processo civile, ovvero l'assunto che il processo civile è caratterizzato da un "assetto teleologico" di cui è traccia evidente nell'art. 156, comma terzo, c.p.c., secondo il quale la nullità d'un atto processuale non può mai essere pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato: il fatto stesso che la controparte abbia sviluppato in modo dettagliato le proprie difese è prova certa del rispetto del su richiamato assunto.
Da questo principio discende che, anche quando si debba giudicare dell'ammissibilità di una impugnazione, il giudicante deve badare non al rispetto di clausole astratte o formule di stile, ma alla sostanza ed al contenuto effettivo dell'atto.
Le norme processuali, se ambigue, vanno interpretate in modo da favorire una decisione sul merito, piuttosto che esiti abortivi del processo: le regole processuali infatti costituiscono solo lo strumento per garantire la giustizia della decisione, non il fine stesso del processo (Cass. Civ. Sez. Unite 12 dicembre 2014 n. 26242); di conseguenza, tra più ragioni di rigetto della domanda, il giudice dovrebbe optare per quella che assicura il risultato più stabile: sicché tra un rigetto per motivi di rito e uno per ragioni afferenti al merito, il giudice dovrebbe scegliere il secondo.
Assume valore decisivo che la prospettiva della Corte deve essere orientata verso le norme sovranazionali ed i principi imposti dall'appartenenza all'Unione Europea, tra i quali quello della effettività della tutela giurisdizionale, proclamato dall'art. 6 CEDU ed applicabile negli ordinamenti degli stati membri in forza del richiamo contenuto nell'art. 6, comma 3 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea.
Non può essere disatteso che la Corte di Strasburgo (CEDU) ha ripetutamente affermato che il principio di effettività della tutela giurisdizionale va inteso quale esigenza che alla domanda di giustizia dei consociati debba, per quanto possibile, essere esaminata sempre e preferibilmente nel merito[2].
Ciò vuol dire che gli organi giudiziari degli Stati membri, nell'interpretazione della legge processuale, "devono evitare gli eccessi di formalismo, segnatamente in punto di ammissibilità o ricevibilità dei ricorsi, consentendo per quanto possibile, la concreta esplicazione di quel diritto di accesso ad un tribunale previsto e garantito dall'art. 6 della CEDU del 1950"(in tal senso: S.U. della Cassazione 16.11.2017 n.27199 e della successiva giurisprudenza di legittimità e di merito citandosi, da ultimo ed ex pluribus, Cass.27.06.2018 n. 16914, Cass. 23.11.2018 30450, Corte di Appello Firenze 18.09.2018 n. 2093, Corte di Appello Milano 22.10.2018 4556, Corte di Appello Roma 16.11.2018 n. 7225, Corte di Appello Bari 05.02.2019 n. 125, Corte di Appello Catanzaro 20.02.2019 n.355).
In particolare, le S.U. della Cassazione 16.11.2017 n.27199, ci forniscono due fondamentali insegnamenti: è una regola generale quella per cui le norme processuali devono essere interpretate in modo da favorire, per quanto possibile, che si pervenga ad una decisione di merito, mentre gli esiti abortivi del processo costituiscono un'ipotesi residuale[3]; le limitazioni all'accesso ad un giudice sono consentite solo in quanto espressamente previste dalla legge ed in presenza di un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito.
L'appello è dunque «una revisio prioris instantiae; e i giudici di secondo grado sono chiamati in tale sede ad esercitare tutti i poteri tipici di un giudizio di merito, se del caso svolgendo la necessaria attività istruttoria, senza trasformare l'appello in una sorta di anticipato ricorso per cassazione».[4]
Le indicazioni fornite dalla dottrina e dalla giurisprudenza che consentono il superamento della c.d. soglia di ammissibilità dell'atto di appello, in conclusione possono così compendiarsi.
1) Il nuovo testo dell'art. 342 c.p.c., licenziato sulla base della recente riforma del 2012, esige che le questioni ed i punti della sentenza impugnata siano chiaramente enucleati e con essi le relative doglianze. Ragion per cui, laddove il pactum dolens della pronuncia si rinvenga nella ricostruzione del fatto, esso deve essere indicato con la necessaria chiarezza, così come l'eventuale violazione di legge[5].
2) Nell'atto di appello deve affiancarsi alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti le ragioni addotte dal primo Giudice. La maggiore o minore ampiezza e specificità delle doglianze ivi contenute sarà pertanto diretta conseguenza della motivazione assunta dalla decisione di 1° grado.
3) L'atto di appello potrà anche consistere, con i dovuti adattamenti, in una ripresa delle linee difensive di primo grado, laddove le argomentazioni della sentenza impugnata dimostrino che la tesi della parte non era stata effettivamente vagliata. È logico che la puntualità del Giudice di primo grado, nel confutare determinate argomentazioni, richiederà una più specifica e rigorosa formulazione dell'atto di appello, che dimostri insomma di aver compreso quanto esposto dal Giudice di primo grado offrendo spunti per una decisione diversa.
4) Purtuttavia, l'individuazione di un "percorso logico alternativo a quello del primo Giudice", non dovrà necessariamente tradursi in un "progetto alternativo di sentenza"; il richiamo, contenuto nei citati artt. 342 (e 434), CPC alla motivazione dell'atto di appello non implica che il legislatore abbia inteso porre a carico delle parti un onere paragonabile a quello del Giudice nella stesura della motivazione di un provvedimento decisorio[6]. Quello che viene richiesto - in nome del criterio della razionalizzazione del processo civile, che è in funzione del rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata - è che la parte appellante ponga il Giudice superiore in condizione di comprendere con chiarezza qual è il contenuto della censura proposta, dimostrando di aver compreso le ragioni del primo Giudice ed indicando il perché queste siano censurabili[7].
5) Tutto ciò, inoltre, senza che all'appellante sia richiesto il rispetto di particolari forme sacramentali o comunque vincolate. Ed invero la riforma del 2012 non ha trasformato l'appello in un mezzo di impugnazione a critica vincolata. L'appello è rimasto una revisio prioris instantiae; ed i Giudici di secondo grado sono chiamati in tale sede ad esercitare tutti i poteri tipici di un giudizio di merito, se del caso svolgendo la necessaria attività istruttoria, senza trasformare l'appello in una sorta di anticipato ricorso per Cassazione.
Come ha avuto modo di ribadire in modo oltremodo chiaro il T. Catania, 19-04-2019[8], tra i principî sanciti dalla Cedu vi è quello alla effettività della tutela giurisdizionale, sancito dall'art. 6 Cedu; nell'interpretare tale norma, la corte di Strasburgo (Cedu) ha ripetutamente affermato che il principio di effettività della tutela giurisdizionale va inteso quale esigenza che alla domanda di giustizia dei consociati debba, per quanto possibile, essere esaminata sempre e preferibilmente nel merito; ciò vuol dire che gli organi giudiziari degli stati membri, nell'interpretazione della legge processuale, «devono evitare gli eccessi di formalismo, segnatamente in punto di ammissibilità o ricevibilità dei ricorsi, consentendo per quanto possibile, la concreta esplicazione di quel diritto di accesso ad un tribunale previsto e garantito dall'art. 6 della Cedu del 1950»[9].
È proprio alla luce dei citati principî che si deve interpretare l'art. 342 c.p.c., norma che esige dall'appellante la chiara ed inequivoca indicazione delle censure che intende muovere alla sentenza appellata, tanto in punto di ricostruzione dei fatti, quanto in punto di diritto; gli argomenti che intende contrapporre a quelli adottati dal giudice di primo grado a sostegno della decisione.
Non è peraltro insolito che la Corte, qualora l'impugnazione investa una pronuncia in rito, non si pronunci nel merito ; in tal caso, l'appellante può limitarsi nel gravame, a denunciare l'erroneità della decisione ed a richiamare l'atto introduttivo del primo grado, senza bisogno di riprodurne le ragioni di merito, di cui il giudice del gravame può prendere conoscenza visionando l'atto nel fascicolo dell'appellante ovvero in quello d'ufficio di primo grado, atteso che dall'accoglimento dell'impugnazione discende l'integrale devoluzione al giudice dell'appello del compito di decidere tutte le questioni dedotte nel giudizio di primo grado (v. Cass. n. 5031 del 08 marzo 2005; Cass. n. 6481 del 17 marzo 2010; Cass. n. 22954 del 04 novembre 2011).
L'impugnazione con cui l'appellante deduca esclusivamente vizi di rito avverso una pronuncia che abbia deciso in senso a lui sfavorevole anche nel merito è ammissibile solo qualora i vizi in parola comportino, se fondati, la rimessione al primo giudice ex art. 353 e 354 c.p.c.; al di fuori di tali casi, l'appellante, a pena di inammissibilità del gravame, per carenza di interesse nonché per difformità rispetto al modello legale di impugnazione, è tenuto a dedurre, contestualmente a quelle di rito, anche le questioni di merito[10] (Cass. civ. [ord.], sez. VI, 10-01-2019, n. 402).
Deve comunque ritenersi ammissibile l'impugnazione con cui l'appellante deduca esclusivamente vizi di rito avverso una pronuncia che abbia deciso in senso a lui sfavorevole anche nel merito solo qualora detti vizi comportino, se fondati, la rimessione al primo giudice ai sensi degli art. 353 e 354 c.p.c., mentre, in caso contrario, è necessario che l'appellante deduca ritualmente anche le questioni di merito, sicché, in tali ipotesi, l'appello proposto esclusivamente in rito è inammissibile, oltre che per un difetto di interesse, anche per non rispondenza al modello legale di impugnazione(Cass. civ., sez. III, 20-08-2018, n. 20799).
La Cass. civ. [ord.], 04-01-2019, n. 97 ha chiarito che in relazione al previgente testo di cui all'art. 342 c.p.c., si è affermato che, in tema di giudizio d'appello che non è un "iudicium novum", ma una "revisio prioris instantiae" - il requisito della specificità dei motivi dettato dall'art. 342 c.p.c., (nel testo, applicabile "ratione temporis", anteriore alle modifiche apportategli dall'art. 54, comma 1, lett. a), D.L. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012 esige che, alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, vengano contrapposte quelle dell'appellante, volte ad incrinarne il fondamenta logico giuridico, ciò risolvendosi in una valutazione del fatto processuale che impone una verifica in concreto, ispirata ad un principio di simmetria e condotta alla luce del raffronto tra la motivazione del provvedimento appellato e la formulazione dell'atto di gravame, nel senso che quanto più approfondite e dettagliate risultino le argomentazioni del primo, tanto più puntuali devono profilarsi quelle utilizzate nel secondo per confutare l'impianto motivazionale del giudice di prime cure[11].
Si ricorda all'uopo che l'appello, nei limiti dei motivi di impugnazione, è un giudizio sul rapporto controverso, e non sulla correttezza della sentenza impugnata.
Di conseguenza, rispetto all'atto di appello, non è concepibile alcun requisito di autosufficienza, ma solo di specificità, e che pertanto l'appellante che intenda dolersi del rigetto in primo grado delle sue istanze istruttorie non ha l'onere di trascriverle nell'atto di appello (Cass. civ. [ord.], sez. III, 24-04-2019, n. 11197).
La specificità dei motivi di appello presuppone la specificità della motivazione della sentenza impugnata, sicché ove manchi quest'ultima, dall'appellante non è esigibile altro onere che riproporre l'istanza o la domanda immotivatamente rigettata.
Per non incorrere nella censura di inammissibilità, il ricorrente deve trascrivere i motivi formulati nell'atto di gravame o almeno riportare con precisione le argomentazioni della parte motiva della sentenza di primo grado il cui contenuto costituisce l'imprescindibile termine di riferimento per la verifica in concreto del rispetto del paradigma di cui agli artt. 342 e 434 c.p.c..
È costante giurisprudenza che, al fine della valida impugnazione di un capo di sentenza, non è sufficiente che nell'atto d'appello sia manifestata una volontà in tal senso, ma è necessario che sia contenuta una parte argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, con espressa e motivata censura, miri ad incrinarne il fondamento logico-giuridico (Cass. 15 giugno 2016 n. 12280; Cass. 22 settembre 2015 n. 18704; Cass. Sez. Un. 09 novembre 2011 n. 23299).[12]
Inoltre come ha precisato e chiarito la Cassazione civile, sez. VI, 19 Agosto 2020, n. 17268,
Quando col ricorso per cassazione venga denunciata la violazione dell'art. 342 c.p.c. (nel testo vigente "ratione temporis", anteriore alle modifiche apportate dal d.l. n. 83 del 2012, conv. nella l. n. 134 del 2012) in ordine alla specificità dei motivi di appello, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all'esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda, potendo ritenere assolto l'onere di specificazione dei motivi d'appello quando il rinvio al contenuto della comparsa conclusionale di primo grado (operato dall'appellante) non abbia costituito un mero richiamo "per relationem", ma si sia coniugato con l'espressa censura delle argomentazioni poste a fondamento dell'impugnata sentenza.
NOTE
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[1] Cass. civ., ordinanza 30 maggio 2018, n. 13535, in Foro it. 2018, 7-8, I, 2334 NOTA (s.m.) (nota di: Brunialti).
[2] In tema di protezione internazionale sussidiaria, di cui all'art. 14, lett. c), d.lg. n. 251 del 2007, ove il richiedente invochi l'esistenza di uno stato di diffusa e indiscriminata violenza nel paese d'origine tale da attingerlo qualora debba farvi rientro, e quindi senza necessità di deduzione di un rischio individualizzato, l'attenuazione del principio dispositivo, cui si correla l'attivazione dei poteri officiosi integrativi del giudice del merito, opera esclusivamente sul versante della prova, non su quello dell'allegazione; ne consegue che il ricorso per cassazione deve allegare il motivo che, coltivato in appello secondo il canone della specificità della critica difensiva ex art. 342 c.p.c., sia stato in tesi erroneamente disatteso, restando altrimenti precluso l'esercizio del controllo demandato alla suprema corte anche in ordine alla mancata attivazione dei detti poteri istruttori officiosi (nella specie, il ricorrente si era limitato, per sostenere l'esistenza nell'intera Nigeria di una situazione di violenza generalizzata, a richiamare le norme nazionali e convenzionali, i principi affermati nella materia dalla suprema corte ed una pluralità di fonti informative - sito Amnesty International, report Easo, note del ministero degli affari esteri - senza specificare la zona di provenienza né segnalare i contenuti delle allegazioni svolte in primo grado). Cass. civ. [ord.], sez. I, 17-05-2019, n. 13403.
[3] Peraltro, non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che esamini una questione non espressamente formulata ma da ritenersi tacitamente proposta per essere l'antecedente logico e giuridico di quelle espressamente dedotte. Cass. civ. [ord.], sez. III, 23-05-2019, n. 13964.
[4] Tale principio si rinviene anche nel processo di primo grado; Cass. civ. [ord.], sez. III, 26-09-2019, n. 23979. La mancanza nella citazione di tutti i requisiti indicati dall'art. 164, 1° comma, c.p.c. e, quindi, di tutti gli elementi integranti la vocatio in ius, non vale a sottrarla (anche se trattasi di citazione in appello) all'operatività dei meccanismi di sanatoria ex tunc previsti dal secondo e terzo comma della medesima disposizione; ne consegue che, quando la causa, una volta iscritta al ruolo, venga chiamata all'udienza di comparizione (che, per la mancata indicazione dell'udienza, dev'essere individuata ai sensi dell'art. 168 bis, 4° comma, c.p.c.), il giudice, anche in appello, ove il convenuto non si costituisca, deve ordinare la rinnovazione della citazione, ai sensi e con gli effetti dell'art. 164, 1° comma, c.p.c., mentre se si sia costituito deve applicare l'art. 164, 3° comma, c.p.c., salva la richiesta di concessione di termine per l'inosservanza del termine di comparizione (nella specie, la suprema corte ha statuito che la tempestiva notifica dell'atto di appello - erroneamente proposto con ricorso anziché con atto di citazione e privo del decreto di fissazione dell'udienza - impedisce la decadenza dall'impugnazione, in quanto la carenza può essere sanata dalla costituzione della controparte a cui sia stata successivamente, ancorché tardivamente, notificata altra copia del ricorso completa del decreto di fissazione dell'udienza, ferma restando la possibilità dell'appellato di richiedere il rinvio ad altra udienza nel rispetto dei termini di comparizione).
[5] Appare interessante la sentenza Cass. civ., sez. II, 28-01-2019, n. 2268 in tema di ricorsi contro i provvedimenti disciplinari adottati dagli ordini professionali, non si applica l'art. 342 c.p.c. sull'atto di appello, in ragione della natura amministrativa e non giurisdizionale che connota la fase del procedimento di competenza dei locali consigli dell'ordine. inoltre, in base ad una interpretazione coerente con gli art. 24 cost. e 6 Cedu, diretta ad assicurare alle parti in lite una statuizione sul merito della controversia piuttosto che una pronuncia di mero rito, non opera il principio di c.d. specificità del ricorso; tali ricorsi, infatti, introducono un giudizio che non è limitato alla verifica della legittimità del provvedimento, bensì è esteso anche al merito, con la conseguenza che nulla impedisce al competente consiglio nazionale di prendere in esame, nella sua interezza, la documentazione prodotta nel corso del procedimento (nella specie, la suprema corte ha cassato la decisione del consiglio nazionale degli architetti che aveva dichiarato inammissibile un ricorso, proposto avverso un provvedimento che aveva inflitto la sanzione dell'avvertimento, perché privo della parte in fatto prescritta dall'art. 2 d.m. 10 novembre 1948).
[6] Le impugnazioni incidentali possono essere proposte, in sede di gravame, con la comparsa di risposta tempestivamente depositata, purché risulti rispettato il termine ordinario di trenta giorni dalla notificazione della sentenza di primo grado, sicché, mentre l'inammissibilità dell'appello principale non priva di efficacia l'appello incidentale che sia stato proposto (oltre che tempestivamente ai sensi dell'art. 343 c.p.c. anche) nei termini per impugnare previsti dagli art. 325, 326 e 327 c.p.c., un'impugnazione incidentale avanzata quando tali termini siano scaduti non potrebbe mai essere ritenuta «tempestiva», anche se rispettosa del termine di cui all'art. 343 c.p.c. (in applicazione dell'enunciato principio la suprema corte ha confermato la decisione di secondo grado che aveva dichiarato inefficace l'appello incidentale tardivo a seguito della declaratoria di inammissibilità del ricorso principale perchè non sottoscritto da un avvocato legalmente esercente). Cass. civ. [ord.], sez. II, 22-08-2018, n. 20963.
[7] La sentenza del giudice di merito, la quale, dopo aver aderito ad una prima ragione di decisione, esamini ed accolga anche una seconda ragione, al fine di sostenere la decisione anche nel caso in cui la prima possa risultare erronea, non incorre nel vizio di contraddittorietà della motivazione, il quale sussiste nel diverso caso di contrasto di argomenti confluenti nella stessa ratio decidendi, né contiene, quanto alla causa petendi alternativa o subordinata, un mero obiter dictum, insuscettibile di trasformarsi nel giudicato; detta sentenza, invece, configura una pronuncia basata su due distinte rationes decidendi, ciascuna di per sé sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, con il conseguente onere del ricorrente di impugnarle entrambe, a pena di inammissibilità del ricorso. Cass. civ., sez. III, 18-04-2019, n. 10815.
[8] In modo difforme A. Milano, 31-07-2019: L'impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l'utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata.
[9] Sempre secondo il T. Catania, 19-04-2019, L'art. 342 c.p.c. esige che l'appello indichi: 1) le parti del provvedimento che si intende appellare; 2) le modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 3) l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge; 4) la rilevanza di tali circostanze ai fini della decisione impugnata; sul punto è a dirsi che anche il diritto processuale, come quello sostanziale, non può non essere interpretato alla luce delle regole sovranazionali imposte dal diritto comunitario; tra queste vi è l'art. 6, 3° comma, Tfue (c.d. trattato di Lisbona, ratificato e reso esecutivo con l. 2 agosto 2008 n. 130), il quale stabilisce che «i diritti fondamentali, garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (...) fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali»; per effetto di tale norma, dunque, i principî della Cedu sono stati «comunitarizzati», e sono divenuti «principî fondanti dell'Unione europea».
[10] Nell'ipotesi in cui il primo giudice abbia omesso di concedere alla parte il termine per l'articolazione di nuovi mezzi di prova ed il deposito di documenti (art. 183 e 184 c.p.c.), la parte stessa, nel proporre appello, non può limitarsi a chiedere nuovamente la concessione del suddetto termine ma, in forza del combinato disposto degli art. 342 e 163 c.p.c., deve, a pena di decadenza, articolare i nuovi mezzi di prova e depositare i documenti (nella specie, invece, la parte, nel giudizio d'appello s'è limitata a chiedere nuovamente la concessione del suddetto termine - istanza poi ribadita nel giudizio di rinvio a seguito di cassazione - omettendo l'articolazione di nuovi mezzi di prova ed il deposito di documenti). Cass. civ., sez. III, 28-06-2018, n. 17046.
[11] Sull'affermazione del giudizio di appello quale revisio prioris instantiae Cass. S.U. n. 28498/2005; cfr. da ultimo Cass. n. 4695/2017, nonché Cass. S.U. n. 27199/2017 che, sebbene in relazione alla novellata previsione di cui all'art. 342 c.p.c., ha ritenuto che debba imporsi un'interpretazione in linea di continuità con quanto opinato in precedenza, sicché i canoni applicativi della norma sono di fatto rimasti identici
[12] Diversamente, per Cass. civ. [ord.], sez. VI, 19-02-2019, n. 4893.
Nel giudizio di impugnazione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, limitatamente ai procedimenti in cui trova applicazione la riforma di cui al d.lg. n. 169 del 2007, che ha modificato l'art. 18 l.fall., ridenominando tale mezzo come «reclamo» in luogo del precedente «appello», non operano i limiti previsti, in tema di appello, dagli art. 342 e 345 c.p.c.; ne consegue che il debitore, benché non costituito innanzi al tribunale, può indicare in sede di reclamo i mezzi di prova di cui intende avvalersi, anche per la prima volta, al fine di dimostrare la sussistenza dei limiti dimensionali di cui all'art. 1, 2° comma, l.fall.