A un mediatore nel reparto ortofrutticolo viene negato l'accesso alla procedura di liquidazione non perché non sia titolare di alcun bene liquidabile (avendo perciò messo a disposizione della procedura soltanto i futuri crediti derivanti dall'attività professionale), ma perché lo stesso "non vuole svolgere la propria attività per un certo periodo ma vuole svolgere la propria attività per tutta la durata della liquidazione ed oltre, la vuole svolgere direttamente e senza controllo" e perché nella procedura di liquidazione "...il patrimonio viene tutto messo a disposizione dei creditori, senza promessa o proposta di alcuna percentuale di soddisfazione e senza che il debitore possa mantenere alcun controllo sulla propria attività economica. La liquidazione non ha alcuna funzione di tutelare la attività economica del debitore (...). Il salvataggio della impresa economica decotta (...) non rientra negli obiettivi della liquidazione. (...) La istanza va quindi dichiarata inammissibile in quanto non rientrante nel modello legale della liquidazione del patrimonio.".
Quest'ultima argomentazione è ineccepibile, infatti è certo che non rientra tra gli obiettivi della liquidazione (semmai lo sarebbe dell'accordo) il salvataggio dell'impresa.
Tuttavia, non sono condivisibili gli altri asserti, che sono serviti per negare l'accesso alla liquidazione, ed in particolare quello per cui sarebbe impediente il fatto che il piccolo imprenditore vuole svolgere la sua attività non solo per il periodo della liquidazione, ma anche oltre la fine della procedura e senza controllo da parte del liquidatore.
Neppure è condivisibile l'asserto per cui nella liquidazione il debitore non possa mantenere il controllo sulla sua attività economica.
Ragione per cui, conclude il Tribunale, non vi sarebbe corrispondenza con il modello legale della liquidazione.
Modello legale tipico, quindi, che dovrebbe corrispondere ad una cessione totale dei beni, con impossibilità di svolgere una qualsiasi attività d'impresa.
Occorre precisare.
Invero la liquidazione non preclude in assoluto lo svolgimento di attività lavorativa in genere, anzi la favorisce, perché la stessa legge n. 3/2012, ai fini dell'esdebitazione, impone al debitore di cercare e di svolgere un'attività lavorativa, come indica l'art. 14-terdecies, co. 1, lett. e): "abbia svolto, nei quattro anni di cui all'articolo 14-undecies, un'attività produttiva di reddito adeguata rispetto alle proprie competenze e alla situazione di mercato o, in ogni caso, abbia cercato un'occupazione e non abbia rifiutato, senza giustificato motivo, proposte di impiego;".
La norma non distingue tra lavoro dipendente, lavoro autonomo e lavoro d'impresa.
Dunque, non solo è possibile accedere alla liquidazione svolgendo attività d'impresa, ma anche il debitore è tenuto, ove ciò corrisponda alla sua indole lavorativa, a svolgere tale attività.
Non si pone un problema di controllo da parte del liquidatore su tale attività, perché lo stesso è tenuto a svolgere una vigilanza attiva su di essa al fine di verificare che i proventi siano quelli indicati dal debitore e che sia sempre garantito il gettito promesso in favore della procedura.
Invero, in ogni momento il liquidatore potrebbe segnalare al giudice delegato ad esempio che il reddito d'impresa (o lavorativo in genere) è aumentato o diminuito e così chiedere una modifica delle condizioni a cui è onerato il debitore, aumentando o diminuendo la somma da versare.
D'altro canto, si consideri che il debitore al quale viene negato l'accesso alla liquidazione dovrà proporre un accordo ai suoi creditori, offrendo la medesima somma che ha vanamente offerto per la liquidazione.
Non può però negarsi che, ove la procedura con accordo non sortisca l'esito sperato, essa possa essere convertita in procedura di liquidazione, su istanza dello stesso debitore o di un creditore, ai sensi dell'art. 14-quater, nei casi di annullamento (per frode) o risoluzione (per inadempimento) dell'accordo omologato.
E torneremmo, così, alla stessa procedura di liquidazione negata ab origine.
E, d'altronde, nessuno dubiterebbe della possibilità concessa al fallito di esercitare una piccola impresa, purché essa non richieda l'utilizzo di beni strumentali di un certo valore, che sarebbero necessariamente attratti alla liquidazione concorsuale, per il principio di universalità oggettiva, come sancito dall'art. 42, co. 1, l.f. per i beni dell'impresa anteriore fallita ("La sentenza che dichiara il fallimento priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento.") e dal comma 2 per i beni dell'impresa successiva al fallimento ("Sono compresi nel fallimento anche i beni che pervengono al fallito durante il fallimento, dedotte le passività incontrate per l'acquisto e la conservazione dei beni medesimi.").
Ad esempio, si ritiene possibile che il fallito eserciti una piccola impresa di pulizie, con pochi beni strumentali che non potrebbero essere utilmente liquidati dal curatore fallimentare.
E ciò, per vero, corrisponde anche al principio costituzionale di tutela del lavoro, essendo la nostra Repubblica fondata sul lavoro.
In giurisprudenza è sempre stato ammesso che il fallito possa esercitare un'attività (necessariamente nuova perché piccola impresa non fallibile) imprenditoriale, (Cass. 16 maggio 1997 n. 4345; Cass. 10 giugno 1998 n. 5738; Cass. 26 agosto 1998 n. 8481; Cass. 11 maggio 2018 n. 11541), ferma restando la facoltà del curatore di scegliere se acquisire o meno i beni dell'azienda all'attivo fallimentare liquidabile.
In realtà, il distinguo non va posto tra attività di lavoro dipendente, che consentirebbe la liquidazione senza beni (che è ormai pacificamente ammessa), e attività d'impresa, che non la consentirebbe, perché in entrambi i casi, come in quello del lavoro autonomo (si pensi al caso del professionista sovraindebitato che chiede di accedere ad una procedura di liquidazione, offrendo di pagare una somma ricavata dalla sua attività), ma, sempre nell'ambito dell'attività d'impresa, in relazione all'azienda, cioè ai beni occorrenti per la stessa, la distinzione va fatta tra aziende liquidabili ed aziende non liquidabili.
Invero, se il debitore ha un'attività d'impresa (oppure di lavoro autonomo) che abbia un valore liquidabile, sia che si tratti di beni aziendali, sia che si tratti anche solo dell'avviamento, purché non sia strettamente legato alla sua persona, ché, altrimenti, sarebbe ovviamente da essa inscindibile e perciò incedibile (pensiamo alla clientela di un avvocato o di un commercialista), allora questo valore deve essere ceduto alla procedura per il motivo che essa riguarda "tutti" i beni del debitore, compreso quindi il valore della sua azienda, materiale o immateriale.
Pertanto, l'inammissibilità dovrebbe conseguire non tanto al fatto che il debitore voglia continuare a lavorare (suo diritto e suo dovere), anche in forma di impresa, quanto al fatto che egli si rifiuti di conferire un bene liquidabile che, stante il principio di universalità oggettiva che caratterizza la liquidazione (alla pari del fallimento, finché si chiama così), egli non potrebbe conservare per sé, perché la liquidazione obbliga a conferire tutti i beni di valore, ed in tal caso, ove volesse realizzare la continuità aziendale, dovrebbe passare per il voto dei creditori ottenuto con l'accordo di composizione della crisi.
Se, invece, l'azienda non ha un valore liquidabile, allora il problema non si pone e la liquidazione può ben essere aperta.