I. La disciplina degli intermediari finanziari è un settore in cui il continuo evolversi del mercato, della tecnologia e dell'economia impongono un costante adeguamento del livello di diligenza richiesta. Detto adeguamento, da un punto di vista di legal process, può essere efficacemente realizzato solo dalla Consob, coadiuvata dalle associazioni private degli intermediari, che vantano un'intima conoscenza dei fattori dinamici menzionati. L'opera della Consob consiste nella continua definizione del concetto di lealtà e diligenza, creando o cristallizzando (nei limiti previsti dal TUF e dal diritto europeo) doveri di dettaglio. In questo complesso procedimento, finalizzato a individuare dei più precisi standard comportamentali (rispetto a quelli desumibili dal diritto comune), la Commissione ha -saggiamente- tenuto conto anche dei modelli elaborati in altri ordinamenti giuridici. La possibilità di un confronto comparativo con altre esperienze è stato agevolato dall'esistenza di organismi internazionali, quali la IOSCO o la FESCO, costituite dalle stesse amministrazioni indipendenti preposte al controllo dei mercati finanziari. Il progressivo confondersi dei confini della carta geografica-economica, anche a seguito delle travolgenti innovazioni tecnologiche degli ultimi lustri, ha innescato un processo ineluttabile mirante a individuare sia dei principi sia delle regole di dettaglio applicabili a tutti gli attori del mercato globale. I sistemi giuridici occidentali hanno utilizzato principi quali la buona fede e la professionalità per imporre all'intermediario un dovere di informazione totalizzante. Di recente, il "dovere di informare" l'investitore ha subito una metamorfosi, trasformandosi (ampliandosi) in "dovere di informarsi", in primis, sulla situazione del cliente. Si tratta di un dovere sconosciuto al diritto comune, che trova la propria ragione economica e giuridica proprio nella natura spiccatamente fiduciaria del rapporto tra cliente e intermediario. Tale dovere, cristallizzato all'art. 11, quarto alinea della direttiva n. 93/22/CEE e nei principi IOSCO, viene ripreso, in termini generali, anche dal Testo Unico della Finanza, il quale all'art. 21, comma 1, lett. b) stabilisce che gli intermediari nella prestazione dei servizi di investimento e accessori devono acquisire le informazioni necessarie dai clienti. Poiché la norma di legge non specifica l'ambito operativo del dovere in esame la Consob, riprendendo quanto già previsto dalla direttiva richiamata, dai principi IOSCO e dai sistemi angloamericani, ha chiarito quali informazioni debbano essere richieste. In particolare, ai sensi dell'art. 28, comma 1, lett. a) del Regolamento n. 11522/98 prima dell'inizio della prestazione dei servizi di investimento e accessori "gli intermediari autorizzati devono chiedere all'investitore notizie circa la sua esperienza in materia di investimenti in strumenti finanziari, la sua situazione finanziaria, i suoi obiettivi di investimento, nonché circa la sua propensione al rischio". Con tale prescrizione, la Consob celebra dunque nel nostro ordinamento la nota know your customer rule, anche conosciuta come l'undicesimo comandamento di Wall Street. La raccolta della informazioni de quibus dovrebbe avvenire, di regola, nell'ambito di un incontro personale e diretto con l'investitore, e ciò in considerazione del fatto che la fase antecedente all'instaurazione del rapporto tra le parti ha carattere "interattivo", e che solo per tale via si può conoscere effettivamente il cliente. Per garantire maggior snellezza al rapporto tra le parti e consentire all'intermediario, senza sopportare eccessivi costi, di adempiere all'obbligo di dotarsi di procedure idonee a ricostruire le modalità, i tempi e le caratteristiche dei comportamenti posti in essere nella prestazione dei servizi (art. 56, comma 2, lett. a) del Regolamento Consob n. 11522/98) la Consob, in sede di interpretazione autentica, ha legittimato l'utilizzo di moduli prestampati per reperire le informazioni in esame; e ciò, naturalmente, sul presupposto che vi sia stata comunque una preventiva interazione tra le parti e che le informazioni siano state raccolte prima dell'inizio della prestazione del servizio. Anche in tale frangente, vanno quindi pienamente rispettati i principi della professionalità, della buona fede e della correttezza: le informazioni sul cliente, ad esempio, devono essere costantemente aggiornate in pendenza del rapporto, alla luce dell'operatività dello stesso cliente e di ogni altra notizia rilevante. Sembra, peraltro, ragionevole ritenere che se due intermediari svolgano per conto dello stesso cliente il medesimo servizio di investimento (ad esempio nel caso di deleghe gestionali) ed entrambi abbiano un rapporto diretto con l'investitore le informazioni acquisite da un operatore possono essere considerate affidabili anche per l'altro; tale interpretazione, accolta dalla CESR, si giustifica se si considerano i costi, quantomeno in termini di tempo, che le parti devono sopportare per adempiere compiutamente alle modalità di raccolta della informazioni. Ciò premesso, è agevole comprendere come il particolare dovere informativo suddetto sia strumentale all'applicazione di un'altra nota conduct of business rule. Si tratta, della c.d. suitability rule, introdotta per la prima volta a livello europeo nell'ordinamento inglese contestualmente all'inizio del dibattito che avrebbe poi portato all'emanazione del Financial Services Act, e già nota da anni nell'ordinamento giuridico statunitense. In merito, l'art. 29, comma 1 del Regolamento n. 11522/98 prevede che gli intermediari autorizzati sono gravati dall'obbligo di astenersi dall'effettuare con o per conto degli investitori operazioni non adeguate per tipologia, oggetto, frequenza o dimensione. Ne deriva, quindi, che la c.d. know your customer rule è funzionale alla regola sulla adeguatezza delle operazioni: l'intermediario può astenersi dall'effettuare con o per conto degli investitori operazioni "non adeguate", solo se conosce specificamente l'esperienza degli stessi clienti nel campo degli investimenti in strumenti finanziari, la loro situazione finanziaria, i loro obiettivi di investimento e la loro propensione al rischio. Si aggiunga che l'assolvimento all'obbligo in questione presuppone che gli intermediari abbiano adeguate informazioni sui prodotti finanziari oggetto della valutazione (c.d. know your merchandise rule) . In merito, la Consob ha stabilito all'art. 26, comma 1, lett. e) del Regolamento Consob n. 11522/98 che "gli intermediari autorizzati, nell'interesse degli investitori e dell'integrità del mercato mobiliare (...) acquisiscono una conoscenza degli strumenti finanziari, dei servizi nonché dei prodotti diversi dai servizi di investimento, propri o di terzi, da essi stessi offerti, adeguata al tipo di operazione da fornire". Di fronte al rifiuto del cliente di fornire le informazioni richieste (rifiuto che ai sensi dell'art. 28, comma 1, lett. a) del Regolamento Consob deve risultare dal contratto o da apposita dichiarazione sottoscritta dall'investitore), la suitability rule non si disapplica del tutto: gli intermediari autorizzati dovranno comunque tenere conto, ai fini dell'adempimento dell'obbligo sulla adeguatezza delle operazioni, di ogni altra informazione disponibile in relazione ai servizi prestati. La sinergia tra i tre doveri richiamati è evidente. Gli intermediari, infatti, possono astenersi dall'effettuare con o per conto degli investitori operazioni non adeguate in relazione alle caratteristiche finanziarie e personali della clientela solo se conoscono, in primo luogo, gli strumenti finanziari oggetto dell'operazione di riferimento ed, in secondo luogo, le caratteristiche della stessa clientela. In sintesi, la know your merchandise rule e la know your custmomer rule sono prodromiche all'applicazione della suitability rule. La regola sull'adeguatezza della operazioni trova applicazione in relazione a qualsiasi tipo di operazione da eseguire; ovvero, sia alle operazioni effettuate su istruzione del cliente, sia - e in particolare- alle operazioni discrezionali poste in essere da parte dello stesso intermediario. Si tratta di un dovere fiduciario generale imposto all'intermediario anche in presenza di una specifica istruzione. La dottrina in esame assoggetta gli intermediari al dovere positivo di interpretare le preferenze di investimento dei risparmiatori in termini di trade-off rischio/rendimento, alla luce delle personali esigenze degli stessi. Ciò premesso, e assunta l'avversione al rischio dell'investitore, è agevole comprendere la policy di fondo del dovere in esame. Si tratta del tentativo di proteggere il risparmiatore da un rischio non necessario connesso all'attività di investimento. Naturalmente, come è palesato all'art. 29, comma 3 del Regolamento Consob n. 11522/98, gli intermediari, quando ricevono da un investitore disposizioni relative ad una operazione non adeguata, lo informano di tale circostanza e delle ragioni per cui non è opportuno procedere alla sua esecuzione. Se, tuttavia, l'investitore intenda dare corso all'operazione, gli intermediari possono eseguirla a condizione che venga impartito un ordine per iscritto ovvero, nel caso di ordini telefonici, qualora l'ordine venga registrato su nastro magnetico o su altro supporto equivalente, in cui sia fatto esplicito riferimento alle avvertenze ricevute. Da un punto di vista giuridico il concetto fondante la suitability doctrine è quello della diligenza professionale. A prescindere dai casi in cui la violazione del dovere in oggetto sia connessa ad un'attività intenzionale-speculativa (che solitamente, ma non sempre, acquisisce la forma del churning - cfr. infra), l'intermediario sarà responsabile per il compimento di un'operazione non adatta, qualora non abbia utilizzato tutti i mezzi e gli accorgimenti necessari per attuare il tipo d'attività in cui è ravvisabile la soddisfazione dell'interesse dell'investitore. Il dettato normativo non fornisce all'interprete adeguati strumenti per verificare concretamente se il dovere fiduciario sia stato violato, limitandosi a sottintendere che l'intermediario deve agire prudentemente in considerazione dell'avversione al rischio del risparmiatore. Il concetto di prudenza e adattabilità sembrano coincidere e il giudizio sull'operazione viene lasciato alla discrezionalità dell'intermediario ed alla sua capacità professionale di valutazione. Tale impostazione può frustrare le stesse esigenze dell'investitore. La minimizzazione del rischio, associata ad una politica d'investimento conservativa, tende a ridurre l'eventuale futuro guadagno del risparmiatore, che potrebbe essere intenzionato ad assumersi un maggior rischio nella speranza di un maggior guadagno. Non solo. Tale impostazione tende ad agevolare condotte "negligenti" da parte degli intermediari che, deresponsabilizzandosi dietro una politica di investimento prudente, potrebbero evitare di utilizzare i mezzi e gli accorgimenti realmente necessari per massimizzare il rendimento degli investimenti dei propri clienti. Per dare un primo significato al concetto di diligenza, può essere utile fare riferimento alla regola generale cristallizzata dalla prassi giurisprudenziale statunitense nel caso di mancanza di standard collettivi. Ci riferiamo alla nota regola di Hand. Tale regola dà concretezza al vago concetto di ragionevole diligenza attraverso l'applicazione del metodo costi-benefici, stabilendo che il comportamento sia ragionevolmente diligente se i costi marginali associati allo stesso non eccedano i benefici marginali derivanti alla controparte. Nel caso che qui rileva, l'intermediario è in colpa se il costo marginale della sua attività è minore del beneficio marginale risultante. Pertanto, sarà responsabile di un comportamento negligente se gli ulteriori mezzi e accorgimenti necessari per attuare il tipo di attività in cui è ravvisabile la soddisfazione dell'interesse dell'investitore sono giustificati in termini di costi; e gli ulteriori mezzi e accorgimenti necessari sono giustificati in termini di costi quando i mezzi e gli accorgimenti attualmente utilizzati si trovano al di sotto del livello efficiente. Per essere esente da responsabilità, quindi, l'operatore finanziario deve incrementare lo sforzo connesso all'azione finché il costo marginale sociale eguaglia il beneficio marginale sociale. Applicando tale regola al settore in esame l'operatore non sarà deresponsabilizzato da una politica meramente conservativa, essendo comunque negligente (rectius responsabile), se la mancata predisposizione dei mezzi e degli accorgimenti necessari per massimizzare il rendimento degli investimenti dei propri clienti comporti dei benefici marginali inferiori rispetto agli stessi associati all'eventuale e ipotetico guadagno dell'investitore. La regola di Hand, come sinteticamente definita, costituisce solo il punto di partenza per riempire di significato il concetto di diligenza applicabile agli intermediari finanziari. Tale formula ha, infatti, natura relazionale; varia al variare dell'avversione al rischio delle parti: maggiore è l'avversione al rischio dell'investitore e più alti saranno i costi marginali associati alla curva di indifferenza dello stesso; per contro, minore è l'avversione dello stesso e più bassi saranno i costi marginali connessi. Lo stesso può essere ripetuto sic et simpliciter, con riferimento ai benefici marginali dell'intermediario. È, dunque, il "rischio" l'elemento più idoneo a dare significato al concetto di diligenza nell'ambito della suitability doctrine. Ciò, tuttavia, si scontra con le inevitabili difficoltà connesse all'individuazione dell'effettivo grado di rischio dell'investimento in relazione all'avversione al rischio dell'investitore. Il secondo profilo non presenta reali complicazioni, poiché è facilmente valutabile dall'intermediario, alla luce delle caratteristiche dell'investitore quali, ad esempio, la sua situazione finanziaria o l'ammontare del danaro investito in relazione al valore del suo patrimonio etc. Naturalmente, un comportamento reticente dell'investitore, che ingeneri in capo all'operatore una falsa impressione sulla situazione finanziaria, che costui non sia in grado di verificare in altro modo, finirà per ritorcersi sullo stesso cliente, escludendolo dalla protezione accordata dalla suitability rule. Di più difficile individuazione sembra il primo profilo, relativo alla definizione dell'effettivo livello di rischio dell'investimento. In talune ipotesi, l'individuazione del grado di rischio dell'investimento non è difficile. Si tratta dei casi in cui l'intermediario acquista per conto del cliente (o suggerisce a quest'ultimo) specifici strumenti finanziari al di fuori di un servizio gestorio. Nei casi invece di discrationary trading, risulta più complesso cogliere l'effettivo livello di rischio del patrimonio gestito e di riflesso l'adattabilità dello stesso alle esigenze dell'investitore. Sul punto, soccorrono l'interprete alcune note teorie economiche, in grado di definire con relativa precisione la rischiosità dell'investimento. In particolare, merita di essere ricordata la c.d. teoria moderna di gestione del portafoglio elaborata dai Premi Nobel per l'Economia Harry M. Markowitz e William Sharpe. Si tratta di una sofisticata teoria economica, utilizzata nella pratica arbitrale statunitense, che consente di spiegare il trade-off tra rischio e rendimento, di misurare, almeno in parte, il rischio sistematico, e di individuare il portafoglio diversificato efficiente a seconda del diverso grado di avversione al rischio del risparmiatore. Tale teorie si basa su tre assunti fondamentali: a) L'investitore opera una scelta tra le attività presenti sul mercato facendo riferimento non solo al rendimento ma anche al rischio espresso dall'investimento; b) l'investitore è razionale e avverso al rischio, nel senso che egli preferisce gli investimenti che a parità di rischio danno il più alto rendimento o quelli che a parità di rendimento sono meno rischiosi; c) la scelta di un portafoglio ottimale dipende dall'entità di avversione al rischio che caratterizza ogni investitore; tale avversione viene rappresentata mediante le cosiddette curve di utilità che esprimono la relazione esistente in ogni investitore tra rischio e rendimento. La teoria moderna di gestione del portafoglio rivolge la propria attenzione su tre elementi: il rendimento di un'attività finanziaria, il rischio e la sua correlazione con gli altri elementi in portafoglio. Il primo viene definito come il rapporto tra il capitale iniziale e gli utili prodotti da operazioni di investimento o di trading in un periodo di tempo specificato (holding period). Il secondo si identifica nel grado di incertezza che il mercato esprime sull'effettiva realizzazione dei rendimenti attesi (definita in termini statistici, ovvero di deviazione standard detta anche "volatilità"). Il terzo elemento, la correlazione, costituisce uno strumento fondamentale per diminuire il rischio del complesso del portafoglio. Due attività finanziariarie parimenti rischiose (ad esempio due titoli azionari) possono avere andamenti tendenzialmente opposti (o quantomeno non correlati). Quando una attività sale, l'altra scende (o resta invariata) e viceversa. Questo comporta una diminuzione della volatilità (rischio) complessiva del portafoglio. Uno dei passi fondamentali nella costruzione di un portafoglio efficiente, secondo questa teoria, consiste proprio nell'individuazione di un'appropriata combinazione di titoli tale da ridurre il rischio, compensando gli andamenti asincroni dei singoli "titoli". Un investimento ad alto rischio solitamente ha un alto rendimento, mentre un investimento a basso rischio ne comporta uno modesto. Ne consegue che, una volta calcolato il trade-off rischio/rendimento di un determinato portafoglio, è possibile valutare con relativa precisione l'adattabilità dello stesso alle esigenze personali e finanziarie del cliente: se l'investitore ha delle aspettative di rendimento alte e può e/o vuole assumersi un maggior rischio, un portafoglio ad alto rendimento sarà adatto a quello specifico investitore; vale il contrario, qualora la situazione finanziaria del risparmiatore si scontri con il rischio connesso alla maggior volatilità degli strumenti finanziari ad alto rendimento. Ciò posto, utilizzando come guideline la teoria economica sinteticamente descritta, è possibile definire lo standard di diligenza professionale che deve guidare la condotta degli intermediari per adempiere alla regola sull'adeguatezza delle operazioni. L'intermediario si comporta diligentemente (e l'operazione è adatta) se, nell'ambito dei servizi gestorei, costruisce il portafoglio più efficiente per il cliente; ovvero, individua appropriatamente una combinazione di titoli tale da minimizzare il trade/off rischio rendimento, e da garantire il massimo rendimento per il livello di rischio del cliente. Tale teoria economica costituisce uno strumento prezioso per riempire di significato un concetto nebuloso e sovente di difficile applicazione quale quello della diligenza, soprattutto in un settore altamente specialistico come quello finanziario. La teoria in esame, in grado di misurare con una certa precisione l'effettivo livello di rischio di un determinato investimento, risponde agli interessi del cliente e dello stesso mercato, in quanto non focalizza la propria attenzione, come sembra fare il dettato normativo, sul rischio connesso all'eventuale disvalore dell'investimento, ma sull'effettivo livello di rischio del rendimento di un'attività finanziaria. L'investitore, infatti, è interessato al rendimento atteso di un dato investimento per il livello di rischio connesso. Inoltre, tale impostazione incentiva l'intermediario a massimizzare il rendimento di un investimento finanziario a un determinato livello di rischio e non, per contro, a porre in essere condotte conservative (difensive) che tendono a frustrare le aspettative del cliente riducendo, invece che incrementando, l'eventuale futuro guadagno. In altri termini, questa teoria evita di agevolare condotte "negligenti" da parte degli intermediari che, deresponsabilizzandosi dietro una politica di investimento prudente, potrebbero evitare di utilizzare i mezzi e gli accorgimenti realmente necessari per massimizzare il rendimento degli investimenti dei propri clienti.
II. Una volta risolto il problema dell'imputazione dell'obbligo di risarcimento all'intermediario responsabile, è necessario quantificare il danno nella sua accezione patrimoniale, avendo riguardo alla situazione del patrimonio dell'investitore antecedente all'inadempimento e la sua consistenza successiva. L'obiettivo economico è infatti quello di realizzare la perfetta compensazione della parte lesa, lasciando il risparmiatore indifferente tra adempimento e inadempimento. Sono noti i criteri di valutazione del danno codificati dal legislatore del '42. In merito, l'art. 1223 cod. civ. dispone che il risarcimento del danno per l'inadempimento deve comprendere la perdita patrimoniale, ovvero il danno emergente; e il mancato aumento del patrimonio, ovvero il guadagno che il creditore avrebbe percepito se la controparte non fosse stata inadempiente. Si tratta del c.d. lucro cessante. Tuttavia, "la funzione dell'art. 1223 cod. civ. è soltanto descrittiva e sta semplicemente ad indicare la direttiva del legislatore secondo cui la reintegrazione del patrimonio del creditore deve essere integrale ed attenere a tutti i pregiudizi economici subiti dal danneggiato". Questo per dire che il legislatore non individua dei criteri precisi di valutazione, alla stregua di parametri predeterminati, sicché sovente le difficoltà probatorie che si incontrano nella quantificazione del danno impongono all'interprete di ricorrere ad una valutazione equitativa dello stesso (art. 1226 cod. civ.). Invero, la figura del danno emergente si presta ad una più facile valutazione. La perdita subita corrisponde, infatti, ad una sottrazione di utilità che già esisteva nel patrimonio del creditore; in guisa che, anche in subjecta materia, non è complesso individuare il danno patrimoniale subito dal risparmiatore: danno che consiste nella perdita totale o parziale del capitale investito. Per tale via, a titolo meramente indicativo, "il cliente ha diritto ad ottenere una somma pari alla differenza tra il valore che gli strumenti finanziari avevano al momento del loro acquisto e quello in cui vengono ricollocati sul mercato ovvero viene fatta valere la pretesa risarcitoria"; oltre, si intende, alla restituzione delle spese (ad esempio, delle commissioni) connesse all'operazione finanziaria. È evidente che la valutazione del danno emergente varia a seconda del tipo di inadempimento realizzato dall'intermediario. Così, nel caso di operazione non adeguata, la valutazione della perdita patrimoniale passa attraverso una comparazione tra il valore del "portafoglio" del cliente prima del compimento dell'investimento e il valore dello stesso nel momento in cui il cliente viene a conoscenza (o avrebbe dovuto venire a conoscenza utilizzando l'ordinaria diligenza) dell'inadempimento della controparte. Apparentemente più problematica è la quantificazione del danno emergente nel caso di accertata violazione degli obblighi informativi gravanti l'intermediario. Anche tale valutazione deve essere fatta alla luce degli specifici doveri informativi violati, avendo riguardo alle diverse fasi della dinamica negoziale. Ad esempio, se l'operatore finanziario viola la "know your customer rule", il cliente creditore potrà richiedere oltre alle spese anche il capitale perso a seguito dell'inadempimento dell'intermediario. Lo stesso può essere ripetuto nel caso in cui il risparmiatore faccia affidamento su informazioni fornite dall'intermediario poi rivelatesi inadeguate. In tal caso, infatti, provato il nesso causale tra la violazione dell'obbligo informativo e il danno subito, il cliente "dovrebbe essere riposto nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato in presenza di uno svolgimento vantaggioso del contratto", attraverso la misurazione della differenza del valore del portafoglio del cliente prima e dopo l'inadempimento. Considerazioni analoghe possono essere fatte nel caso in cui l'operatore violi i doveri informativi durante lo svolgimento del rapporto. Ad esempio, nel caso in cui venga violato l'obbligo di informare "prontamente e per iscritto l'investitore appena le operazioni in strumenti derivati e in warrant da lui disposte per finalità diverse da quelle di copertura abbiano generato una perdita, effettiva o potenziale, pari o superiore al 50% del valore dei mezzi costituiti a titolo di provvista e garanzia per l'esecuzione delle operazioni (...)" (art. 28, comma 3 del Regolemento n. 11522/98). Se assumiamo che l'operazione in derivati o in warrants sia adeguata all'investitore, l'inadempimento dell'intermediario non interviene a monte del servizio, ma nel corso dell'esecuzione del rapporto. Ne consegue che, fermo restando il metodo di calcolo, l'attualizzazione del valore del portafoglio del cliente dovrà essere operata avendo riguardo al valore che lo stesso aveva nel momento in cui è sorto l'obbligo informativo (violato) a carico dell'intermediario. Discorso diverso deve invece farsi in sede di quantificazione del lucro cessante: ovvero del danno derivante dalla perdita di altre occasioni di investimento. Accettato il principio secondo cui il risarcimento, nel caso di inadempimento colposo, deve essere integrale e finalizzato al ripristino della stessa situazione in cui il risparmiatore si trovava prima dell'inadempimento è opportuno individuare alcuni parametri precisi per determinare le nuove utilità che il cliente avrebbe presumibilmente conseguito se non si fosse verificato l'inadempimento. L'opportunità di un'indagine in tale direzione emerge evidente se si considera che la giurisprudenza, chiamata a quantificare il lucro cessante, sovente utilizza il ricorso alla valutazione equitativa: e ciò in quanto trattasi di danno prevalentemente destinato a manifestarsi nel futuro e dunque di più difficile valutazione. Il ricorso al criterio della valutazione equitativa è particolarmente pericoloso nel settore finanziario. Le norme sui danni da inadempimento costituiscono, infatti, veri e propri incentivi comportamentali. Di conseguenza, un risarcimento non integrale e inidoneo a ripristinare lo status quo ante costituisce un disincentivo per gli intermediari a sopportare i costi connessi alla predisposizione di tutti quei mezzi e quegli accorgimenti necessari per attuare il tipo di attività in cui è ravvisabile la soddisfazione dell'interesse dello stesso risparmiatore. Per contro, un risarcimento superiore al pregiudizio effettivamente subìto favorisce comportamenti opportunistici dei risparmiatori e trasforma l'intermediario in una sorta di assicuratore delle perdite del cliente: perdite non connesse all'inadempimento ma alla fisiologica alea del mercato. Ne consegue che nella valutazione del lucro cessante si dovrà volgere particolare attenzione a non attribuire al risparmiatore vantaggi che sono slegati dall'andamento effettivo dei mercati finanziari. "[B]y awarding the plaintiff her entire loss on the transaction and ignoring market realities, the court allow[s] the plaintiff to escape the riscks inherent in investing during a declining market" . Per quantificare il mancato guadagno quindi non si devono considerare i vantaggi che l'investitore avrebbe realizzato da un andamento positivo del contratto effettivamente concluso, ma si deve guardare al vantaggio (o allo svantaggio) potenziale che l'investitore avrebbe conseguito se l'intermediario si fosse comportato professionalmente. Nel caso di inadempimento colposo il criterio che deve guidare l'interprete nella quantificazione del lucro cessante è dunque quello della "prevedibilità" di cui all'art. 1225 cod. civ." (...) Nella responsabilità contrattuale vi è un programma delle parti e quindi ricorre l'esigenza di circoscrivere la responsabilità contrattuale rispetto ad un rischio specifico di danno (...)". La dottrina che si è occupata del tema ha suggerito di organizzare "panieri" di prodotti aventi caratteristiche simili a quelli che hanno costituito l'oggetto del contratto di cui l'investitore assume la violazione. A conclusioni simili è giunta la giurisprudenza di merito. Il Tribunale di Bari ha infatti precisato che la quantificazione dell'aspettativa dell'investitore ad un maggior profitto deve essere effettuata utilizzando "categorie omogenee all'interno della massa dei prodotti finanziari": in particolare, organizzando «panieri» di prodotti con caratteristiche simili a quelli oggetto del contratto di cui l'investitore assume la violazione, delineando in tale modo un parametro di riferimento, da adeguare alle caratteristiche specifiche del contratto in questione". Peraltro, nella prassi non è agevole individuare con precisione un "paniere" di riferimento, soprattutto a causa del numero di strumenti finanziari potenzialmente riconducibili nel paniere dell'investitore. Di tal che è opportuno, a mio avviso, utilizzare un criterio già predeterminato come l'indice di borsa.
Naturalmente l'indice ha natura relazionale: ovvero varia a seconda dell'investitore e della sua avversione al rischio. L'interprete deve dunque verificare l'avversione al rischio del risparmiatore sulla base delle informazioni disponibili quali, ad esempio, l'esperienza in materia di investimenti in strumenti finanziari, la situazione finanziaria, gli obiettivi di investimento, etc. (elementi che devono essere raccolti dall'intermediario ai sensi dell' art. 28, comma 1, lett. a) del Regolamento n. 11522/98) e, sulla base di tali informazioni, individuare l'indice di mercato più adatto. Se dunque l'investitore ha delle aspettative di rendimento alte perché all'interno dello schema negoziale, aveva deciso di assumere un rischio elevato, un indice ad alto rendimento e ad alto rischio sarà adatto a quello specifico investitore. Diversamente, se la situazione personale e finanziaria del risparmiatore si scontra con il rischio connesso alla maggior volatilità degli strumenti finanziari di un indice ad alto rendimento (e ad alto rischio) vale il contrario. A titolo esemplificativo, se il rischio sistematico di un investitore, che risulta dal trade-off tra rischio e rendimento, è sintomatico di una policy conservativa, l'indice di riferimento più appropriato è un indice composto in parte preponderante (ad esempio: 75%) da obbligazioni (come, a titolo esemplificativo, l'indice JP Morgan obbligazioni internazionali governative) ed in parte minoritaria un indice azionario (come il MSCI World). Al contrario, se l'investitore ha adottato una politica di investimento aggressiva sembra ragionevole ancorare la quantificazione del danno ad un indice meno conservativo che potrebbe essere anche completamente azionario (MSCI World).