La massima:
Ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 648-ter c.p., non è necessario che la condotta di reimpiego presenti connotazioni dissimulatorie volte ad ostacolare l'individuazione o l'accertamento della provenienza illecita dei beni, in quanto tale delitto tutela, in via residuale rispetto a quelli di riciclaggio e autoriciclaggio, la genuinità del libero mercato da qualunque forma di inquinamento proveniente dall'utilizzo di beni di provenienza illecita.
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Ai fini della configurabilità del delitto di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (art. 648 ter c.p.) è necessario che l'agente ponga in essere specifiche attività dissimulatorie della provenienza illecita di tali denaro, beni, o utilità?
Rispetto a tale questione, fondamentale ai fini della configurabilità della figura delittuosa in commento, la giurisprudenza della Corte di Cassazione appare divisa, offrendo due soluzioni interpretative antitetiche.
Di tale difformità dà conto la pronuncia in esame, che propende per la non necessità della sussistenza delle condotte dissimulatorie sopra riferite, aderendo pertanto all'orientamento meno favorevole per l'imputato ma maggiormente estensivo della sfera di applicazione della fattispecie di cui all'articolo 648 ter del codice penale.
Preliminarmente all'esame del merito, appare opportuno tratteggiare la fattispecie di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita.
Si tratta di un reato introdotto nel codice penale attraverso la legge numero 55 del 1990, parzialmente modificato nel 1993 al fine di adeguarne la struttura alle indicazioni sovranazionali di cui alla direttiva 166/1991 della Comunità europea, con una precipua finalità: implementare gli strumenti di contrasto penale alla diffusione ed immissione nel traffico economico/imprenditoriale di risorse scaturenti da delitto.
Benché possa apparire una figura meramente residuale in rapporto ai reati di ricettazione, riciclaggio e, recentemente, autoriciclaggio (più frequentemente ricorrenti), in realtà è proprio la funzione di chiusura, di cerniera dell'ordinamento di protezione del patrimonio a renderla una fattispecie di una certa rilevanza sistematica.
Infatti, essa sanziona chi, non essendo concorso nel reato presupposto, impiega beni di provenienza delittuosa. Si sottolinea come tale impiego debba avvenire nell'ambito di circuiti economici o finanziari (pertanto con una finalità lucrativa) e come la provenienza dei beni debba derivare da delitto, eventualmente anche di natura colposa (a differenza di quanto la legge stabilisce con riguardo al riciclaggio e all'autoriciclaggio), quindi non da contravvenzione.
Il reato di cui all'articolo 648 ter del codice penale è punito altrettanto gravemente rispetto al riciclaggio, e con maggiore severità della ricettazione. Ciò in quanto il comune denominatore delle figure di riciclaggio e impiego di beni di provenienza illecita sta, a differenza della ricettazione, nella reimmissione nel circuito economico di tali beni, in altri termini nell'intossicazione del libero mercato.
Il discrimine tra le due fattispecie contiguamente disciplinate consiste allora nella materialità dell'azione: la sostituzione o trasferimento comunque in modo da ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa è il proprium del riciclaggio, mentre l'impiego di beni di provenienza illecita, come già la rubrica della legge indica, si sostanzia nel semplice utilizzo delle risorse illecite in attività economiche.
Il raffronto appena sintetizzato tra i due reati costituisce la chiave di lettura delle oscillazioni interpretative manifestate dalla Corte di Cassazione rispetto alla necessità o meno che anche ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 648 ter del codice penale si ponga in essere una attività dissimulatoria, di ostacolo alla identificazione della concreta provenienza delittuosa dei beni.
In proposito, come la sentenza in commento chiarisce, si fronteggiano due orientamenti in seno alla Corte.
In base a una prima esegesi (Cass. 6534/2000, 33076/2016), tale attività dissimulatoria rappresenta elemento costitutivo anche dell'impiego di beni di provenienza illecita, sebbene la legge non la evochi espressamente, come invece avviene agli articoli 648 bis e 648 ter.1 del codice penale. Ciò in quanto anche tale reato, analogamente al riciclaggio, risponderebbe alla esigenza di contrastare l'ostacolo all'accertamento delle risorse illecite. Ne consegue che anche l'elemento psicologico doloso del reo deve necessariamente ricomprendere la sua attività materiale di dissimulazione.
A soluzione opposta perviene un diverso orientamento, sostenuto anche dalla pronuncia in rassegna, che valorizza i due elementi dell'assenza di una indicazione testuale di tale attività dissimulatoria da parte dell'articolo 648 ter c.p. e giustappunto il ruolo di cerniera del sistema di protezione assunto dalla figura dell'impiego di beni di provenienza illecita.
Nell'ottica di tale secondo orientamento, il dato testuale legale non richiede un necessario ostacolo all'identificazione della provenienza dei beni proprio perché si tratta di una figura delittuosa che trova la propria dirompente applicazione laddove termina la sfera degli elementi costitutivi tipici del riciclaggio.
Vi è tuttavia da chiedersi, ad avviso di chi scrive, se lo sforzo di ricostruzione sistematica che espressamente anima tale interpretazione, certamente più afflittiva in quanto amplia l'ambito di applicazione del delitto che ne è ad oggetto, non possa essere sottoposto a revisione critica, in considerazione della struttura del capo normativo di appartenenza dell'impiego di beni di appartenenza illecita.
Infatti, tale capo è intitolato "Dei delitti contro il patrimonio mediante frode", laddove il concetto di frode deve intendersi quale una mistificazione della realtà.
Così, attribuendo rilevanza a tale ulteriore dato sistematico e valorizzando il principio di offensività quale necessità che vi sia una incisione del bene giuridico tutelato, si potrebbe pervenire ad affermare che il delitto di cui all'articolo 648 ter del codice penale in tanto può ritenersi integrato, in quanto l'impiego di beni di provenienza illecita determini in concreto, per le sue modalità, una certa difficoltà di accertamento della provenienza di detti beni.
Se così non fosse, non si vede in cosa consisterebbe l'offesa al patrimonio mediante frode.
In conclusione, si sono analizzate le due diverse interpretazioni di legittimità circa la necessità che l'impiego di beni di provenienza illecita presupponga un ostacolo alle modalità di accertamento della provenienza delle risorse che ne sono ad oggetto. Si è anche proposta una terza ricostruzione sistematica della questione critica che, tenendo conto del titolo di legge ed enfatizzando il principio di offensività, richiede la sussistenza di una condotta di mistificazione.
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Il testo integrale della decisione in commento:
Cassazione penale, sez. II, 21 giugno 2021, n. 24273. Pres. Cammino. Rel. Monaco.
Svolgimento del processo
La Corte d'Appello di Venezia, con sentenza del 23/3/2018, ha confermato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Padova in data 2/11/2015 nei confronti di * in relazione al reato di cui all'art. 648 ter c.p..
1. * è stato rinviato a giudizio per il reato di cui all'art. 648 ter c.p., perchè, quale titolare di fatto della *, avrebbe impiegato in attività economiche e finanziarie tre cavalli da corsa della cui provenienza illecita era consapevole. All'esito del processo di primo grado, il Tribunale di Padova ha ritenuto che l'operazione posta in essere dall'imputato, costituita dall'avere acquistato i cavalli ed averli impiegati nella scuderia, configurasse per ciò solo la condotta prevista dalla norma e ciò anche a prescindere dalla presenza o meno di un effetto dissimulatorio, ritenuto non necessario. All'esito dell'appello la Corte territoriale, ribadita la dichiarazione di responsabilità pure in ordine al ruolo svolto dall'imputato e della consapevolezza dello stesso circa la provenienza delittuosa degli animali, ha ritenuto che l'operazione fosse comunque caratterizzata da un effetto dissimulatorio e ha pertanto, anche sotto tale profilo, confermato la pronuncia di primo grado.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso l'imputato che, a mezzo del difensore, ha dedotto i seguenti motivi.
2.1. Vizio di motivazione, con riferimento al travisamento della prova, in relazione alla ritenuta sussistenza dell'elemento psicologico e, pertanto, in ordine alla dichiarazione di responsabilità. Nel primo motivo la difesa rileva che la motivazione del provvedimento impugnato sarebbe carente quanto alla sussistenza dell'elemento psicologico in quanto gli elementi valorizzati non evidenzierebbero la consapevolezza del ricorrente in ordine alla provenienza illecita dei cavalli. Le circostanze relative al prezzo di vendita di * e del valore dello stesso, d'altro canto, non tenendo conto del tenore della nota della polizia giudiziaria del 3 novembre 2019, nella quale si riferisce di una precedente compravendita, sarebbero il frutto di un evidente travisamento della prova. Analoghe conclusioni, poi, deriverebbero dall'indicazione errata contenuta in sentenza circa le date delle vittorie conseguite dallo stesso cavallo al Gran Premio di Torino e al Derby di Roma.
2.2. Violazione di legge e vizio di motivazione, anche sotto il profilo del travisamento della prova, in relazione alla ritenuta qualità di amministratore di fatto del ricorrente e, pertanto, in ordine alla dichiarazione di responsabilità. Nel secondo motivo il ricorrente, allegati i verbali delle sommarie informazioni testimoniali rese dalle persone informate dei fatti, rileva l'erroneità della conclusione cui è pervenuta la Corte territoriale in ordine al ruolo di amministratore di fatto che l'imputato avrebbe svolto nella società intestata al figlio.
2.3. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui all'art. 648 ter c.p.. Nel terzo motivo la difesa rileva l'erroneità della conclusione cui è pervenuta la Corte territoriale con riferimento all'effetto dissimulatorio della condotta posta in essere dall'imputato. L'acquisto dei cavalli, infatti, come peraltro anche riconosciuto dalla Corte di cassazione nel procedimento cautelare (nel ricorso si cita la sentenza con la quale questa Corte ha annullato senza rinvio l'ordinanza del Tribunale che aveva respinto il riesame avverso il sequestro dei cavalli), non avrebbe nè avrebbe potuto avere alcun effetto dissimulatorio, elemento questo che sarebbe necessario per la sussistenza della fattispecie di cui all'art. 648 ter c.p..
3. In data 28 gennaio 2021 sono pervenute in cancelleria le conclusioni scritte del Procuratore Generale, Sost. Proc. Gen. Dott. Cuomo Luigi, per l'inammissibilità del ricorso.
4. In data 8 febbraio 2021 è pervenuta in cancelleria una memoria redatta dall'avv. Bissi che, facendo riferimento a quanto dedotto nel terzo motivo, insiste per l'accoglimento del ricorso.
Motivi
Il ricorso è complessivamente infondato.
1. Nel primo e nel secondo motivo la difesa deduce il vizio di motivazione, anche sotto il profilo del travisamento della prova, in relazione alla dichiarazione di responsabilità.
1.1. Nel primo motivo si rileva la contraddittorietà della motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza dell'elemento psicologico in quanto gli elementi valorizzati non evidenzierebbero la consapevolezza del ricorrente in ordine alla provenienza illecita dei cavalli. La conclusione cui sarebbero pervenuti giudici di merito quanto al prezzo di vendita di * e del valore dello stesso, d'altro canto, sarebbero il frutto di un evidente travisamento della prova. In ordine a tali aspetti, infatti, i giudici di merito avrebbero fatto riferimento a una circostanza smentita dalla nota della polizia giudiziaria del 3 novembre 2019 (nella quale si dà conto di una precedente compravendita) e avrebbero erroneamente indicato che le vittorie al Gran Premio di Torino e al Derby di Roma erano precedenti alla cessione.
1.2. Nel secondo motivo si rileva la contraddittorietà della motivazione con riferimento alla ritenuta qualità di amministratore di fatto del ricorrente poichè tale conclusione contrasterebbe con quanto emerso dalle dichiarazioni delle persone informate dei fatti e contenute nei verbali allegati all'atto di ricorso.
1.3. Le doglianze sono manifestamente infondate.
La Corte, la cui motivazione si salda ed integra con quella del giudice di primo grado, ha infatti fornito congrua risposta alle analoghe critiche già contenute nell'atto di appello ed ha esposto gli argomenti per cui queste non erano coerenti con quanto emerso nel corso dell'istruttoria dibattimentale.
Nell'apprezzamento delle fonti di prova, d'altro canto, il compito del giudice di legittimità non è di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, ma solo di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (così Sez. un., n. 930 del 13/12/1995, Rv 203428; per una compiuta e completa enucleazione della deducibilità del vizio di motivazione, da ultimo Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F.; Sez. 2, n. 19411 del 12/03/2019, Furlan, Rv. 276062; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv 269217; Sez. 6, n. 47204, del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482).
La denunzia di minime incongruenze argomentative o l'omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione (ma che non siano inequivocabilmente muniti di un chiaro carattere di decisività), pertanto, non può dar luogo all'annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto. Al contrario, è solo l'esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi, oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell'impianto argomentativo della motivazione (Sez. 1, n. 46566 del 21/2/2017, M., Rv 271227; Sez. 2, 9242 del 8/2/2013, Reggio, Rv 254988).
Il limite così posto al controllo di legittimità non può evidentemente essere superato deducendo il c.d. travisamento della prova che, ferma restando la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, ricorre soltanto nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che, in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano o meno (Sez. 3, n. 38431 del 31/01/2018, Ndoja, Rv. 273911; Sez. 5, n. 8188 del 04/12/2017, dep. 2018, Grancini, Rv. 272406; Sez. 3, n. 39729 del 18/6/2009, Belluccia, Rv 244623; Sez. 2, n. 23419 del 23/5/2007, Vignaroli, 236893).
La novella codicistica, introdotta con la L. n. 46 del 2006, infatti, nel riconoscere la possibilità di deduzione del vizio di motivazione anche con il riferimento ad "atti processuali" (che devono essere specificamente indicati nei motivi di impugnazione, nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso medesimo), non ha comunque mutato la natura del giudizio di Cassazione, che rimane pur sempre un giudizio di legittimità, sicchè gli atti eventualmente indicati devono contenere elementi processualmente acquisiti, di natura certa ed obiettivamente incontrovertibili, che possano essere considerati decisivi in rapporto esclusivo alla motivazione del provvedimento impugnato e nell'ambito di una valutazione unitaria, e devono essere tali da inficiare la struttura logica del provvedimento stesso. (Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, S.P.M., Rv. 277758; Sez. Sez. 6, 5146 del 16/1/2014, Del Gaudio, Rv 258774; Sez. 2, n. 47035 del 3/10/2013, Giugliano, Rv 257499; Sez. 2, n. 7380 del 11/1/2007, Messina, 235716).
In consonanza con quanto fin qui richiamato, va ancora osservato che, qualora la prova che si assume essere stata travisata provenga da una fonte dichiarativa (per es. deposizione testimoniale o la dichiarazione di un collaboratore di giustizia), l'oggetto della stessa deve essere del tutto definito o attenere alla proposizione di un dato storico semplice e non opinabile (in tal senso Sez. 5, n. 8188 del 04/12/2017, dep. 2018, Grancini, Rv. 272406 e Sez. 4, n. 15556 del 12/2/2008, Trivisonno, Rv 239533 ove in motivazione si è affermato che al di fuori degli evidenziati limiti, dovendosi considerare la deposizione sempre il frutto della percezione soggettiva del testimone, la sua valutazione ha inevitabilmente chiamato il giudice di merito a "depurare" il dichiarato dalle cause di interferenza provenienti dal dichiarante, operazione che per essere apprezzata dal giudice di legittimità presuppone la contezza non del singolo atto processuale, bensì dell'intero compendio probatorio, nonchè una analisi comparativa che rimane preclusa a suddetto giudice).
Con riferimento al caso specifico, nel quale il "travisamento della prova" era stato oggetto di deduzione anche in appello, peraltro, deve ribadirsi che "il vizio del travisamento della prova, per utilizzazione di un'informazione inesistente nel materiale processuale o per omessa valutazione di una prova decisiva, può essere dedotto con il ricorso per cassazione quando la decisione impugnata abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di cosiddetta "doppia conforme", essere superato il limite costituito dal "devolutum" con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d'appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice" (testualmente Sez. 4, n. 19710 del 03/02/2009, P.C. in proc. Buraschi, Rv. 243636, e da ultimo Sez. 2, n. 19411 del 12/2019, Furlan, Rv 20602).
1.3.1. La motivazione della Corte territoriale in ordine alla consapevolezza del ricorrente circa la provenienza delittuosa dei cavalli, che fa riferimento a quella di primo grado, è adeguata e coerente e sul punto non vi è alcun travisamento.
Il giudice dell'appello, infatti, evidenziata la necessità di procedere a una valutazione non parcellizzata ma che piuttosto sia il frutto di un'analisi d'insieme, ha dato comunque conto degli elementi sui quali ha fondato la propria conclusione.
In particolare, ha valorizzato:
i. la circostanza che i cavalli acquistati dal ricorrente erano oggetto del reato di riciclaggio commesso da * (peraltro condannata con sentenza divenuta irrevocabile sul punto) ed erano stati comprati in origine con i proventi illeciti derivati dalle condotte distrattive del *.;
ii. le anomalie concernenti le modalità di acquisto dei cavalli, per i quali si sono succeduti diversi passaggi di proprietà nei quali sono stati indicati valori e prezzi incoerenti rispetto a quelli anche contenuti nella Gazzetta dello Sport e negli appunti rinvenuti nell'abitazione dei danti causa, pari a un valore almeno dieci volte superiore. Sul punto, d'altro canto, appare più che pertinente il rinvio alla sentenza di primo grado e di quella di appello alla relazione della polizia giudiziaria del 3 novembre 2009 il cui contenuto, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, non risulta essere stato travisato quanto piuttosto valutato nella sua interezza. Nella stessa, infatti, come pure indicato nelle sentenze e anche nei motivi di appello, la circostanza che il cavallo era stato venduto a un prezzo inferiore a quello "di mercato" non viene smentita ma confermata. Ciò proprio in virtù dell'annullamento della fattura di vendita del 4 giugno 2009 per il controvalore di 12.500,00 Euro e dell'emissione, in data 26 agosto 2009, immediatamente successiva all'acquisto da parte del ricorrente a soli Euro 15.000,00, di una nuova fattura per 45.000,00 Euro. Ad analoghe conclusioni, d'altro canto, deve anche pervenirsi in ordine al riferimento ai premi vinti da * in date immediatamente precedenti alla compravendita. Nella sentenza impugnata, e in quella di primo grado, infatti, non si fa specifico riferimento ai premi vinti dal cavallo al Derby di Roma e al Gran Premio di Torino, successivi alla compravendita, ma ai premi vinti in altre competizioni tenute nei mesi di "giugno e luglio 2009" e pari a complessivi Euro 11.286, somma coerentemente ritenuta incompatibile con la cifra versata nel mese di agosto per l'acquisto (cfr. sentenza impugnata pag. 9);
iii. il possesso da parte del ricorrente di documenti relativi alla fallenda azienda del *, tra i quali note INPS e INAIL, dai quali si desume la consapevolezza della provenienza illecita delle somme utilizzate per acquistare i cavalli, che peraltro costituivano investimenti estranei all'oggetto sociale della *;
iv. la circostanza riferita dal * per il quale il ricorrente, senza alcuna giustificazione e, apparentemente, in assenza di diversi rapporti con la *., si era interessato, proprio e sempre in quel periodo, di ottenere il pagamento di crediti a questi riferibili.
1.3.2. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi in relazione alla doglianza, dedotta anche sotto il profilo del travisamento della prova, circa l'erroneità della conclusione della Corte territoriale in ordine al ruolo di amministratore di fatto che l'imputato avrebbe svolto nella società intestata al figlio.
Anche con specifico riferimento a tale censura, già oggetto dei motivi di appello, la motivazione della sentenza impugnata risulta adeguata e coerente e non incorre in alcun travisamento della prova.
Sul punto, infatti, la Corte territoriale ha fatto riferimento:
i. alla documentazione relativa alla gestione della Scuderia * e a quella afferente all'acquisto dei cavalli reperite presso l'abitazione del ricorrente;
ii. alle dichiarazioni rese dal teste * che ha indicato in * il gestore della Scuderia *.
In ordine alla dichiarazione del teste, d'altro canto, non è rilevabile alcun travisamento e la censura, formulata nel senso che l'indicazione del solo nome " F." sarebbe generica, afferisce al profilo della valutazione della prova. Profilo questo che, in assenza di palesi illogicità, non è sindacabile in questa sede nella quale, invero, appare comunque opportuno rilevare che l'affermazione, resa dalla persona che amministrava la scuderia (*) e che aveva anche riferito ulteriori elementi circa le modalità di allenamento di * con ciò dimostrando di avere conoscenze specifiche della gestione della Scuderia * (cfr. atto di appello, pag. 4 e 5), è pertinente e rilevante.
A scanso di ogni equivoco, poi, come anche già evidenziato dai giudici di merito, ciò che risulta decisivo è il fatto che presso l'abitazione del ricorrente non è stata reperita solo la documentazione relativa alla gestione della società ma, per quel che rileva con specifico riferimento alle condotte contestate, anche quella concernete l'acquisto dei cavalli di provenienza illecita e oggetto del reimpiego commesso attraverso la società stessa.
Elementi questi che rendono privo di effettivo rilievo quanto dichiarato dai testi T. e C., quest'ultimo peraltro amministratore della *, la fiduciaria svizzera venditrice dei cavalli riferibile alla R., circa il ruolo svolto da *, figlio del ricorrente, che pure non è escluso che si sia occupato o potesse occuparsi della gestione della società unitamente al padre.
2. Nel terzo motivo la difesa deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui all'art. 648 ter c.p. evidenziando l'erroneità della conclusione cui sarebbe pervenuta la Corte territoriale con riferimento all'effetto dissimulatorio della condotta posta in essere dall'imputato.
L'acquisto e il successivo impiego dei cavalli nella scuderia, infatti, come peraltro anche riconosciuto dalla Corte di cassazione nel procedimento cautelare (nel ricorso si cita la sentenza con la quale questa Corte il 15 giugno 2009 ha annullato senza rinvio l'ordinanza del Tribunale che aveva respinto il riesame avverso il sequestro dei cavalli), in assenza di condotte ulteriori e diverse, quali ad esempio la falsificazione dei certificati, non avrebbero nè avrebbero potuto avere alcun effetto dissimulatorio.
Circostanza questa che nel caso di specie determinerebbe l'insussistenza del reato di cui all'art. 648 ter c.p..
La doglianza è infondata.
2.1. La difesa pone la questione dell'individuazione degli elementi costitutivi della fattispecie prevista dall'art. 648 ter c.p. e, in specifico, circa la natura della condotta materiale, cioè se questa debba o meno essere caratterizzata dalla necessaria presenza di un effetto dissimulatorio della provenienza illecita di quanto impiegato nell'attività economica o finanziaria.
Sul punto, come evidenziato nell'atto di ricorso, la giurisprudenza di legittimità appare divisa.
Secondo un primo orientamento, che ha preso le mosse da Sez. 4, n. 6534 del 23 marzo 2000, Aschieri, Rv 216733 (ribadito da Sez. 1, n. 1470 dell'11 dicembre 2007, dep. 2008, Addante, Rv 238840 e Sez. 2, n. 39756 del 5 ottobre 2011, Ciancimino, Rv 251194 e, successivamente, da Sez. 2, n. 33076 del 14/07/2016, Moccia, Rv. 267692) la fattispecie criminosa di reimpiego, come l'analoga ipotesi di riciclaggio, avendo l'obiettivo di ostacolare l'accertamento o l'astratta individuazione dell'origine delittuosa del bene, richiede che la condotta sia caratterizzata da un effetto dissimulatorio e, conseguentemente, che l'elemento psicologico comprenda la finalità di far perdere le tracce dell'origine illecita. In tale prospettiva, quindi, la peculiarità che distinguerebbe il riciclaggio dal reato di cui all'art. 648 ter c.p., con il quale sussiste un rapporto di specialità, sarebbe costituita esclusivamente dal fatto che nel secondo la citata comune finalità sia perseguita mediante l'impiego delle risorse in attività economiche o finanziarie.
A tali conclusioni si contrappone un diverso orientamento che -prendendo le mosse dalla considerazione che la fattispecie è orientata in via principale a tutelare il fisiologico sviluppo del mercato che deve essere preservato dall'inquinamento derivante dall'immissione di capitali illeciti- ritiene che per la configurabilità del reato di cui all'art. 648 ter c.p. non sia necessario che la condotta di reimpiego presenti connotazioni dissimulatorie, volte cioè a ostacolare l'individuazione o l'accertamento della provenienza illecita dei beni (Sez. 2, n. 9026 del 05/11/2013, dep.2014, Palumbo, Rv. 258525; Sez. 2, n. 37678 del 17/06/2015, Corallo, Rv. 264466; Sez. 2, n. 1144 del 19/06/2019, Innocenti, n. m.; Sez. 2, n. 43387 del 08/10/2019, Novizio, Rv. 277997).
2.2. L'impostazione ermeneutica cui è pervenuto il secondo orientamento, espresso in particolare nella citata sentenza Sez. 2, n. 9026 del 05/11/2013, dep. 2014, Palumbo, appare corretta e deve essere ribadita.
Come evidenziato in tale pronuncia, infatti, il dato testuale e considerazioni di ordine sistematico impongono di escludere che la condotta prevista dall'art. 648 ter c.p. debba essere caratterizzata da effetti dissimulatori e che l'elemento soggettivo, oltre alla consapevolezza della provenienza, si estenda alla finalità di far perdere le tracce dell'origine illecita del bene.
2.2.1. I reati di cui agli artt. 648, 648 bis, 648 ter e ora 648 ter c.p., comma 1 costituiscono il sistema di contrasto ai fenomeni di circolazione, accumulo e consolidamento dei profitti illeciti.
Attraverso il progressivo inserimento di tali norme il legislatore è intervenuto al fine di impedire l'ottenimento dei profitti dei reati e la libera circolazione delle cose oggetto degli stessi.
In questo contesto ogni singola norma prevede una condotta che, se pure coincidente nel segmento iniziale costituito dalla ricezione, risulta poi caratterizzata dalla presenza di elementi specializzanti.
1. L'art. 648 c.p. prevede: "fuori dai casi di concorso nel reato presupposto... chi, al fine di procurare a sè o ad altri un profitto, acquista, riceve...".
2. L'art. 648 bis c.p.p., comma 1 stabilisce: "Fuori dei casi di concorso nel reato, chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l'identificazione della loro provenienza delittuosa, è punito...".
3. L'art. 648 ter c.p. recita: "Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli artt. 648 e 648 bis, impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto, è punito...".
4. L'art. 648 ter c.p., comma 1, prevede che l'autore del reato presupposto sia punito qualora "impiega, sostituisce, trasferisce in attività finanziarie, imprenditoriali o speculative... il denaro, i beni e le altre utilità prevenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l'identificazione...".
A fronte del dato testuale si deve pertanto ritenere che:
a. nella ricettazione la condotta è costituita dalla "mera" attività di ricezione (acquisto etc...) del bene di provenienza illecita e ciò che determina il disvalore penale è il dolo specifico, cioè il fine di conseguire un profitto, che si aggiunge e qualifica la consapevolezza della provenienza illecita;
b. nel riciclaggio la condotta, successiva alla "ricezione", che rimane assorbita, è qualificata dalla tipologia di azioni ("sostituire", "trasferire") cui fa riferimento la norma e, soprattutto, dalla specificazione per la quale le operazioni previste sono quelle poste in essere "in modo da ostacolare l'identificazione della provenienza illecita", e l'elemento psicologico è costituito dalla consapevolezza della provenienza del bene e dal dolo generico di porre in essere una o più delle operazioni previste (Sez. 2, Sentenza n. 30265 del 11/05/2017, Giamè, Rv. 270302; Sez. 2, n. 52549 del 20/10/2017, Venuti, Rv. 271530).
c. nel reato c.d. di reimpiego la condotta sanzionata, anche in questo caso successiva alla "ricezione" che rimane assorbita, è quella di impiegare i beni di provenienza illecita in attività economiche e finanziarie e, conseguentemente, il dolo è generico ed è costituito, oltre che dalla necessaria consapevolezza della provenienza del bene, dalla volontà di impiegare lo stesso nelle attività indicate (Sez. 2, n. 43387 del 08/10/2019, Novizio, Rv. 277997);
d. nel reato di autoriciclaggio, coerentemente con quanto previsto dal successivo comma 4, sono sanzionate le condotte che l'autore del reato presupposto pone in essere al fine di ostacolare concretamente l'identificazione della provenienza illecita diverse dalla destinazione alla mera utilizzazione o al godimento personale e il dolo è generico, analogo a quello del riciclaggio (Sez. 2, n. 16059 del 18/12/2019, dep. 2020, Fabbri, Rv. 279407; Sez. 2, n. 17235 del 17/01/2018, Tucci, Rv. 272652).
A ben vedere, quindi, la necessità che la condotta incriminata ostacoli l'identificazione della provenienza delittuosa del denaro, che questa cioè abbia un effetto dissimulatorio, è testualmente richiesta soltanto ai fini della configurabilità dei delitti di riciclaggio e autoriciclaggio e non per quella del reato di cui all'art. 648 ter c.p..
Lo stesso termine utilizzato, "impiego", in assenza della specifica indicazione prevista nell'art. 648 bis c.p., comma 1 e art. 648 ter c.p., comma 1 infatti, anche da un punto di vista semantico, indica un'azione in sè priva di connotazioni che implichino una intrinseca efficacia dissimluatoria.
2.2.2. La differenza strutturale con il reato di riciclaggio, d'altro canto, appare giustificata anche da argomenti di ordine sistematico.
Come già evidenziato nella citata sentenza Palumbo anche rinviando ad autorevole dottrina, nelle intenzioni del legislatore lo specifico spazio di operatività dell'art. 648 ter c.p. "è destinato a coprire una fase successiva a quella del riciclaggio, e cioè l'anello terminale sfociante nell'investimento produttivo dei proventi di origine illecita", ciò allo specifico fine di tutelare la genuinità del libero mercato da qualunque forma di inquinamento proveniente dall'immissione di somme di provenienza illecita nei normali circuiti economici e finanziari.
In tale prospettiva la fattispecie incriminatrice, quindi, anche in virtù della clausola di riserva ("Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli artt. 648 e 648 bis..."), ha una funzione residuale e, operando come norma di chiusura, sanziona una condotta in genere successiva e comunque distinta da quelle previste per il riciclaggio, di talchè non è necessario che l'operazione compiuta sia idonea a ostacolare la ricostruzione del c.d. paper trail, in quanto è comunque il solo fatto che i beni o il denaro, provenienti da delitto, siano utilizzati in attività economiche o finanziarie a essere di per sè idoneo a ledere il bene giuridico-interesse tutelato dalla norma.
2.2.3. Ad analoghe conclusioni, poi, deve pervenirsi anche con riferimento al reato di autoriciclaggio.
La circostanza che la fattispecie preveda espressamente la condotta di impiego e richieda che questa sia posta in essere in modo da ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa, infatti, diversamente da quanto indicato dalla difesa nella memoria depositata, non consente di ritenere che tale connotazione sia riferibile anche all'analoga condotta prevista dall'art. 648 ter c.p..
La fattispecie di cui all'art. 648 ter c.p., comma 1, oltre a essere reato proprio che può essere commesso esclusivamente dall'autore del reato presupposto, contiene degli elementi di specialità che distinguono la condotta sanzionata da quelle, pure in astratto analoghe, previste dalle norme precedenti.
A fronte del dato testuale, infatti, le condotte di impiego, sostituzione e trasferimento del denaro, beni o altre utilità sanzionate per l'autoriciclaggio, diversamente da quanto previsto negli artt. 648 ter e 648 bis, assumono rilievo penale quando si riferiscono alle attività indicate e qualora siano tali non solo da ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa delle stesse ma quando ciò avvenga, così distinguendosi da quanto previsto per il riciclaggio, "concretamente" (Sez. 2, n. 16059 del 18/12/2019, dep. 2020, Fabbri, Rv. 279407).
3. Risolta nel senso indicato la questione posta dalla difesa, deve pertanto concludersi che l'epilogo decisorio cui è pervenuta la Corte territoriale, che pure si è genericamente rifatta ad un orientamento giurisprudenziale che si è appena ritenuto non condivisibile, è comunque in definitiva corretto.
Nel caso di specie, infatti, il delitto di cui all'art. 648 ter c.p. risulta configurabile per il solo fatto che l'imputato, a prescindere dalla volontà di ostacolare l'identificazione della provenienza degli stessi, ha impiegato in una attività economico-finanziaria i cavalli provento del reato di riciclaggio commesso da *.
4. Il rigetto del ricorso comporta ai sensi dell'art. 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 18 febbraio 2021.
Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2021.