La chiusura della liquidazione giudiziale nel Codice della crisi
Pubblicato il 23/11/21 13:28 [Articolo 1572]






Sommario[1]: 1. Premesse.- 2. La cessazione della liquidazione giudiziale.- 3. Effetti fiscali della chiusura della procedura.- 4. La chiusura della liquidazione giudiziale in presenza di contenziosi pendenti.- 5. Effetti fiscali della chiusura in pendenza di giudizi.- 6. La riapertura della liquidazione giudiziale.- 7. Effetti fiscali della riapertura della procedura.





1. Il Codice della crisi e dell'insolvenza entrerà in vigore il prossimo 16 maggio 2022, per effetto del rinvio operato dal D.L. n. 118/2021, convertito in L. n. 147/2021, a seguito di quanto elaborato dalla "Commissione Pagni" costituita in seno al Ministero della Giustizia.

Peraltro, sin dal marzo 2019 è entrata in vigore la parte del Codice della crisi relativa ai doveri in capo all'imprenditore di adeguata organizzazione ex art. 2086 c.c. (dovere di istituire un adeguato assetto anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi, nonché di attivarsi senza indugio per l'adozione di uno degli strumenti volti al superamento della crisi ed al mantenimento della continuità).

Dall'altro lato, la parte del Codice della crisi e dell'insolvenza relativa ai procedimenti di allerta e di composizione assistita della crisi è stata ulteriormente prorogata al 31 dicembre 2023, sempre ad opera del D.L. n. 118/2021, il quale ha introdotto, a far data dal 15 novembre 2021, la nuova fase di "composizione negoziata della crisi".

Quanto premesso, il presente contributo tratterà della chiusura della liquidazione giudiziale, come disciplinata dal Codice della crisi e dell'insolvenza: saranno peraltro effettuati diffusi richiami alla vigente, riformata legge fallimentare laddove la disciplina in tema di chiusura del procedimento concorsuale maggiore differisca da quella prevista dal CCII.



2. È possibile suddividere il procedimento di liquidazione giudiziale in cinque "macro-fasi":

- apertura del procedimento, ex art. 41 CCII;

- funzionamento (organi, gestione, effetti, ex artt. 121-199 CCII);

- accertamento del passivo (artt. 200-210 CCII);

- liquidazione e ripartizione dell'attivo concorsuale (CCII);

- cessazione della liquidazione giudiziale (artt. 233-239 CCII).

La chiusura della procedura è dunque disciplinata dal D.Lgs. n. 14/2019 agli artt. 233-239.

Dispone, l'art. 233, comma 1, CCII che la liquidazione giudiziale si chiude, oltreché in caso di concordato[2], nei seguenti casi:

a) quando nel termine stabilito dal Tribunale nella sentenza di apertura della liquidazione giudiziale non siano state proposte domande di ammissione al passivo;

b) quando, anche prima della ripartizione finale, le distribuzioni dell'attivo abbiano soddisfatto tutti i creditori ammessi e siano stati pagati tutti gli oneri e le spese prededucibili;

c) quando sia stata compiuta la ripartizione finale dell'attivo concorsuale;

d) quando, in corso di procedura, si accerti che la sua prosecuzione non consenta di soddisfare, neppure in parte, i creditori concorsuali, né i creditori prededucibili e le spese di procedura.

Al verificarsi di tali eventi, costituisce un vero e proprio dovere per la curatela attivarsi al fine di dare avvio all'iter di chiusura del procedimento.[3]

L'elencazione prevista dal primo comma dell'art. 233 CCII è da intendersi "tassativa": non si può chiudere la procedura di liquidazione giudiziale se non in presenza di uno dei casi sopra indicati.[4]

Ci soffermiamo sulle singole fattispecie previste dall'art. 233, comma 1, CCII.

Con riferimento al primo caso (mancanza di domande di ammissione al passivo), assume rilevanza il termine indicato dal tribunale in sede di apertura della procedura entro il quale i creditori sono tenuti a presentare le domande di ammissione al passivo (trenta giorni prima dell'adunanza).

Una volta che sia decorso inutilmente tale termine, ogni eventuale successiva domanda - le cd. "tardive" - deve ritenersi inammissibile, non potendo, così, impedire la chiusura della procedura di liquidazione giudiziale.[5]

È sufficiente, peraltro, che vi sia anche una sola domanda di ammissione al passivo "tempestiva".[6]

Si considera integrata la fattispecie in oggetto anche qualora il creditore ovvero i creditori tempestivi rinunzino alla domanda prima della pronunzia del giudice delegato in sede di formazione dello stato passivo.

V'è "mancanza di passivo" anche quando le domande tempestive siano state tutte rigettate dal GD e non sia stata proposta opposizione (il rigetto della domanda tempestiva deve essere definitivo).[7]

Qualora una domanda tardiva sia accolta prima che siano state definitivamente respinte le domande di ammissione tempestive, la procedura deve proseguire.

Se, nel termine indicato in sentenza, non siano state presentate domande di ammissione al passivo in via tempestiva, ma solo domande di rivendica e/o restituzione, la procedura deve essere chiusa.

Con riferimento al secondo caso (soddisfacimento integrale del ceto creditorio), la procedura di liquidazione giudiziale raggiunge appieno il proprio scopo (miglior soddisfacimento creditori).

Tale fattispecie presuppone che si sia concluso il procedimento di accertamento del passivo e che, dunque, sia stata definita ogni opposizione a stato passivo in relazione alle domande tempestive.[8]

Ove i creditori ammessi siano stati soddisfatti, ma risultino pendenti procedimenti d'impugnazione di crediti ammessi e/o di revocazione di domande tempestive, la procedura non può essere chiusa se non dopo la definizione di tali gravami.

Rilevano altresì, ai fini in oggetto, le passività correlate a crediti ammessi al passivo "con riserva".

In questo caso, occorre attendere che si verifichi la circostanza in relazione alla quale la domanda sia stata ammessa al passivo con riserva.

Peraltro, con riferimento ai crediti ammessi: i) in via subordinata al verificarsi di una condizione "sospensiva"; ii) al verificarsi del passaggio in giudicato della sentenza che abbia riconosciuto l'esistenza del credito, è sufficiente che la curatela costituisca un deposito vincolato a favore del creditore ammesso con riserva, purché lo stesso sia idoneo a soddisfare integralmente la relativa passività.

Con riferimento al terzo caso (compiuta ripartizione dell'attivo), occorre che siano integrate tutte e cinque le seguenti circostanze:

- siano stati definiti eventuali procedimenti di opposizione a stato passivo, impugnazione di crediti ammessi, revocazione;

- il progetto di ripartizione finale dell'attivo concorsuale sia stato reso esecutivo dal giudice delegato;

- il progetto di ripartizione medesimo sia divenuto definitivo (eventuali reclami devono essere stati definiti);

- il curatore abbia eseguito i pagamenti previsti nel progetto di ripartizione finale;

- il curatore abbia eseguito la distribuzione degli accantonamenti ivi previsti ex art. 232, comma 2.

Con riferimento all'ultimo caso (inutilità della prosecuzione della procedura), il presupposto è che non sia possibile alcun soddisfacimento in corso di procedura, neanche minimo, a favore del ceto creditorio, sia concorsuale, sia prededucibile.[9]

Ciò implica una valutazione "prognostica" circa le probabilità che siano acquisite risorse funzionali al soddisfacimento dei creditori, anche con riferimento agli esiti delle azioni giudiziarie già intraprese ovvero che potrebbero essere intraprese dalla curatela.

In questo caso - quando cioè la prosecuzione della procedura risulti inutile -, non osta alla chiusura della liquidazione giudiziale la pendenza di procedimenti di opposizione, impugnazione, revocazione di crediti ammessi, così come la pendenza di procedimenti di ammissione al passivo di domande tardive.

Dispone l'art. 233, comma 2, CCII che ove il debitore rivesta la forma giuridica di società di capitali, nei casi in cui: i) non siano state proposte domande di ammissione; ii) le distribuzioni di attivo abbiano soddisfatto tutti i creditori, il curatore deve convocare l'assemblea ordinaria per le deliberazioni necessarie alla ripresa dell'attività ovvero alla sua definitiva cessazione.

Trattasi di una norma "innovativa".

Secondo il Codice della crisi e dell'insolvenza, infatti, l'apertura della liquidazione giudiziale rappresenta una vera e propria causa di scioglimento del vincolo societario.

Al contrario, nella vigente legge fallimentare l'apertura del procedimento non è prevista quale causa di scioglimento della società.

Secondo il ricordato art. 233 CCII, l'assemblea della società deve inoltre deliberare sugli argomenti che le siano sottoposti, con richiesta scritta, da tanti soci che rappresentino almeno il 20% del capitale.

Il curatore procede alla convocazione dell'assemblea prima che il tribunale emetta il decreto di chiusura, quando cioè lo stesso sia ancora munito di legittimazione (che verrebbe a mancare dopo il decreto di chiusura).

La disposizione prevista dal secondo comma dell'art. 233 CCII non precisa, peraltro, cosa accada qualora l'assemblea dei soci non si costituisca ovvero quando la stessa non deliberi sulle sorti della società.

Sul punto, in dottrina, è stato rilevato come "sarebbe stato opportuno prevedere un'automatica procedura di liquidazione [volontaria, N.d.R.] in presenza di beni residui, in deroga all'art. 2487 c.c., nominando un liquidatore, eventualmente in persona del medesimo curatore ovvero, in difetto di beni, la cancellazione della società dal registro delle imprese, immediata o entro un determinato termine, da parte del curatore".[10]

Nei casi di chiusura della liquidazione giudiziale per: i) compiuta ripartizione dell'attivo; ii) inutilità della sua prosecuzione, il curatore chiede la cancellazione della società dal registro delle imprese, salvo che il tribunale non abbia disposto la prosecuzione del procedimento concorsuale in presenza di giudizi pendenti.

In questo caso, la cancellazione della società non potrà essere richiesta se non dopo la conclusione delle controversie pendenti.

Ove il debitore rivesta la forma di società di persone, nei casi di: i) mancata presentazione di domande d'ammissione; ii) integrale soddisfacimento dei creditori, la chiusura della liquidazione giudiziale si estende ai soci illimitatamente responsabili (art. 256 CCII).

Quanto sopra, salvo che nei loro confronti non sia stata aperta un'autonoma procedura di liquidazione giudiziale per avere gli stessi rivestito la qualità di imprenditori individuali.

La chiusura della procedura è dichiarata dal tribunale con decreto motivato, su istanza del curatore, del debitore ovvero d'ufficio (art. 235, comma 1, CCII).

Il decreto di chiusura è pubblicato nelle forme prescritte dall'art. 45 CCII: entro il giorno successivo al deposito in cancelleria, il decreto è trasmesso per estratto a cura del cancelliere al registro delle imprese per la sua iscrizione, da effettuarsi entro il giorno successivo.

L'iscrizione è effettuata presso il registro imprese ove l'imprenditore ha la sede legale; qualora la stessa differisca dalla sede effettiva, il decreto è iscritto anche presso il registro del luogo ove la procedura sia stata aperta.

Avverso il decreto di chiusura ovvero avverso il decreto che respinga la relativa richiesta, è ammesso reclamo ex art. 124 CCII.

Il termine per proporre reclamo è:

- di dieci giorni dalla comunicazione/notificazione per il curatore, il debitore, il comitato dei creditori e chi ne abbia fatto richiesta;

- di dieci giorni dall'esecuzione delle formalità pubblicitarie di legge, per ogni altro soggetto interessato.

In ogni caso, il reclamo non può essere proposto una volta che siano decorsi novanta giorni dal deposito del provvedimento nel fascicolo della procedura.

Il reclamo non sospende l'esecuzione del provvedimento.

Come prevede l'art. 236 CCII, con il decreto di chiusura cessano gli effetti della liquidazione giudiziale:

- sul patrimonio del debitore;

- sulle sue incapacità personali.

In relazione a quest'ultimo punto, è dibattuto se il debitore conservi, con l'apertura della procedura, una legittimazione processuale concorrente con quella del curatore, tanto attiva, quanto passiva, nelle controversie relative a rapporti patrimoniali compresi nel fallimento.

Secondo la Corte di Cassazione, il debitore può intervenirvi solo qualora dagli stessi possa dipendere una fattispecie di bancarotta a proprio carico o quando l'intervento sia previsto dalla legge.[11]

Sotto il profilo tributario, la Suprema Corte ritiene ammissibile che il debitore impugni gli atti impositivi solo nel caso in cui la curatela rimanga immotivatamente inerte rispetto all'atto amministrativo.

Ove, al contrario, la curatela motivi la scelta di non impugnare l'atto impositivo, il ricorso del debitore è inammissibile, così come ove l'atto sia stato ritualmente impugnato dal curatore.[12]

Con la chiusura della liquidazione giudiziale decadono gli organi della procedura (giudice delegato, comitato dei creditori, curatore).

Le azioni esperite dal curatore per l'esercizio di diritti derivanti dalla procedura non possono essere proseguite, fatto salvo quanto previsto dall'art. 234 CCII (chiusura in presenza di contenziosi pendenti).

I creditori riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta in sede di concorso, salvo quanto previsto dall'art. 278 e ss. CCII, in materia di esdebitazione.

Il decreto del giudice delegato o del tribunale, ovvero la sentenza di cassazione con la quale il credito sia stato definitivamente ammesso al passivo, costituisce prova scritta ex art. 634 c.p.c. (procedimento d'ingiunzione).



3. Il periodo che va dall'apertura della procedura sino alla sua chiusura costituisce, ai fini delle imposte dirette (IRES ed IRPEF), un unico periodo fiscale: si tratta del cd. "maxi" periodo concorsuale.

Tale arco temporale costituisce, per tutti i debitori - imprese individuali e società, sia di persone, sia di capitali -, un unico ed inscindibile periodo d'imposta.

E ciò anche quando sia autorizzato l'esercizio provvisorio d'impresa.

Al contrario, ai fini del tributo IRAP, il periodo d'imposta coincide con l'anno solare (ciascun esercizio nel corso del quale sia stata esercitata la autorizzata prosecuzione dell'attività d'impresa).

La determinazione del reddito d'impresa relativo al maxi-periodo concorsuale, quale ne sia la durata, avviene non in base al tradizionale criterio "reddituale" (differenza fra costi e ricavi), bensì in base ad un criterio di natura strettamente "patrimoniale".[13]

Tale criterio è dato dalla differenza tra il cd. "residuo attivo" al momento della chiusura della procedura ed il patrimonio netto esistente alla sua apertura, assunto pari a zero ove negativo.

Il patrimonio netto iniziale rappresenta il primo elemento comparativo: tale aggregato deve risultare dal "bilancio" ex art. 183, comma 1, TUIR.[14]

Detto documento non è un vero e proprio bilancio in senso tecnico-civilistico (art. 2423 e ss. c.c.), bensì una situazione contabile infrannuale, basata sulle scritture contabili del debitore, costituita da stato patrimoniale e conto economico ed avente rilevanza fiscale (valori fiscalmente riconosciuti).

Il residuo attivo finale rappresenta il secondo termine di confronto per la determinazione del risultato d'impresa del maxi-periodo concorsuale.[15]

Tale aggregato presuppone che la procedura abbia integralmente soddisfatto tutti i creditori sociali, tanto prededucibili, quanto concorsuali (sia privilegiati che chirografari).

In relazione agli adempimenti finali seguenti la chiusura della procedura, il curatore presenta la dichiarazione relativa al risultato del maxi-periodo (come sopra determinato, quale differenza fra residuo attivo e patrimonio iniziale), in relazione ai tributi IRPEF ed IRES.

Ove il debitore rivesta la forma di società di capitali, il curatore provvede a versare il tributo IRES dovuto sul reddito del periodo concorsuale.

Ove al contrario il debitore sia costituito da un'impresa individuale ovvero da una società di persone, il curatore non provvede al versamento del tributo IRPEF.

Tale imposta matura infatti, direttamente, in capo alle persone fisiche (debitore ovvero soci illimitatamente responsabili), alla data del 31 dicembre dell'anno di chiusura della procedura.

Il curatore è così tenuto a trasmettere copia della dichiarazione finale al debitore ovvero ai soci illimitatamente responsabili, affinché gli stessi includano il risultato relativo al maxi-periodo concorsuale nelle proprie dichiarazioni relative al periodo di chiusura della procedura.

Ai fini IVA, l'apertura della liquidazione giudiziale non determina alcuna radicale deroga rispetto alla struttura impositiva del tributo (D.P.R. n. 633/1972).[16]

Il curatore presenta la dichiarazione IVA dell'anno solare precedente all'apertura del concorso, sempreché i relativi termini non siano scaduti alla data di apertura della liquidazione giudiziale.

Qualora la dichiarazione IVA relativa all'anno solare ante liquidazione chiuda con un tributo a debito, tale eccedenza rappresenta, per l'Amministrazione finanziaria, un credito concorsuale.

Essa avrà dunque l'onere di presentare la domanda di ammissione al passivo.

Ove tale dichiarazione chiuda con un credito, il curatore avrà cura di applicare l'art. 30 del D.P.R. n. 633/1972, riportando, di massima, l'eccedenza IVA nel periodo d'imposta successivo.

In secondo luogo, il curatore presenta all'Agenzia delle Entrate una "apposita" dichiarazione IVA relativa alle operazioni registrate nella parte dell'anno solare in cui sia intervenuta la sentenza di apertura della procedura (1° gennaio/data apertura procedura).

Anche tale dichiarazione ha la finalità di consentire all'Amministrazione di presentare l'eventuale domanda d'ammissione al passivo in relazione al credito IVA maturato a tale data.

Ove tale dichiarazione chiuda con un credito d'imposta IVA per l'impresa, il curatore non avrà facoltà di chiederne il rimborso: il periodo d'imposta ai fini del tributo IVA è sempre annuale, non essendovi alcuna norma di legge che deroghi a tale cadenza temporale.

È dunque in sede di dichiarazione annuale - relativa, cioè, all'anno solare di apertura del concorso - che il credito IVA correlato alla frazione infrannuale troverà confluenza.[17]

In terzo luogo, il curatore presenterà la dichiarazione IVA relativa alle operazioni registrate nell'anno solare in cui sia stata dichiarata aperta la procedura, così come - successivamente - di ogni anno solare di durata del procedimento di liquidazione giudiziale.

Quanto agli adempimenti di chiusura, in ambito di tributo IVA non esiste alcuna norma che disciplini in modo espresso adempimenti in capo al curatore in relazione a tale fase.

Al pari, non esiste alcuna norma che sancisca che con la chiusura della procedura si determini la "cessazione" del soggetto passivo d'imposta.

Esiste unicamente la norma, di carattere generale. prevista dall'art. 35, comma 3, D.P.R. n. 633/1972: in caso di cessazione dell'attività, il "contribuente" deve darne comunicazione all'Amministrazione finanziaria entro il termine di trenta giorni.

Si ritiene che occorra distinguere fra le singole ipotesi di chiusura della procedura.[18]

Ove la stessa si chiuda per:

- avvenuta liquidazione dell'attivo

- inutilità della prosecuzione della procedura,

sorge l'obbligo per il curatore di procedere alla comunicazione di "cessazione".

Ove, al contrario, la procedura si chiuda:

- per mancanza di domande d'ammissione

- per integrale soddisfacimento dei creditori.

la comunicazione finale deve essere presentata dal debitore tornato in bonis.

Quanto sopra vale anche ai fini della presentazione della dichiarazione finale IVA relativa all'anno di chiusura del procedimento di liquidazione giudiziale.



4. La possibilità che la procedura venga chiusa in presenza di giudizi pendenti è stata introdotta dall'art. 7, comma 1, lett. a), D.L. n. 83/2015, convertito in L. n. 132/2015.

Tale norma è andata a modificare l'art. 118, comma 2, l. fall., prevedendo la chiusura del procedimento fallimentare, in ipotesi di compiuta ripartizione dell'attivo, anche in presenza di "giudizi pendenti".

La finalità di detta disposizione è quella di accelerare i tempi di chiusura delle procedure, evitando, così, una possibile, irragionevole durata del fallimento.[19]

Rispetto ai giudizi pendenti il curatore mantiene la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi del procedimento, ex art. 43 l. fall.

La successiva rinunzia ai giudizi pendenti, così come ogni ipotesi transattiva sono autorizzate dal giudice delegato.

Quanto sopra, in deroga all'art. 35 l. fall., che fissa, ai fini autorizzativi, la competenza del comitato dei creditori (in via suppletiva, opera il GD ex art. 41, comma 4, l. fall.).

L'art. 118, comma 2, l. fall. dispone che le somme necessarie per sostenere gli oneri legati alla gestione dei giudizi pendenti e le somme spettanti per effetto di provvedimenti esecutivi non ancora definitivi, siano "trattenute" dal curatore, ex art. 117, comma 2, l. fall.

Le somme acquisite al definitivo buon esito dei giudizi pendenti e gli accantonamenti risultati eccedenti rispetto alla gestione degli stessi, sono oggetto di ripartizione supplementare secondo le modalità disposte dal tribunale in sede di chiusura - e ciò senza che la procedura debba essere riaperta.

Se per il buon esito dei giudizi pendenti, in conseguenza dei riparti supplementari, venga meno l'impedimento ex art. 142, comma 2, l. fall. (mancato soddisfacimento, neanche minimo, del ceto creditorio), il debitore può chiedere l'esdebitazione nell'anno successivo a quello nel corso del quale sia stata eseguita la ripartizione supplementare.

L'art. 120, comma 5, l. fall. prevede che in caso di chiusura anticipata, ferma la cessazione degli effetti patrimoniali e personali nei confronti del debitore, il giudice delegato ed il curatore restino in carica ai fini dell'applicazione di quanto previsto dalla norma.

In base al quinto comma, intervenuta la chiusura "anticipata", i creditori non possono agire su quanto formi oggetto dei giudizi pendenti (una sorta di vincolo di destinazione ovvero di patrimonio separato).

Il D.L. n. 83/2015 non ha recato alcuna modifica in ordine al secondo comma dell'art. 120 l. fall.

Con la chiusura della procedura, pertanto, non possono essere proseguite le azioni introdotte dal curatore per l'esercizio di diritti derivanti dal fallimento (improcedibilità delle cd. azioni di massa).

Sotto il profilo applicativo, rientrano nell'alveo dei "giudizi pendenti" sia le liti attive - fermo quanto diremo oltre in relazione alle cd. azioni di massa -, sia le liti passive, per quest'ultime dovendosi intendere i procedimenti promossi tanto nei confronti del debitore ante fallimento, quanto nei confronti della curatela.

L'art. 118, comma 2, terzo periodo, l. fall. non fa alcun riferimento agli adempimenti "istruttori" cui sia tenuto il curatore in funzione della chiusura anticipata della procedura.

In mancanza di un'espressa indicazione, il curatore procederà ad individuare i giudizi pendenti e, per ciascuno di essi, relazionerà il GD in ordine a: i) causa petendi; ii) entità della domanda; iii) grado e stato del procedimento; iv) prospettive circa tempi ed i prevedibili esiti.[20]

Il curatore, in caso di valutazione positiva dei presupposti circa la possibilità di chiudere in via anticipata il fallimento, redige il rendiconto finale e, poi, il progetto di ripartizione finale.

L'art. 118, comma 2, terzo periodo, l. fall., nel disporre che il curatore mantenga la legittimazione processuale, non dice alcunché sulle possibili azioni che si rendessero funzionali rispetto a quelle pendenti al momento della chiusura (v infra in relazione a quanto previsto sul punto dal CCII).

Il curatore avrà diritto ad un compenso "supplementare" in funzione delle attività realizzate per effetto della definizione dei giudizi pendenti, come risulterà dai progetti di ripartizione supplementare.[21]

Qualora l'attività post chiusura non porti ad alcuna acquisizione di ulteriore attivo, si ritiene che il curatore non abbia diritto ad alcun ulteriore compenso.

Il legislatore del Codice della crisi, all'art. 234, ha confermato che la chiusura della liquidazione giudiziale in pendenza di controversie sia circoscritta al caso ex art. 233, comma 1, sub lett. c), ovvero, qualora sia stata compiuta la ripartizione finale dell'attivo.

Il primo comma dell'art. 234 CCII dispone che ove sia stata compiuta la ripartizione dell'attivo la chiusura della procedura non è impedita dalla circostanza che siano pendenti "giudizi" ovvero "procedimenti esecutivi".

Il secondo comma prevede - in modo innovativo - che la legittimazione del curatore sussista anche in relazione ai tutti quei procedimenti (anche cautelari e/o esecutivi), strumentali all'attuazione delle decisioni giurisdizionali favorevoli alla liquidazione giudiziale, ove anche instaurati dopo la chiusura della procedura.

In deroga all'art. 132 CCII (autorizzazione da parte del comitato dei creditori), le rinunzie alle liti e le transazioni sono autorizzate dal giudice delegato.

Le somme necessarie per la gestione dei contenziosi pendenti, nonché le disponibilità liquide acquisite dal curatore per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi, ma non ancora passati in giudicato, sono trattenute dal curatore ex art. 232, comma 2, CCII.[22]

Ai sensi dell'art. 234, comma 6 - norma, anch'essa, innovativa -, il tribunale in sede di chiusura impartisce le disposizioni in relazione ai seguenti aspetti:

- deposito rapporti riepilogativi

- supplemento di rendiconto

- riparto supplementare

- rapporto riepilogativo finale.

Il sesto comma dell'art. 234 CCII ha introdotto la seguente, ulteriore norma innovativa.

La chiusura della liquidazione giudiziale in presenza di controversie pendenti non comporta la cancellazione della società dal registro delle imprese, sino alla conclusione dei giudizi in corso ed alla successiva effettuazione dei riparti supplementari.

Una volta che sia stato eseguita l'ultima ripartizione supplementare, e comunque definiti i giudizi e/o i procedimenti pendenti, il curatore chiede al tribunale di archiviare la liquidazione giudiziale.

Il tribunale vi provvede con decreto.

Il curatore procede alla cancellazione della società dal registro delle imprese entro dieci giorni dal deposito del decreto di archiviazione.

La locuzione "giudizi pendenti" utilizzata dal legislatore sia in vigenza della riformata legge fallimentare, sia nell'ambito del Codice della crisi, ha destato dubbi di natura interpretativa.

In particolare, dibattuta è la questione se rientrino fra i "giudizi pendenti" anche le cd. azioni di massa.

L'art. 234, comma 1, CCII fa riferimento ai giudizi rispetto ai quali la curatela mantiene la legittimazione processuale ex art. 143 CCII.

Trattasi delle controversie relative a rapporti giuridici di natura patrimoniale riconducibili al debitore, compresi nella liquidazione giudiziale (il "vecchio" art. 43, comma 1, l. fall.).

Vi rientrano sia le azioni introdotte dal debitore ante procedura, aventi ad oggetto rapporti di natura patrimoniale, in relazione alle quali il curatore subentra ex art. 143, comma 1, CCII.

Sia le azioni che vada ad introdurre la curatela una volta aperto il procedimento, aventi sempre ad oggetto rapporti patrimoniali compresi nella liquidazione giudiziale (azioni non fatte valere dal debitore).

Entrambe le azioni rientrano nelle controversie ex art. 143, comma 1, CCII, non ostando, le stesse, alla chiusura del procedimento.

Diverse sono le azioni di massa.

In mancanza di una definizione di legge, esse prendono forma secondo le caratteristiche distintive tratteggiate - peraltro, caso per caso - dalla giurisprudenza.[23]

Tali azioni, presupponendo una lesione della garanzia patrimoniale ex artt. 2740-2741 c.c., sono esercitate dalla curatela al fine di reintegrare il patrimonio del debitore, nell'interesse dei creditori.[24]

Tali azioni possono attenere a rapporti che derivino, in via diretta, dalla procedura, come nel caso delle controversie i cui presupposti sorgano a seguito del concorso (revocatoria ex art. 166 CCII), ovvero delle controversie in relazione alle quali l'apertura della procedura determini un mutamento funzionale del rapporto giuridico sottostante (contratti pendenti ex art. 172 e ss., CCII).

Le azioni di massa, peraltro, possono riguardare anche controversie che non derivino in via diretta dalla liquidazione giudiziale o che non ne siano immediata conseguenza, come nel caso dell'azione revocatoria ordinaria, delle azioni di nullità e/o annullamento, di simulazione, delle azioni risarcitorie, ivi incluse le azioni di responsabilità nei confronti degli organi sociali della società fallita.

Trattasi, in questo caso, di azioni relative a rapporti giuridici che preesistevano, anche in relazione ai presupposti giuridici, nella sfera patrimoniale del debitore e che si pongono, rispetto all'intervenuta liquidazione giudiziale, in un rapporto di mera occasionalità.

Con riferimento alle azioni di massa, non è ravvisabile alcuna norma che disponga circa la legittimazione "sostitutiva" del curatore (così come previsto dall'art. 143, comma 1, CCII per le azioni aventi ad oggetto rapporti patrimoniali caduti nella procedura).

In questo quadro, se:

- l'art. 234, comma 1, CCII prevede che la chiusura della procedura sia non impedita dalla pendenza di giudizi ex art. 143 CCII, rispetto ai quali il curatore mantiene la legittimazione processuale;

- l'art. 236, comma 2, CCII prevede che con la chiusura della procedura non proseguano le azioni esperite dal curatore per l'esercizio di diritti derivanti dalla liquidazione giudiziale (le azioni di massa),

si dedurrebbe che la curatela, una volta chiusa la procedura, rimanga investita delle sole azioni aventi ad oggetto diritti patrimoniali del debitore compresi nella procedura, e non anche delle azioni di massa.

Peraltro, vista la ratio dell'originario art. 118, comma 2, terzo periodo, l. fall., interpretare in modo restrittivo l'art. 234, comma 1, CCII pare limitare oltremisura la possibilità di realizzare l'intento legislativo.

Il richiamo all'art. 143 CCII operato dall'art. 234, comma 1, CCII dovrebbe così essere interpretato in funzione esclusiva del profilo di legittimazione processuale del curatore, non già al fine di delimitare, in senso sostanziale, il perimetro dei "giudizi" pendenti.

Sotto questa angolatura, pertanto, la chiusura anticipata della procedura concorsuale maggiore si renderebbe possibile anche in presenza di "giudizi" aventi ad oggetto azioni di pertinenza della massa.[25]



5. Il legislatore, nel disciplinare gli effetti della chiusura "anticipata", non ha introdotto alcuna disposizione ad hoc in relazione ai correlati effetti fiscali, e ciò né in sede di riformata legge fallimentare, né in sede di Codice della crisi.

Un primo interrogativo - secondo la normativa vigente - è quello se, ove il debitore sia costituito in forma societaria, la chiusura anticipata della procedura implichi la cancellazione dell'ente dal registro delle imprese, con contestuale "cessazione" della partita IVA.

Ciò in quanto, l'art. 118, comma 2, l. fall. prevede, quale incombenza in capo al curatore, in caso di chiusura per compiuta ripartizione o per inutilità della prosecuzione, la cancellazione della società dal registro imprese.

Cancellazione che implica l'estinzione giuridica dell'ente.[26]

La società, con la cancellazione, viene a perdere ogni legittimazione processuale e sostanziale, anche in relazione ai rapporti giuridici pendenti.

Non può esservi né reviviscenza dell'ente, né riapertura della liquidazione, qualora, dopo la cancellazione della società, emergano nuove attività patrimoniali.

Sotto il profilo tributario, la fase che sorge dopo la chiusura anticipata della procedura ha impatto sia ai fini dei tributi diretti, sia ai fini del tributo IVA.

In relazione ai primi, l'eventuale esito positivo di un determinato contenzioso pendente al momento della chiusura potrebbe portare ad una ripartizione supplementare dell'attivo che consenta l'integrale soddisfacimento delle residue ragioni creditorie del concorso.

Dunque, con un possibile surplus patrimoniale.

Emergerebbe, in questo caso, materia imponibile ex art. 183, comma 2, TUIR.

Il curatore dovrebbe, così, procedere ad integrare la dichiarazione di chiusura ai fini dei tributi diretti presentata ex art. 5, comma 4, D.P.R. n. 322/1998.[27]

Sotto questa prospettiva, la cancellazione della società determinerebbe l'automatica chiusura del codice fiscale - che, per le società iscritte a tale registro, proprio coincide col relativo numero d'iscrizione.

Avendo il codice fiscale la precipua funzione di identificare il soggetto di diritto nei rapporti con l'Amministrazione pubblica, la sua "perdita" sarebbe di obiettivo impedimento al regolare assolvimento dei tributi di legge ex art. 183, comma 2, TUIR.

In relazione al tributo IVA, all'ipotizzato esito favorevole del contenzioso pendente al momento della chiusura anticipata della procedura, potrebbe sorgere in capo alla controparte soccombente l'obbligo di emettere fattura con applicazione del tributo IVA.

Sorgerebbe, automaticamente, in capo alla "procedura" (chiusa), un corrispondente diritto alla detrazione e, dunque, un correlato credito IVA.

Sotto questa angolatura, la cancellazione della società, comportando la chiusura della partiva IVA ex art. 35, commi 3-4, D.P.R. n. 633/1972, vanificherebbe ogni possibilità di utilizzare il credito IVA.

Il quale potrebbe essere ceduto e/o assegnato dalla curatela in caso d'incapienza dell'attivo residuo o essere trasferito al debitore tornato in bonis, in caso di pagamento integrale dei residui creditori concorsuali.

La chiusura della partita IVA determinerebbe così, nel primo caso, un danno alle ragioni creditorie, nel secondo caso, un danno all'imprenditore tornato in bonis.

Per quanto sopra detto, la soluzione più plausibile sia che la curatela, debitamente autorizzata dal tribunale in sede di chiusura "anticipata" della procedura, non richieda la cancellazione della società dal competente registro delle imprese.[28]

La mancata cancellazione consentirebbe:

- da una parte, di mantenere il codice fiscale, e dunque assolvere gli eventuali tributi diretti sul possibile residuo attivo (nonché di versare le ritenute d'acconto maturate post chiusura anticipata)

- dall'altra, di non chiudere la partita IVA, che potrebbe essere utilizzata in relazione ad ogni eventuale operazione rilevante ai fini del tributo nella fase successiva alla chiusura della procedura.

In questo senso, opportunamente, il Codice della crisi dispone, all'art. 234, che la chiusura della liquidazione giudiziale in presenza di controversie pendenti non comporti la cancellazione della società dal registro imprese sino alla conclusione dei giudizi in corso ed all'effettuazione dei riparti supplementari.

Così la curatela potrà mantenere aperti sia il codice fiscale, sia la partita IVA anche dopo la chiusura della procedura in pendenza di procedimenti giudiziari, al fine di assolvere gli adempimenti tributari che maturino dopo la chiusura anticipata della procedura.

E ciò, in ultima analisi, anche al fine di prevenire ogni eventuale conseguenza sotto il profilo della responsabilità del curatore fallimentare in termini sanzionatori.



6. Il tribunale, entro cinque anni dal decreto di chiusura della liquidazione giudiziale, su istanza del debitore ovvero di qualunque creditore, può ordinare che la procedura sia riaperta qualora risulti che nel patrimonio del debitore esistano attività di entità tale da rendere utile un nuovo corso del procedimento (art. 237 CCII).[29]

La riapertura della liquidazione giudiziale non è possibile quando il tribunale abbia pronunziato l'esdebitazione del debitore con riferimento ai casi ex art. 233, comma 1, lett. c-d), CCII, ovvero quando:

- sia stata compiuta la ripartizione finale dell'attivo;

- sia stata accertata l'inutilità della prosecuzione.[30]

In tali casi, la liquidazione giudiziale non può essere riaperta.

Il tribunale, ove accolga l'istanza di riapertura, con sentenza: i) richiama il giudice delegato ed il curatore, ovvero li nomina di nuovo; ii) stabilisce i termini ex art. 49, comma 3, lett. d-e), CCII (deposito documentazione contabile ed adunanza creditori), eventualmente abbreviandoli non oltre la metà.

Peraltro, i creditori già ammessi al passivo possono chiedere la conferma dell'originario provvedimento di ammissione, salvo che non intendano insinuare un credito per ulteriori interessi.

La sentenza di riapertura è pubblicata ex art. 45 CCII ed è reclamabile ex art. 51 CCII.

Il giudice delegato nomina il comitato dei creditori, tenendo conto dei nuovi creditori.

Sono applicabili, per le singole operazioni relative alla gestione della procedura, le stesse norme stabilite dall'art. 137, ultimo comma, CCII.

Una volta riaperta la liquidazione giudiziale, ogni creditore concorre alle nuove ripartizioni in relazione al credito esistente al momento della riapertura, dedotto quanto eventualmente percepito nelle precedenti ripartizioni, salve, in ogni caso, le cause legittime di prelazione (art. 238, comma 1, CCII).

Si applicano alla "nuova" procedura le norme previste dal capo III del titolo V, in materia di accertamento del passivo e diritti dei terzi sui beni compresi nella liquidazione giudiziale (art. 238, comma 2, CCII).

Un tema di rilievo è quello che attiene agli affetti della riapertura della procedura sugli atti pregiudizievoli per i creditori.

Lo tratta l'art. 239 CCII: in caso di riapertura, per le azioni revocatorie relative agli atti del debitore compiuti dopo la chiusura della procedura "originaria", i termini ex artt. 164 ss. CCII, sono computati - a ritroso - dalla data della sentenza di riapertura della liquidazione.

Pertanto:

- sono privi di effetto i pagamenti di crediti non scaduti al momento della dichiarazione di riapertura, se eseguiti dal debitore dopo il deposito della domanda di riapertura o nei due anni anteriori (art. 164, comma 1);

- sono privi di effetto i rimborsi dei finanziamenti dei soci a favore della società, se eseguiti dal debitore dopo il deposito della domanda di riapertura o nell'anno anteriore (art. 164, comma 2);

- sono revocati gli atti a titolo oneroso "sproporzionati" compiuti nell'anno anteriore ovvero nei sei mesi anteriori alla riapertura della procedura, salvo che la controparte non dimostri che non conoscesse lo stato d'insolvenza (art. 166, comma 1);

- sono revocati gli atti a titolo oneroso "normali" compiuti nei sei mesi anteriori alla riapertura della procedura, sempreché il curatore provi che la controparte conoscesse lo stato d'insolvenza (art. 166, comma 2).

Il secondo comma dell'art. 239 CCII prevede, infine, l'inefficacia nei confronti dei creditori degli atti a titolo gratuito e quelli compiuti tra coniugi, parti di un'unione civile tra persone dello stesso sesso ovvero conviventi di fatto, compiuti dopo la chiusura dell'originaria procedura e prima della riapertura.



7. Non vi sono norme che regolino gli aspetti fiscali della riapertura della liquidazione giudiziale.

La riapertura del procedimento trova fondamento nell'emersione di attività preesistenti alla chiusura: non siamo, in altre parole, in presenza di una nuova procedura, ma una "prosecuzione" della preesistente.[31]

Ne consegue che:

- ai fini IVA, dovrà essere "riaperta" l'originaria partita IVA ove la riapertura del procedimento implichi l'esercizio di attività d'impresa, come, ad es., nel caso della necessità di fatturare operazioni già effettuate dal debitore, ma non riscosse, ovvero della cessione di beni rinvenuti sempre di proprietà del medesimo debitore. Al pari, dovranno essere effettuati gli ordinari adempimenti IVA in corso di procedura;

- ai fini II.DD., riteniamo che essendo già stata presentata dal curatore la dichiarazione dei redditi relativa all'originario "maxi-periodo" concorsuale, lo stesso, al momento della chiusura della procedura "riaperta", sia tenuto a presentare una dichiarazione finale integrativa, che copra il periodo che va dalla riapertura del procedimento sino alla sua definitiva chiusura.

[1] Il presente contributo rielabora una relazione tenuta dall'Autore il 19 novembre 2021 presso l'Università degli Studi di Verona, Dipartimento Scienze Giuridiche, nell'ambito del "Master di I livello crisi d'impresa", organizzato con Ordine Avvocati Verona, Ordine Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili Verona, Associazione Concorsualisti e Tribunale di Verona, sul tema: "Cessazione della procedura di liquidazione giudiziale e casi di riapertura. I procedimenti pendenti e l'esdebitazione".



[2] Il presente scritto non tratterà del concordato nella liquidazione giudiziale che pur rappresenta causa di cessazione della procedura concorsuale, ex artt. 240-253 CCII.

[3] Cass., n. 22105/2007; Cass., n. 26927/2006.

[4] L'ordine dell'elenco ex art. 233, comma 1, CCII deve essere rispettato nel senso che, verificatosi, anche con un ordine cronologico, uno dei casi ivi indicati, la procedura deve arrestarsi (A. Didone (a cura di), Le riforme della legge fallimentare, II, Milano, 2016, p. 1297).

[5] G. Lo Cascio (diretto da), Codice commentato del fallimento, III ed., Milano, 2015, p. 1488.

[6] App. Palermo, 26 luglio 1968; App. Roma, 23 dicembre 1960.

[7] M. Ferro (a cura di), La legge fallimentare, III ed., Padova, 2014, p. 1665.

[8] Cass., n. 25624/2007; Cass., n. 8575/1998.

[9] Diverso è il caso di "previsione di insufficiente realizzo" ex art. 209 CCII, il quale - nella prospettiva dell'udienza di formazione del passivo - si applica nel caso in cui l'attivo non sia sufficiente al soddisfacimento d'alcun creditore concorsuale, ferma la necessità che siano integralmente soddisfatti i creditori prededucibili e le spese di procedura.

[10] F. Lamanna, Il nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (III), Milano, 2019, p. 116.

[11] Cass. n. 7448/2012; Cass., n. 14624/2010.

[12] Cass. n. 8132/2018; Cass. n. 16816/2014.

[13] G. Zizzo, Le vicende straordinarie nel reddito d'impresa, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte speciale, Padova, 2012, p. 680 ss.

[14] D. Stevanato, La determinazione del patrimonio netto iniziale ai fini delle imposte sui redditi, in F. Paparella (a cura di), Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, Milano, 2013. p. 103 ss.

[15] M. Mauro, Imposizione fiscale e fallimento, Torino, 2011, p. 206.

[16] M. Basilavecchia-A. Renda, Il regime fiscale del fallimento ai fini IVA, in F. Paparella (a cura di), cit., p. 157.

[17] Risoluzione ministeriale n. 181/E del 12 luglio 1995. In senso conforme, G. Andreani-G. Ferranti-L. Miele-C. Ravazzin, Fiscalità della crisi d'impresa, Milano, 2014, p. 17; contra, Cass., n. 19169/2003; Cass., n. 8642/2009; Cass., n. 19169/2003.

[18] L. Gambi, Erario e fallimento, Padova, 2017, p. 333 ss.

[19] Secondo la Cassazione, la "ragionevole" durata del fallimento è stimata, per quelli di "medie" difficoltà, in cinque anni, termine innalzabile a sette ove la procedura sia particolarmente complessa, come nel caso di rilevante numero di creditori, della peculiarità dello stato di fatto e/o giuridico degli assets da liquidare, della proliferazione di giudizi connessi al concorso ma dallo stesso autonomi (Cass., n. 10233/2015; Cass., n. 24360/2009).



[20] Trib. Arezzo, 29 giugno 2017.

[21] Trib. Bergamo, 14 gennaio 2016.

[22] Tale norma dispone: "nel riparto finale vengono distribuiti anche gli accantonamenti precedentemente fatti. tuttavia, se la condizione non si è ancora verificata ovvero se il provvedimento non è ancora passato in giudicato, la somma è depositata nei modi stabiliti dal giudice delegato, perché, verificatisi gli eventi indicati, possa essere versata ai creditori cui spetta o fatta oggetto di riparto supplementare fra gli altri creditori. gli accantonamenti non impediscono la chiusura della procedura".



[23] Cass., n. 29420/2008; Cass., n. 11763/2006; Cass., n. 17943/2005.

[24] I. Pagni, Le azioni di massa e la sostituzione del curatore ai creditori, in Fallimento, 2007, p. 1037 ss.; R. Battaglia, Le azioni di massa, Torino, 2012, passim; F. De Santis, Le azioni che derivano dal fallimento, in A. Didone (a cura di), Le riforme della legge fallimentare, Milano, 2009, p. 477 ss.

[25] In senso conforme, in giurisprudenza, Trib. Catania, circolare 12 gennaio 2016; Trib. Como, ordine servizio 11 gennaio 2016; Trib. Pistoia, circolare del 18 maggio 2017. Contra, Trib. Firenze, 11 novembre 2016.

[26] Cass., n. 6070/2013.

[27] E. Stasi, Effetti fiscali delle modifiche arrecate dalla L. n. 132/2015 all'art. 118 l. fall., in S. Ambrosini (diretto da), Fallimento, soluzioni negoziate della crisi e disciplina bancaria, Bologna, 2017, p. 959 ss.



[28] In senso conforme, Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, La chiusura del fallimento dopo la riscrittura dell'art. 118 l. fall. Riflessioni e suggerimenti operativi, Documento 6 giugno 2017, p. 23; G. Limitone, La doverosa chiusura del fallimento in pendenza di giudizi, in www.ilcaso.it, 7 giugno 2016.

[29] Tale norma differisce dall'art. 121 l. fall., ai sensi del quale (comma 1) occorre anche che il debitore offra garanzie di pagare almeno il dieci percento ai creditori vecchi e nuovi.

[30] E. Norelli, L'esdebitazione del fallito, in Riv. esecuzione forzosa, 2006, p. 692 ss.

[31] Cass., n. 23032/2007.


















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