Sommario:1. Premessa: Il dictum della Corte e il caso all'esame della medesima - 2.La carenza di legittimazione attiva all'invalidazione dei negozi della società con i terzi- 3. La legittimazione attiva anche dei soci nel caso di azione risarcitoria? La distinzione codicistica e le aperture giurisprudenziali - 4.Conclusioni: una contraddizione incostituzionale?
1. Premessa: Il dictum della Corte e il caso all'esame della medesima. Con ordinanza depositata il 21 ottobre 2021 n. 29325, La Suprema Corte ha ribadito il proprio orientamento, a mente del quale l'interesse del socio al potenziamento ed alla conservazione della consistenza economica dell'ente è tutelabile esclusivamente con strumenti interni, tra cui la possibilità di insorgere contro le deliberazioni invalide, ma "non implica la legittimazione ad agire, nei confronti dei terzi, per far annullare o dichiarare nulli anche i negozi intercorsi fra questi ultimi e la società, potendo tale validità essere contestata solo dalla società"[1].
Sulla base di tale premessa, la carenza di legittimazione, quale condizione dell'azione[2], integra un prius logico, anche nel caso di censura di nullità dell'atto, tanto che, conclude la Corte, vengono meno anche i poteri officiosi del giudice in merito all'accertamento della stessa invalidità, giacché "in difetto di interesse della parte alla pronuncia della nullità, viene di conseguenza meno anche il dovere di rilievo d'ufficio dell'invalidità dell'atto".
Nella fattispecie il socio aveva agito espressamente anche ai sensi dell'art. 2900 c.c. in via surrogatoria, azione che, come tale, qualora ammissibile, consente, in via di eccezione alla previsione dell'art. 81 c.p.c., di agire per far valere nel processo un diritto altrui, purché non si tratti di diritti od azioni, che per loro natura o per disposizione di legge non possono essere esercitati se non dal loro titolare[3].
In risposta alle deduzioni del ricorrente che censurava l'invalidità di un contratto di trasferimento di un asset societario concluso dagli amministratori con una società terza riconducibile agli stessi per un prezzo vile, la Corte ha ribadito che l'unico soggetto legittimato ad invalidare il negozio concluso con il terzo è la società stessa, quale unico titolare del diritto, implicitamente negando ingresso all'azione surrogatoria, il cui carattere eccezionale peraltro non consente interpretazioni estensive[4].
La soluzione della Corte all'apparenza si rivela tranciante con riferimento al soggetto che può censurare l'invalidità dell'atto, tuttavia è bene considerare le previsioni normative e giurisprudenziali inerenti al correlato, ma sia pur diverso, profilo del soggetto legittimato alla richiesta del danno derivante da un comportamento illegittimo del terzo verso la società, al fine di verificare se la legittimazione del socio, nel caso di inadempimento del terzo verso la società, sia del tutto carente.
2. La carenza di legittimazione attiva all'invalidazione dei negozi della società con i terzi. Con la decisione in commento, la Cassazione ribadisce che il socio non può impugnare contratti posti in essere dalla società pur a fronte della censurata invalidità dell'atto (nella fattispecie tacciato di nullità), poiché il suo eventuale interesse in tal senso è solo mediato, potendo far valere i diritti derivanti dalla qualità di partecipante alla compagine societaria, ed in particolare l'interesse alla conservazione del patrimonio sociale, esclusivamente con i rimedi interni che gli derivano dal proprio status, da esercitarsi in seno alla società, in primis quelli discendenti dall'impugnativa delle deliberazioni dell'organo amministrativo[5] e/o di quello assembleare (autorizzanti o comunque) prodromici all'operazione censurata[6].
In tal senso, gli arresti giurisprudenziali della Cassazione, pur non numerosi, sono sostanzialmente conformi, avendo la Suprema Corte già con la sentenza 6544 del 07.05.2002 espressamente escluso la legittimazione del socio, precisando che questi "riceveuna tutela diretta del proprio interesse a preservare il patrimonio sociale limitatamente ai propri rapporti interni con l'ente, mentre, nei rapporti esterni, detta tutela è solo indiretta e mediata, non essendo egli portatore di un interesse autonomo rispetto a quello della società, ma solo riflesso", con la conseguenza che anche l'azione di nullità di un negozio posto in essere da una società può essere esercitata solo dall'ente stesso, e non dal socio[7].
La decisione della Corte parte dall'assunto basilare che i soci non sono "parti" del negozio censurato e come tali hanno un interesse meramente riflesso derivante dagli effetti che un eventuale depauperamento del patrimonio societario potrebbe dispiegare sul valore della loro partecipazione. Con ciò determinandosi la logica implicazione della carenza in capo ai medesimi di legittimazione attiva, a mente dell'art. 81 c.p.c., posto che "nessuno può far valere in nome proprio un diritto altrui".
La conclusione appare discendere sul piano logico dalla stessa partecipazione del socio al contratto sociale, che comporta la susseguente rinuncia da parte del medesimo alla gestione e alla tutela diretta della conservazione del patrimonio sociale[8] nei confronti dei terzi, essendo ciò demandato agli organi sociali deputati[9].
In tale ottica, non è un caso che anche in tema di s.r.l. dove il regime giuridico è modellato sul principio della rilevanza centrale del socio[10], la stessa possibilità di annullare i contratti conclusi dagli amministratori in conflitto di interessi, venga espressamente riservata dall'art. 2475 ter, primo comma, c.c., alla competenza esclusiva della società.
3. La legittimazione attiva anche dei soci nel caso di azione risarcitoria? La distinzione codicistica e le aperture giurisprudenziali.
Se la giurisprudenza attuale è monolitica nel ritenere che il socio sia carente di legittimazione attiva in ordine all'impugnazione dell'atto invalido sottoscritto dalla società, sotto il profilo risarcitorio derivante dal pregiudizio discendente dal vizio dell'atto medesimo, l'individuazione del soggetto legittimato attivo merita delle puntualizzazioni.
La regola aurea è la medesima in tema di impugnazione del negozio concluso con il terzo e discende dalla distinzione summenzionata, secondo cui il danno subito dal socio per un nocumento al patrimonio sociale deve considerarsi comunque indiretto o riflesso, cosicchè "qualora una società di capitali subisca, per effetto dell'illecito commesso da un terzo, un danno, ancorché esso possa incidere negativamente sui diritti attribuiti al socio dalla partecipazione sociale, nonché sulla consistenza di questa, il diritto alrisarcimento compete solo alla società e non anche a ciascuno dei soci"(così SSUU con la sent. 27346 del 2009)[11].
Sulla base di tale principio in un primo tempo, la Suprema Corte con la sentenza 14.2.2012 n. 2087 ha escluso la legittimazione del socio, anche in ordine al risarcimento del danno derivante dall'inadempimento contrattuale del terzo[12]. Anche in tal caso, la conclusione si basa sul presupposto che la partecipazione sociale in una società di capitali costituisce un bene giuridicamente distinto e autonomo rispetto al patrimonio sociale, tanto più che la mancata percezione degli utili e la diminuzione di valore della quota di partecipazione non costituiscono danno diretto del singolo socio, poiché gli utili fanno parte del patrimonio sociale fino alla (eventuale) delibera assembleare di distribuzione e la quota di partecipazione è un bene distinto dal patrimonio sociale (così Cass. 22.3.2012 n. 4548)[13].
Diversamente, è stato osservato, il socio eserciterebbe gli stessi effetti di una "anticipata liquidazione della sua quota sociale"[14], oltre a sussistere il rischio di una duplicazione delle poste risarcitorie[15],cosicchè in definitiva rimane al medesimo il ricorso ai rimedi risarcitori verso gli amministratori, previsti in tema di s.p.a. e di s.r.l., rispettivamente dall'art. 2395 c.c. e 2476, comma 6, c.c.[16].
Tale principio, tuttavia, può dirsi assodato nella misura in cui il presupposto all'origine del ragionamento confermi che "il risarcimento ottenuto della società elimini(a) automaticamente ogni danno per il socio"[17] ed ha subito anche un parziale ridimensionamento normativo con l'introduzione dell'art. 2497 c.c., sia pure in relazione alla specifica ipotesi codicistica[18].
Ed in tale ottica, la Suprema Corte con la sentenza 11.12.2013 n. 27733 ha aperto alla possibilità di richiedere da parte dei soci i danni subiti direttamente dal terzo, nella misura in cui vi sia un danno alla sfera personale e patrimoniale del singolo socio che non costituisca una porzione di quello stesso danno subito dalla (e risarcibile alla) società (come il danno all'immagine, all'onorabilità, ecc. o derivante perdita di opportunità economiche e lavorative o alla riduzione del c.d. merito creditizio)[19].
In tal senso, la Suprema Corte con la sentenza 20.6.2019 n. 16581, ha ribadito il proprio orientamento[20].
4. Conclusioni: una contraddizione incostituzionale?
Allo stato, dunque, la giurisprudenza di merito non ammette alcuna legittimazione attiva del socio nei confronti del terzo tale da consentire di agire per l'invalidazione del negozio giuridico concluso dal medesimo con la società, foss'anche detto negozio viziato da nullità; ciononostante la legittimazione ad agire del socio contro il terzo in caso di illecito perpetrato contro la società per danni diretti subiti utisocius, non esclude possa configurarsi egual legittimazione tesa a richiedere il risarcimento delle medesime voci di danno al terzo anche nel caso di inadempimento contrattuale del medesimo verso la società[21], e ciò suffragando l'interpretazione estensiva degli artt. 2395 e 2476, sesto comma, c.c., di parte della dottrina[22], sia pure sempre nell'alveo della responsabilità aquiliana.
Nihil sub sole novum, verrebbe da dirsi, pur tuttavia esaminandola giurisprudenza formatasi in materia di danni direttamente subiti dal socio o dal terzo e sulla conseguente esperibilità dell'azione risarcitoria ex art.2395 c.c. verso l'amministratore, emerge che la Cassazione ha riconosciuto espressamente (anche in ambito societario)la tutela aquiliana del credito.
In particolare con la sentenza 14.2.2018, n. 3656[23], la Suprema Corte ha ipotizzato che nel caso di un'illegittima operazione di azzeramento e aumento del capitale ex art. 2447 c.c., sia consentito anche al fiduciante delle quote (al pari del fiduciario, formalmente socio)agire ex art.2395 c.c.[24]verso l'amministratore reo della predisposizione della non veritiera rappresentazione patrimoniale, indipendentemente dalle sorti della delibera tacciata di invalidità.
In tale contesto, la Corte arriva a riconoscere al medesimo fiduciante il risarcimento del danno derivante dalla perdita della qualità di socio derivante dall'azzeramento del capitale sociale (essendogli precluso il trasferimento della partecipazione dal fiduciario), e ciò perchè "definitivamente venuto meno il bene partecipazione sociale".
Con la sentenza in parola, la Corte riconosce espressamente che l'azione risarcitoria è esperibile perchè rientra nell'alveo della tutela aquiliana del credito, posto che esiste un dovere di rispetto dell'altrui sfera giuridica che porta a qualificare come "ingiusto", ai sensi dell'art.2043 cod. civ., "il danno arrecato al creditore da un "terzo" che con il suo comportamento doloso o colposo abbia pregiudicato l'adempimento del debitore"[25]:non trovando ciò più ostacolo nel carattere relativo del diritto"[26].
In particolare, la Corte ritiene che tale forma di tutela debba essere riconosciuta nel caso in cui il "fatto del terzo cagiona l'impossibilità definitiva della prestazione da parte del debitore"[27],incidendo sulla cosa dedotta in obbligazione: nel caso di specie la partecipazione sociale (rectius, la possibilità di trasferimento della stessa dal fiduciario al fiduciante).
Ragionando su tale arresto un quesito è d'obbligo: se si ammette che un socio in tutti i casi di danno direttamente subito possa agire ex art. 2395c.c. tanto verso l'amministratore della società quanto verso il terzo[28], può davvero escludersi a priori che i diritti discendenti dallo status di socio (in particolare nel caso in cui vengano definitivamente compromessi per effetto del venir meno della partecipazione sociale) possano risultare direttamente lesi dal fatto del terzo e, come tali, non possano trovare alcuna soddisfazione al difuori dall'ambito endosocietario?
Il quesito, certamente provocatorio alla luce del consolidato orientamento della Cassazione, tuttavia non può lasciare indifferenti, posto che, per usare le parole della Cassazione nella succitata sentenza del 2018[29], "sarebbe logicamente incongruo, oltre che in contrasto con il principio di cui all'art.24 Cost., comma 1, ritenere come causa del difetto di legittimazione proprio quel fatto che l'attore assume essere contra legem e di cui vorrebbe vedere eliminati gli effetti".
NOTE
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[1] La Corte avvalora la conclusione precisando come ciò "si evince dall'obbligo, facente capo all'amministratore, di attivarsi nelle dovute forme per l'eliminazione degli effetti conseguenti all'accertato vizio".
[2] Vedasi da ultimo Cass. 6.12.2018 n. 31574, secondo cui "la legittimazione ad agire o a contraddire (legittimazione attiva o passiva) si ricollega al principio dettato dall'articolo 81 del Cpc secondo il quale nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, e comporta - trattandosi di materia attinente al contraddittorio e mirandosi a prevenire una sentenza inutiliter data - la verifica, anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo (con il solo limite della formazione del giudicato interno sulla questione) e in via preliminare al merito, della coincidenza dell'attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio, sono destinatari degli effetti della pronuncia richiesta".
[3] Così Cass. 30.9.2008 n.24331 in disamina del tenore dell'art. 2900 c.c..
[4] Tanto più che, come ribadito anche di recente dal Tribunale di Roma con la sentenza6.8.2019, n. 16105, "presupposto essenziale per l'esercizio dell'azione surrogatoria è l'esistenza di un credito certo" non soggetto ad accertamento giudiziale. In senso esplicito di diniego all'esercizio dell'azione ex art. 2900 c.c. da parte del socio per conto della società, vedasi Cass.4.4.2003 n. 5323. Esclude la possibilità per il socio di azionare il rimedio surrogatorio anche Cass. 22.3.2001, n. 4075. Nel caso in cui sia già sorto un diritto di credito del socio nei confronti della società ritengono che l'azione ex art. 2900 c.c. sia ammissibile Libertini - Scognamiglio, Illecito del terzo e legittimazione del socio all'azione risarcitoria, in Riv. dir. priv., 2002, 412. Va comunque evidenziato che, in un recente pronunciamento giurisprudenziale (ci si riferisce a Trib. Napoli del 23 luglio 2019) è stato in astratto ammesso l'esercizio, da parte del socio, dell'azione surrogatoria per conto della società, in Le società, fascicolo 11/2020, 1237 e ss.. In ambito societario, sia pure in altra ipotesi, è stato chiarito che la legittimazione del socio della s.r.l. a promuovere l'azione di responsabilità verso l'organo amministrativo ai sensi dell'art. 2476, terzo comma, c.c. pur costituendo una legittimazione straordinaria, riconducibile alla sostituzione processuale ex art. 81 c.p.c., non integra un'ipotesi di azione surrogatoria: così Cass.25.7.2018 n. 19745. Sul punto, in tema di S.p.a., vedasi anche Enriques-Mucciarelli, L'azione sociale di responsabilità da parte delle minoranze, in Il Nuovo Diritto delle Società, Utet, 2007, 861 e ss..
[5] Il caso all'esame della Cassazione riguardava una s.r.l., la cui disciplina, come è noto, non contempla ex professo un'impugnabilità delle decisioni del consiglio di amministrazione; pur tuttavia, è consolidato l'orientamento sull'applicabilità anche a tale species della previsione dell'art. 2388c.c.. In tal senso, la Corte d'Appello di Milano con la sentenza 21.10.2019, ha precisato che la legittimazione all'impugnazione della delibera del CDA spetta non solo agli amministratori dissenzienti, ma a tutti i soci, precisando che "deve ritenersi condivisibile l'orientamento, che è prevalente in dottrina e giurisprudenza, della sindacabilità delle decisioni del consiglio di amministrazione anche nelle società a responsabilità limitata. I componenti del consiglio di amministrazione assenti o dissenzienti possono impugnare le delibere nei modi e nei termini di cui all'art. 2388 c.c., in quanto il mancato rinvio all'art. 2388 cod. civ. rappresenta una lacuna del legislatore, atteso che l'art. 2388 c.c. è espressione di un principio generale di sindacabilità -ad iniziativa degli amministratori assenti o dissenzienti ovvero dei soci -delle decisioni dell'organo amministrativo di società di capitali contrarie alla legge e allo statuto". Vedasi da ultimo anche Tribunale Milano sent.5.3.2020 n. 2025. Altra questione correlata riguarda, inoltre, la necessità di impugnare la delibera del consiglio di amministrazione nel caso di pluralità di amministratori, perché in tale ipotesi non trova applicazione l'art. 1394 c.c., ma l'art. 2391 c.c., con la Cassazione che con la sentenza 28.6.2005 n. 18792,ha precisato che quando "la conclusione del contratto è deliberata dal consiglio di amministrazione ed il conflitto d'interessi si manifesta già nella fase deliberativa, cosicché, trovando applicazione l'art. 2391 c.c., l'annullamento del contratto è possibile solo se sia prima annullata la deliberazione che ne ha deciso la conclusione, previa dimostrazione della malafede del terzo".
[6] Tra i rimedi interni spettanti al socio, oltre all'impugnazione della delibera assembleare invalida, vanno annoverati la richiesta di sospensione della provvisoria esecutorietà della delibera stessa, l'azione di responsabilità degli amministratori, la richiesta di revoca cautelare degli amministratori, la denunzia di gravi irregolarità nella gestione.
[7] Parimenti, la pronuncia della Cass. 15.11.1999, ha circoscritto la sfera d'azione del socio alle sole iniziative "interne" alla società escludendone la legittimazione ad agire contro atti esterni, escludendo espressamente l'invocabilità dell'art. 1421 c.c. .In tal senso vedasi anche Tribunale Brescia 25.3.2003, a mente del quale: "Il socio di una società di capitali o di una società cooperativa non ha un interesse autonomo tale da legittimarlo a far valere la nullità di atti negoziali compiuti dalla società attraverso i suoi organi. L'azione di nullità del contratto stipulato da una società di capitali, anche in ipotesi di nullità per illiceità dell'oggetto, della causa o dei motivi, non spetta al singolo socio, considerato che questi, rispetto al negozio posto in essere dall'ente munito di personalità giuridica, è terzo, non parte, e che inoltre l'eventuale incidenza negativa del contratto stesso si verifica in via diretta sulla società e solo in via mediata sul singolo socio, e quindi non può integrare un suo interesse come terzo a far valere la nullità ai sensi dell'art. 1421 c.c. (salvi restando all'evidenza gli strumenti accordati al socio dall'ordinamento societario per influire sulla vita dell'ente od insorgere contro le sue determinazioni)". Sul fatto che il socio, in quanto tale, non sia titolare di un interesse diretto ed immediato alla conservazione della consistenza economica del patrimonio sociale, ma di un interesse di mero fatto che consente l'esercizio dei soli rimedi interni all'organizzazione sociale, precludendo invece l'esperimento di rimedi esterni volti, in particolare, ad ottenere l'accertamento giudiziale della nullità dell'atto dispositivo del patrimonio sociale, vedasi anche Trib. Roma 8.1.2016 e Trib. Milano 11.9.2012. A commento dell'ultima decisione citata, Gaboardi, in Fallimento, 2013, 12, 1484 e ss (Fallimento e nullità del contratto), laddove l'autore espressamente afferma che "la partecipazione del socio al contratto di società, comportando l'attribuzione agli organi societari dell'esclusivo diritto-dovere di perseguire l'interesse sociale (e, quindi, anche l'interesse del socio utisocius), esclude che quest'ultimo possa essere legittimato a far valere l'eventuale nullità del contratto concluso dall'ente". Da ultimo, vedasi Cass. 28.4.2021 n. 11223 secondo cui il principio sarebbe applicabile anche alle società di persone.
[8] Così Iudica, Impugnative contrattuali e pluralità di interessati, Padova, 1973, 124.
[9] Vedasi in tal senso Gaboardi, Fallimento e nullità del contratto, in Fallimento,2013, 12, 1484 a commento di Trib. Milano, 11.9.2012.
[10] Vedasi Demuro, "Distribuzione e spostamento di competenze tra amministratori e soci nella srl", in Giur. Comm. 2005, I, 856, e più di recente, Daccò, La s.r.l. Caratteristiche tipologiche e struttura formale, in Diritto Commerciale, a cura di Cian, Giappichelli, 2020, pag. 668.
[11] E ciò, precisano le SS.UU., "in quanto l'illecito colpisce direttamente la società e il suo patrimonio, obbligando il responsabile al relativo risarcimento, mentre l'incidenza negativa sui diritti del socio, nascenti dalla partecipazione sociale, costituisce soltanto un effetto indiretto di detto pregiudizio e non conseguenza immediata e diretta dell'illecito", discendendo ciò come conseguenza della "personalità giuridica" e della "perfetta autonomia patrimoniale". A commento, vedasi Fotticchia, Osservazioni in tema di illecito del terzo e danno riflesso, in Giur. Comm., 2011, II, 359 e Pinto, illecito del terzo, danno riflesso e legittimazione dell'azionista, in Banca borsa tit. cred., 2011, II,138.A questa categoria di danni appartengono quelli derivanti dalla perdita della redditività e del valore della partecipazione (v. Cass. 27.6 1998, n. 6364) e della possibilità di conseguire gli utili (v. Cass. 22.3.2011, n. 6558), nonché dalla perdita del capitale sociale "che è un bene della società e non dei soci"(v. Cass. 23.6.2010, n. 15220;28.5.2004,n. 10271;7.9.1993n. 9385) e delle potenzialità reddituali della stessa.
[12] A commento vedasi, Carbone, Danni cagionati da un terzo al patrimonio di un s.r.l.: la posizione del socio tra difetto di legittimazione e il c.d. danno indiretto, in Corr. giur., 2002, IV, 499; Capoccetti, Il socio di una società di capitali può essere autonomamente risarcito dei danni cagionati da un terzo al patrimonio sociale, in Giur. it., 2012, XII, 2569.
[13] Vedasi da ultimo anche Cass. 30.5.2019 n. 14778, con nota di Bruno, in Diritto e Giustizia 2019.
[14] Vedasi Bei, Illecito del terzo nei rapporti con la società e legittimazione del socio all'azione risarcitoria, in Rivista di Diritto Societario, Fascicolo2, 2014, laddove l'autore osserva che ciò avverrebbe oltretutto "in violazione
non solo delle regole poste a tutela del patrimonio aziendale ma anche delle regole che presidiano le modalità di liquidazione delle partecipazioni sociali e soprattutto, l'ordine di soddisfazione dei creditori sociali (ordine che, per il caso di liquidazione, vede il socio in ultima posizione)".
[15] Vedasi in senso critico, PINTO, illecito del terzo, danno riflesso e legittimazione dell'azionista, in Banca borsa tit. cred.,2011, II, 138.
[16] La previsione dell'art. 2476, sesto comma, c.c. ricalca quella dell'art. 2395c.c., laddove risulta pacifico che "le due disposizioni disciplinano la stessa azione" (così Carminati, Azione individuale del socio nei confronti dell'amministratore di una società di capitali e risarcimento del danno diretto, in Le Società 4/2015, 439 e ss.)- In tal senso vedasi Franzini, Brevi note in tema di azione di responsabilità del socio e del terzo nella "nuova" s.r.l., in Le Società, 2008, 490.
[17] Così Cass. 14.2.2012, n.2087, in motivazione.
[18] Riferita alle responsabilità delle società che esercitano attività di direzione e coordinamento di società verso i soci di queste ultime.
[19] Vedasi Musardo, Sulla destinazione alla società del risarcimento del danno riflesso, in Giurisprudenza Commerciale 2015, 1, II, 98; De Campo, Condotte illecite del terzo: i confini della tutela riconosciuta ai singoli soci, in Soc., 2014, VI, 653; Fuoco, La risarcibilità dei danni "direttamente" arrecati da un terzo ai soci di una società di capitali. Sulla individuazione dei danni diretti, in Corr. giur., 2014, XI, 1376.
[20] Vedasi a commento nota di Sessa, in Giustiziacivile.com del26.6.2020.L'autore, rileva come la distinzione tra danni diretti e riflessi è stata oggetto di particolare approfondimento in materia di responsabilità degli amministratori exart. 2395 c.c., laddove "è possibile, infatti, applicare l'art. 2395 c.c. in via analogica, riconoscendogli una portata precettiva più ampia, e regolare altresì l'ipotesi in cui il pregiudizio al socio sia una conseguenza dell'illecito di un soggetto esterno alla società".
[21] In tal senso sembra porsi anche Trib. Parma, 3.3.2020, n. 184, che pur respingendo nel merito la richiesta risarcitoria, precisa la distinzione tra danni riflessi e diretti anche in seno ad un'ipotesi di inadempimento contrattuale del terzo verso la società.
[22] Sul punto, vedasi Pinto, illecito del terzo, danno riflesso e legittimazione dell'azionista, cit..e Fotticchia, Osservazioni in tema di illecito del terzo e danno riflesso nelle società di capitali, cit.
[23] Dove pure la Corte opera la solita distinzione tra danni diretti del socio e danni indiretti perché incidenti sul patrimonio sociale.
[24] Sul punto vedasi Nieddu Arrica, Azzeramento del capitale per perdite, intestazione fiduciaria di azioni e legittimazione del fiduciante ex art. 2395c.c., in Giur. Comm. Fasc. 4, 2019, 815 e ss., secondo cui "il complessivo impianto della motivazione non consente infatti di escludere la legittimazione all'azione ex art. 2395 c.c., nonché l'interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. in capo al socio estromesso per l'effetto di un'illegittima operazione di azzeramento e aumento del capitale ex art. 2447 c.c., nonostante la relativa delibera sia stata dichiarata nulla (per iniziativa dello stesso azionista o di altri), ove gli amministratori non si siano attivati per il ripristino dello status quo ante o se il socio non abbia più interesse a tale ripristino in conseguenza del fallimento, della liquidazione o della trasformazione eterogenea della società intervenuti nelle more del giudizio". Vedasi a commento anche Bruno, Il fiduciario è il titolare delle azioni sociali, in Diritto & Giustizia, fasc.29, 2018, pag. 8.
[25] Così Cass. 3.12.2002 n.17110.
[26] E ciò precisa la Corte "in considerazione della nozione ampia ormai generalmente accolta di danno ingiusto come comprensivo di qualsiasi lesione dell'interesse che sta alla base di un diritto, in tutta la sua estensione; trova, in tal modo, protezione non solo l'interesse rivolto a soddisfare il diritto (che, nel caso di diritti di credito, è attivabile direttamente nei confronti del debitore della prestazione oggetto del diritto), ma altresì l'interesse alla realizzazione di tutte le condizioni necessarie perchè il soddisfacimento del diritto sia possibile, interesse tutelabile nei confronti di chiunque illecitamente impedisca tale realizzazione" (Cass. 27 luglio1998, n. 7337)".
[27] La sentenza ricorda che "la nozione è stata storicamente riferita proprio ai casi in cui il fatto del terzo cagiona l'impossibilità definitiva della prestazione da parte del debitore, incidendo sulla cosa dedotta in obbligazione, la quale viene distrutta da un soggetto, terzo rispetto al rapporto obbligatorio, rapporto che si estingue a causa del fatto del terzo(sin da Cass. 13 giugno 1978, n. 2938); ad essa si aggiungono i casi, in cui l'impossibilità della prestazione cagionata dalla condotta del terzo sia solo temporanea, onde l'obbligazione non si estingue, oppure i casi di induzione all'inadempimento, pur essi tutelati dall'istituto (cfr. già Cass. 8 gennaio1999, n. 108; 14 luglio 1987, n. 6132; 20 ottobre 1983, n. 6160; sez. un., 24 giugno 1972, n. 2135; sez. un., 24 giugno 1972, n. 1008)".
[28] Sia egli reo di un comportamento illecito o di un inadempimento contrattuale verso la società.
[29] Sia pure ovviamente in altro contesto, riguardante la possibilità di impugnare la deliberazione viziata che ha determinato la perdita della qualifica di socio, pur dopo l'azzeramento del capitale sociale.