Certezze ed incertezze del diritto - Nota a Cass. n. 10105 del 9 maggio 2014 e Trib. Belluno 16 gennaio 2014
Pubblicato il 05/11/14 02:00 [Articolo 841]






§ 1. Il punto della Corte di Cassazione sui trust interni: il programma negoziale

La sentenza della Corte di Cassazione n. 10105 del 9 maggio 2014 è l'ultima di una serie di decisioni di legittimità[1] che si sono occupate dei trust interni[2].

Sebbene la maggior parte di questi precedenti abbia trattato illeciti impieghi del trust, puntualmente censurandoli e privandone di effetti i relativi atti, altre decisioni hanno invece fugato alcuni significativi dubbi: la mancanza di soggettività giuridica del trust[3], la carenza di elusività per il trust che, perseguendo interessi apprezzabili e meritevoli di tutela per l'ordinamento giuridico, faccia anche conseguire risparmi fiscali[4], la necessità di valutare il programma negoziale enunciato dal disponente per giudicare della natura reale o simulata del trust[5].

Un punto è comune denominatore di queste sentenze: la Corte non mette in discussione la legittimità del trust interno rispetto al nostro ordinamento giuridico salvo poi verificarne, caso per caso, la funzione economico individuale perseguita dal disponente.

Fanno da corollario a queste pronunce di legittimità, alcune recenti decisioni di merito[6]che hanno tracciato con chiarezza il percorso che il giudice deve intraprendere per valutare la riconoscibilità di un trust interno, che ha quale punto di partenza la verifica della conformità dell'atto istitutivo, ai requisiti minimi enunciati all'art. 2 della Convenzione[7].

Convenendo con questa impostazione, il giudice di legittimità argomenta dalla Convenzione per ricordare i limiti che essa pone tali per cui non sarà mai possibile, per il trust interno, pedissequamente attuare tutto quello che la legge regolatrice prescelta consentirebbe di fare[8].

Correttamente infatti, laddove il trust producesse effetti legittimi per la sua legge regolatrice, ma incompatibili con il nostro ordinamento, il trust risulterebbe non riconoscibile ai sensi dell'art. 13 della Convenzione. Per meglio dire la Corte, nella prima parte della sua motivazione, indica l'art. 13 come norma di riferimento per la pronuncia di non riconoscibilità, per poi ripiegare successivamente sull'art. 15, ma sul punto torneremo più avanti.

Certo è che la Corte pone grande attenzione al programma negoziale enunciato dal disponente, da valutarsi caso per caso, al fine di rinvenire quell'interesse meritevole di tutela che, solo laddove esistente, potrà giustificare l'applicazione di una legge straniera ad un rapporto squisitamente italiano.

In particolare, ricorda il giudice di legittimità, che non esiste una "causa trust", fattispecie causale del tutto astratta[9], stante la minima struttura di trust rinvenibile all'art. 2 della Convenzione[10].

Ogni trust risulta avere dunque una specifica causa che emerge dal programma negoziale enunciato dal disponente, da intendersi proprio alla luce della moderna lettura che la Cassazione ha dato della causa del negozio giuridico, spostandone l'asse di valutazione alla "funzione economico individuale"[11], in luogo della più datata interpretazione in chiave di funzione economico sociale.

Trattando allora della funzione economico individuale del programma negoziale enunciato dal disponente, al momento della istituzione del trust, grande importanza assumono i motivi strettamente personali che l'hanno indotto a quella scelta, non solo rispetto agli strumenti approntati dal diritto civile, ma proprio come elementi fondanti la sua stessa volontà.

In ragione di ciò, la Corte afferma che: "quale strumento negoziale astratto, il trust può essere piegato, invero al raggiungimento dei più vari scopi pratici, occorre perciò esaminare, al fine di valutarne la liceità, le circostante del caso di specie da cui desumere la causa concreta dell'operazione".

Non è peregrino dunque ritenere che con quest'ultima decisione, la Corte di Cassazione abbia definitivamente sdoganato il trust interno posto che, quando si sofferma all'analisi preliminare da farsi per decretare la validità di uno specifico trust, non richiama alcuna argomentazione diversa dalla ricerca dell'interesse meritevole di tutela.

Tutte le motivazione giuridiche addotte da quella parte della dottrina che, soprattutto fra la fine e l'inizio di questo secolo, si opponeva per massimi sistemi al riconoscimento del trust interno[12] non vengono considerate dal giudice di legittimità.

Non è altresì infondato pensare che la Corte abbia tenuto conto della giurisprudenza di merito costante e uniforme[13] in favore di questo istituto, valorizzando il precedente giurisprudenziale come fonte del diritto[14]. Del resto "assicurare che la legge sostanziale, che ogni giudice è chiamato ad applicare, sia interpretata esattamente ed in modo uniforme su tutto il territorio nazionale" è un principio non solo condiviso dalla dottrina [15] ma anche più volte ribadito dalla Corte di Cassazione.

Ad eccezione infatti del decreto bellunese qui in commento, e del precedente decreto del medesimo foro del 2002[16], e di alcune decisioni isolate[17], la giurisprudenza appare oggi conforme ed attestata in punto alla validità dei trust interni tanto che, ad eccezione del tavolare di Belluno, anche quei fori sopra citati che inizialmente avevano respinto lo strumento, hanno poi radicalmente rivisto le loro posizioni con successive decisioni di segno opposto[18].


§ 2. I nuovi ambiti del trust liquidatorio: interesse meritevole di tutela, irrilevanza della residualità, non applicabilità della sanzione di nullità

Con questa sentenza, finalmente, la Corte ha potuto esprimersi anche sui trust liquidatori, facendo chiarezza rispetto ad un frenetico procedere di alcuni tribunali fallimentari[19] i quali, pur di eliminare gli effetti di sciagurati trust posti in essere al solo fine di sottrarre beni al processo fallimentare, avevano adottato decisioni comprensibili nella pratica, ma errate in punto di diritto.

Una prassi esecrabile aveva infatti fatto ricorso al trust per - esclusivamente - tentare di sottrarre al concorso, imprese in palese stato di insolvenza, adottando sempre il medesimo schema: veniva posta in liquidazione la società insolvente, contestualmente si trasferiva in un trust il poco attivo residuo, il cui scopo apparente dichiarato era quello di liquidarlo per procedere al pagamento dei creditori in regime di par condicio[20], per poi immediatamente dopo cancellare la società dal registro delle imprese e sperare nel decorso dell'anno per evitare il fallimento[21].

Nella pratica, tuttavia, non solo non veniva posta in essere alcuna reale attività di liquidazione dell'attivo, ma lo stesso era proprio, per il tramite del trust, del tutto sottratto alla pretese creditorie. Trovatisi di fronte a questi trust, le curatele fallimentari avevano subito reagito chiedendo la declaratoria di nullità degli atti istitutivi de quibus, prontamente loro concessa.

Dal punto di vista strettamente giuridico, tuttavia, la sanzione della nullità risulta inappropriata come parte della dottrina aveva da tempo evidenziato [22]in quanto delle due l'una: o il trust nasce meritevole di tutela e, se tale, non può poi divenire successivamente nullo per il solo sopravvenuto fallimento, ovvero sin dalla sua venuta ad esistenza, è immeritevole[23].

E non solo questa argomentazione conferma l'inadeguatezza della censura di nullità.

La tutela rimediale offerta dal legislatore, al creditore i cui diritti siano, o possano essere, lesi, risiede unicamente nell'azione revocatoria ex art. 2901 c.c., essendo il negozio in frode ai creditori - mai nullo - ma solo revocabile.

A ciò aggiungasi, quale riflessione di carattere generale, la natura tipica della sanzione di nullità, che ha fonte sempre in una norma specifica che all'evidenza non esiste per la fattispecie in esame.

Apprezzabilmente la Corte fa un ragionamento completamente diverso, liquidando la questione della nullità con una chiara motivazione: "la sanzione di nullità presuppone che l'atto sia stato riconosciuto dal nostro ordinamento; il conflitto con la disciplina concorsuale inderogabile determina invece la stessa inesistenza giuridica del trust nel diritto interno".

In punto al diritto dei trust, e al suo coordinamento con il nostro sistema giuridico, ciò è di importanza sostanziale in quanto pone su piani diversi, come deve essere, la non riconoscibilità del trust illecito, rispetto alle sanzioni previste dalle leggi del foro che eliminano gli effetti prodotti da un trust che risultino contrari a norme interne imperative o di ordine pubblico[24].

E' intuitivo infatti comprendere come possa essere lecito, e quindi riconoscibile, quel trust che esprima un programma meritevole di tutela ma che, tuttavia, risulti ledere i diritti dei legittimari, del coniuge comunista o dei creditori. In questi casi, riconosciuto il trust, lo stesso subirà la sanzione interna espressamente prevista che potrà essere l'azione di riduzione sino a concorrenza della legittima lesa, l'annullamento della disposizione lesiva della comunione fra coniugi[25], l'inefficacia del trasferimento di beni rispetto al creditore ex art. 2901 c.c.

Al contrario, il riconoscimento del trust è un'indagine che deve compiersi a monte, e per prima, e condurrà alla pronuncia di non riconoscibilità tutte le volte in cui saranno riscontrati specifici elementi.

Il primo, certamente, è la mancata conformità del trust ai requisiti minimi di cui all'art. 2 della Convenzione[26]. Il secondo potrebbe ricorrere quando il trust produca un fatto illecito, anche di rilevanza penale per il quale, tuttavia, non sussista una norma penale ad hoc. Il terzo è quello che si trae dal caso di specie: quando il trust sottrae il patrimonio ad un regime di controllo pubblicistico previsto ex lege [27].

La chiave di volta è quindi rappresentata dall'interesse meritevole di tutela in quanto solo partendo da esso, e dalla sua analisi dettagliata, come afferma la Corte, si potrà ravvisarne l'insussistenza ed aprire la strada alla declaratoria di non riconoscibilità.

Sempre in punto al diritto dei trust, un'altra questione di estrema delicatezza è risolta dalla Corte: la residualità che viene richiesta del trust interno per essere riconoscibile.

La motivazione sul punto è indubbiamente dirompente.

Per riassumerne brevemente il significato, sin dai primi atti di trust che timidamente si affacciarono all'inizio dello scorso decennio nelle aule di tribunale, il primo elemento che veniva addotto a sostegno della validità dello strumento era appunto la sua residualità[28], intendono con ciò la necessità di ricorrere al trust per perseguire un fine lecito che con i normali strumenti del diritto civile, non sarebbe stato conseguibile[29].

Fu in particolare il giudice tavolare di Trieste a rammentare l'importanza del principio di residualità del trust, laddove nel lontano 2005 scrisse "….grazie alle prerogative riconosciute al giudice tavolare e di cui sopra si è detto, non ci si potrà limitare ad un apprezzamento in negativo, ma si dovranno altresì "ricostruire sistematicamente gli effetti" del negozio, per verificare se essi siano rapportabili a quelli previsti dall'ordinamento giuridico, e se si perseguano ulteriori obiettivi non altrimenti raggiungibili con gli strumenti ordinari, altrimenti rimanendosi all'interno del fenomeno del negozio misto, del collegamento negoziale, della frantumazione e ricomposizione negoziale di cui si è scritto…"[30].

Da allora, si è sempre ritenuto il requisito della residualità elemento imprescindibile per il trust interno[31], come hanno del resto ribadito anche recenti decisioni di merito[32].

Afferma invece la Corte che, almeno con riferimento ai trust liquidatori leciti: "… potrebbe dirsi lo strumento vietato qualora si esiga che esso, per essere riconosciuto nel nostro ordinamento, assicuri un quid pluris rispetto a quelli già a disposizione dell'autonomia privata nel diritto interno. Non sembra però che l'ordinamento imponga questo limite, alla luce del sistema rinnovato dalle riforme attuate negli ultimi anni che ammettono la gestione concordata delle stesse crisi di impresa".

Due allora le conseguenze che ne derivano, l'una pratica, l'altra scientifica: via libera al trust liquidatorio che, pur nulla apportando di nuovo, rispetto alla liquidazione dell'impresa civilisticamente prevista, risulti lecito e rispettoso degli obblighi che il giudice di legittimità gli pone a carico; ampio spazio alla libera autonomia negoziale che possa esprimersi anche attraverso il trust interno, senza nulla dover offrire in più rispetto agli istituti civilistici, quanto meno in ambiti puramente obbligatori.


§ 3. I requisiti del trust liquidatorio "lecito"

Interessante la via tracciata dalla Corte affinchè possa ritenersi legittimo -anche - il trust liquidatorio.

In primo luogo tale tipologia di trust potrà dirsi lecita tutte le volte in cui l'impresa interessata non versi in stato di insolvenza, cosi confermando ciò che giurisprudenza di merito e dottrina hanno costantemente affermato[33].

In secondo luogo deve sussistere un accordo con i creditori, nessuno escluso, in quanto solo in tal modo potrà riconoscersi la trasparenza e il rispetto dei diritti delle parti tutte coinvolte[34].

La liquidazione deve pertanto esser negoziata con tutti i creditori e concretamente attuata, non potendo certo essere un mero simulacro. In proposito, quando ancora i trust liquidatori non avevano rivelato un lato oscuro, scriveva la dottrina sul possibile impiego del trust alla gestione negoziale della crisi d'impresa, precisando come si dovesse: "separare i diritti segregati dal patrimonio del debitore…. attribuire ad un soggetto professionalizzato la liquidazione di beni di difficile monetizzazione…. garantire la massima trasparenza nell'ambito di suddette operazioni di alienazione dei beni in trust" e quindi modulare lo strumento correttamente parametrandolo "alla natura ed estensione della crisi governata con l'accordo [35].

Ciò non di meno, pur apprezzando la non necessaria ricorrenza del requisito della residualità per la tipologia di trust qui in esame, il trust liquidatorio potrebbe nella realtà presentare comunque una natura residuale più competitiva rispetto alla liquidazione civilistica.

Ciò avverrà tutte le volte in cui la liquidazione del fondo in trust verrà attribuita ad un soggetto terzo, rispetto all'imprenditore, che, se trustee professionale, assicurerà trasparenza di gestione, segregazione del fondo e operazione liquidatorie costantemente monitorate dal guardiano e dai creditori. Prevedere poi nell'ufficio di trustee una persona terza rispetto all'imprenditore, potrà dare maggiore garanzia ai creditori, invogliandoli ad accettare la soluzione alternativa del trust rispetto alla normale liquidazione.

Così facendo, l'accordo concluso fra tutti i soggetti aventi diritto, avverrà in piena esplicazione della loro autonomia negoziale e potrà indurre i creditori persino ad accettare percentuali di soddisfazione del loro credito, anche sensibilmente minori rispetto all'entità dello stesso, laddove in contropartita avranno la certezza della liquidazione trasparente, la loro diretta partecipazione o controllo e la consapevolezza di non dover più affannarsi ad iniziare subito l'esecuzione forzata nel timore che qualcun altro arrivi prima di loro.

Del resto, fra le molteplici censure che i giudici di merito hanno rivolto ai trust liquidatori[36], quella più condivisa traeva origine dalla prassi di far mantenere al disponente un controllo pieno sul trust, nominandolo a seconda dei casi, trustee o del guardiano, insieme all'operare di nascosto e all'insaputa del ceto creditorio.


§ 4. Dalla nullità alla non riconoscibilità del trust "anticoncorsuale": rapporto fra artt. 15 e 13 della Convenzione

La più importante questione che ha risolto la Corte è certamente l'individuazione della sanzione che deve invece colpire il trust anticoncorsuale (come la Corte stessa nomina) ossia la sua non riconoscibilità.

Le ragioni esplicitate per motivare il giudizio di non riconoscibilità sono perfettamente condivisibili e ricorrono tutte le volte in cui il solo fine del trust, posto in essere dall'impresa già insolvente e destinata solo al fallimento, risulti essere "segregare tutti i beni, a scapito delle forme pubblicistiche quali il fallimento, che detta dettagliate procedure e requisiti a tutela dei creditori del disponente". In questi casi, afferma la Corte, tali trust non possono essere tutelati dall'ordinamento in quanto "… sottraendo il patrimonio o l'azienda al suo titolare, ed impedendo una liquidazione vigilata - in quanto rimette per intero la liquidazione dell'attivo alla discrezionalità del trustee - determina l'effetto non accettabile per il nostro ordinamento di sottrarre il patrimonio del debitore ai procedimenti pubblicistici di gestione della crisi dell'impresa e dell'attivo fallimentare della società settlor il patrimonio stesso".

Ciò che invece lascia alcuni dubbi è la norma della Convenzione in forza della quale la Corte invoca la non riconoscibilità, ossia l'art. 15 lett.e) il cui testo esplicita: "La Convenzione non ostacolerà l'applicazione delle disposizioni di legge previste dalle regole di conflitto del foro, allorchè non si possa derogare a dette disposizioni mediante una manifestazione della volontà in particolare nelle seguenti materie…. e) la protezione dei creditori in caso di insolvibilità".

Ritiene infatti il giudice di legittimità che non si possa fare riferimento all'art. 13 della Convenzione[37] in quanto è norma che si rivolgerebbe allo Stato mentre l'art. 15 sarebbe rivolto direttamente al giudice come, sempre a detta della Corte, recita chiaramente il 2° co dell'art. 15 in tema di favor trust[38].

Per altro a questa conclusione la Corte giunge alla fine della sua motivazione, dopo invece aver precisato che non possa parlarsi per i trust anticoncorsuali di nullità, in quanto la nullità presuppone il previo riconoscimento del trust.

Ed allora proprio partendo da questa premessa, che si condivide pienamente, non si comprende però come possa poi la Corte ripiegare sull'art. 15 se non incorrendo, almeno a parere di chi scrive, in una contraddizione

A voler infatti diversamente ragionare, e partendo dalla premessa esplicitata dalla Corte stessa, per la quale la nullità del trust segue sempre il suo avvenuto riconoscimento, risulta all'evidenza di difficile applicazione l'art. 15 della Convenzione.

Al contrario, l'art. 13 certamente si rivolge allo Stato, ma non solo a questi.

La ratio dell'art. 13 risiede nella consapevolezza dimostrata dal legislatore internazionale sui possibili abusi che sarebbero potuti venir ad esistenza, all'interno del foro, grazie alla mera applicazione di una legge straniera ad un rapporto tutto interno.

Ciò l'ha indotto a scrivere l'art. 13 per stabilire che non possa riconoscersi quel trust"i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l'istituto del trust o la categoria del trust in questione".

In tal modo la Convenzione ha conferito al giudice del foro il potere di non riconoscere quello specifico trust che, applicando una legge straniera ad un rapporto tutto regolato da una sola bandiera, di fatto generi abusi di sorta.

Dall'art. 13 derivano allora due possibilità: o lo Stato - legislatore disciplina il trust con norma interna, non potendo certo lo Stato, in quanto tale, altro fare, oppure rimane il potere residuale del giudice che, in assenza di norma interna che regolamenti l'istituto, potrà non riconoscere il trust che produca effetti aberranti. Tale giudizio però, non potrà fondarsi su argomentazioni di mero "capriccio"[39] ma, partendo dal presupposto dell'applicazione della legge straniera ad un rapporto tutto interno, condurrà al non riconoscimento dello specifico trust, tutte le volte in cui l'applicazione della legge straniera al rapporto tutto interno, risulterà il mezzo impiegato per perseguire un fine contrario ai precetti fondanti le leggi del foro.

Il problema se lo pose il Tribunale di Bologna quando, chiamato per la prima volta in Italia ad esprimere un giudizio "per massimi sistemi" sulla validità del trust interno, lo risolse con un'argomentazione in diritto molto convincente. Scrisse infatti nel lontano 2003 il giudice bolognese: "Altro problema (sul quale si tornerà in seguito), differente e logicamente successivo rispetto a quello della determinazione della legge applicabile, riguarda gli esiti del riconoscimento del trust e le preclusioni al riconoscimento o all'efficacia previste dalla stessa Convenzione qualora la scelta del disponente sia "abusiva" e, cioè, quando i suoi effetti determinino, nel Paese con cui il trust presenta i collegamenti più stretti, l'elusione di norme imperative inderogabili con atto negoziale (art. 15) e/o di norme di applicazione necessaria (art. 16) oppure quando gli effetti appaiano in manifesto contrasto con l'ordine pubblico (art. 18) o, infine, in tutti i casi in cui il riconoscimento sia "ripugnante" per l'ordinamento (art. 13). Diverse interpretazioni sono state date all'art. 13. Secondo alcuni autori la disposizione è rivolta esclusivamente ai legislatori degli Stati aderenti e costituisce una clausola di salvaguardia, normalmente inserita nelle convenzioni internazionali, che consente a chi lo desideri di paralizzare, in sede di ratifica, alcuni effetti del testo che ci si appresta a rendere operativo nel proprio ordinamento. Difettando nella legge di ratifica italiana (L. 364/1989) una specifica disposizione che precluda, per volontà del legislatore, il riconoscimento dei trust "interni" ed essendo questi ultimi ricompresi nell'ambito di applicazione della Convenzione de L'Aja, la scelta della legge applicabile operata in tali casi dal settlor potrà essere disattesa esclusivamente per le ragioni espressamente previste dalla normativa uniforme (artt. 15, 16 e 18). Secondo un'altra opinione - che questo Giudice ritiene preferibile e da condividere - la disposizione, come ogni norma di diritto internazionale privato, non può che riguardare lo Stato come soggetto internazionale, il quale, legittimato dalla norma, potrà intervenire (o non farlo) o con un proprio strumento normativo o con le applicazioni concrete della disciplina da parte dei giudici e delle autorità amministrative. Rientra anche nei poteri del giudice, dunque, fare applicazione dell'art. 13; tuttavia, l'utilizzo di detta norma, lungi dall'essere obbligatorio o - al contrario - "capriccioso", potrà avvenire soltanto in maniera conforme alla ratio del legislatore della ratifica e, quindi, anche in ossequio al principio di salvaguardia dell'autonomia privata, al solo fine di evitare il riconoscimento di trust "interni" che siano disciplinati da legge straniera con intenti abusivi e/o fraudolenti. In altri termini, non sarà sufficiente rilevare la presenza di un trust i cui elementi significativi siano più intensamente collegati con lo Stato italiano per disapplicare la legge scelta per la sua disciplina e per la sua costituzione evitando di riconoscerne gli effetti, ma sarà, invece, necessario desumere un intento in frode alla legge, volto, cioè, a creare situazioni in contrasto con l'ordinamento in cui il negozio deve operare. Proprio questa, in definitiva, pare essere l'interpretazione più corretta da dare all'art. 13 della Convenzione: quella di "norma di chiusura" (sul punto, oltre al prevalente orientamento dottrinale, Tribunale di Bologna, decreto 16/6/2003). Difatti, mentre il Capitolo IV della Convenzione de L'Aja introduce un meccanismo (parallelo a quello previsto dall'art. 3 comma 3° della Convenzione di Roma del 1980) di salvaguardia delle norme inderogabili, di applicazione necessaria o di ordine pubblico della lex fori (artt. 15, 16 e 18) e si muove nel campo degli effetti conseguenti al riconoscimento, l'art. 13 si pone sul diverso piano del riconoscimento stesso del trust (Capitolo II della Convenzione) quale fenomeno di applicazione di una legge straniera. In sostanza, mentre gli artt. 15, 16 e 18 non frappongono in linea di principio alcun ostacolo al riconoscimento dei trust e si limitano ad escludere la produzione di certi specifici effetti contrastanti con particolari norme interne, l'art. 13 non può essere considerato come strumento volto a garantire l'applicazione della lex fori perché a ciò provvedono già le succitate disposizioni. La disposizione in esame, piuttosto, concerne il riconoscimento stesso dell'istituto e, quindi, il principale fenomeno disciplinato dalla Convenzione; ciò vale soprattutto per i c.d. trust "interni", la cui esistenza e validità dipendono dalla scelta della legge straniera e dal suo riconoscimento. Poiché il trust "interno" non può essere ritenuto invalido ex se per la carenza di elementi di estraneità (si rinvia alle considerazioni sopra svolte a proposito della libertà di scelta della legge regolatrice ex art. 6), né per il suo contrasto con norme inderogabili o di applicazione necessaria o di ordine pubblico (a garanzia delle quali presiedono gli artt. 15, 16, 18, che, però, incidono sugli effetti di un trust già riconosciuto), l'unica possibile e ragionevole soluzione ermeneutica (a meno di non voler dare all'art. 13 un'interpretatio abrogans degli artt. 6 e 11) è quella, appunto, di considerare la disposizione come una "norma di chiusura della Convenzione" (paragonabile all'art. 1344 c.c.), che mira a cogliere le fattispecie che sfuggono alle norme di natura specifica: in altri termini, l'art. 13 costituisce l'estremo ed eccezionale rimedio apprestato per i casi in cui le modalità e gli scopi di un trust, i cui effetti sfuggono alle previsioni degli artt. 15, 16 e 18, siano comunque valutati dal giudice come ripugnanti ad un ordinamento che non conosca quella particolare figura di trust, ma nel quale tuttavia il negozio esplichi in concreto i suoi effetti. Il percorso logico da seguire è, dunque, il seguente: i trust "interni" sorgono in conseguenza della scelta, da parte del settlor, di una legge regolatrice idonea; la scelta è da ritenersi libera e legittima ex art. 6 della Convenzione; secondo la regola generale di cui all'art. 11, i trust istituiti in conformità alla legge determinata in base al Capitolo II (e, quindi, anche i trust "domestici") devono essere riconosciuti come tali; in forza degli artt. 15, 16 e 18, qualora i trust riconosciuti producano effetti contrastanti con norme inderogabili o di applicazione necessaria della lex fori o con principi di ordine pubblico del foro, l'applicazione della legge straniera dovrà cedere il passo a quella della legge interna; infine, ex art. 13, qualora un trust "interno", regolato da legge straniera, produca effetti ripugnanti per l'ordinamento che non siano colpiti dagli artt. 15, 16 e 18, è possibile negare tout court il riconoscimento (il quale sarebbe, a tali condizioni, inesigibile).

E' dunque chiaramente esplicitata la portata bilaterale dell'art. 13 che, in quanto norma di diritto internazionale privato, si rivolge allo Stato, affinchè il suo legislatore possa decidere liberamente se intervenire con norma ad hoc, ed anche, laddove lo Stato-legislatore non intervenga, in via residuale al giudice, conferendogli quell': "estremo ed eccezionale rimedio apprestato per i casi in cui le modalità e gli scopi di un trust, i cui effetti sfuggono alle previsioni degli artt. 15, 16 e 18, siano comunque valutati dal giudice come ripugnanti ad un ordinamento che non conosca quella particolare figura di trust, ma nel quale tuttavia il negozio esplichi in concreto i suoi effetti."[40]

L'art. 13 è per concludere un rimedio estremo e residuale rispetto all'art. 15 della Convenzione e le due norme, seppur complementari, corrono su binari autonomi; mentre l'art. 15 riconosce al giudice del foro il potere di disapplicare, con lo strumento sanzionatorio interno, il trust che, seppur riconosciuto, risulti violare norme interne di rango pubblicistico o imperative, l'art. 13 conferisce al giudice l'ulteriore potere di eliminare ex tunc quel trust che, non sanzionabile con gli strumenti interni per carenza di norma ad hoc (proprio come nel caso dei trust anticoncorsuali") risulti ripugnante per gli effetti che produce nel foro.

E così argomentando, ben può altresì collocarsi l'art. 15, 2° della Convenzione che impone al giudice di salvaguardare comunque, laddove è possibile, lo scopo del trust ed i fini leciti che il disponente voleva perseguire, mentre alcun favor trust può esprimersi per il "trust ripugnante" che, non riconosciuto dal giudice, risulta giuridicamente inesistente per l'ordinamento interno.

Ne consegue come i trust liquidatori anticoncorsuali non possano ritenersi semplicemente atti in frode ai creditori e quindi revocabili in forza del combinato disposto di cui agli artt. 2901 c.c. e 15 lett. e) della Convenzione, ma atti con effetti ripugnanti per il nostro ordinamento che il giudice nemmeno riconosce ex art. 13.


§ 5. Altre questioni: le sorti del negozio di liquidazione, la clausola di "autodistruzione"

Pacifiche le sorti del negozio di dotazione patrimoniale che acceda ad un atto istitutivo non riconosciuto dal giudice del foro. Afferma infatti la Corte che quest'ultimo, in quanto causalmente collegato al primo, risulterà inevitabilmente nullo ex art. 1418, 2° co, tutte le volte in cui l'atto istitutivo risulterà non riconoscibile per l'ordinamento giuridico italiano. La nullità dell'atto di dotazione è intuitiva in quanto, per effetto della dichiarata inesistenza dell'atto principale, quello che gli è subordinato, risulterà privo di causa e come tale, questa volta sì, ex lege, irreversibilmente nullo.

Parte della giurisprudenza di merito poi aveva ritenuto che non fosse nullo quel trust liquidatorio che avesse previsto la sua automatica cessazione (da qui, il termine "autodistruzione") in caso di sopravvenuto fallimento[41].

Oggi la Corte elimina la necessità di questo requisito, ritenendolo del tutto ininfluente posto che, la declaratoria di non riconoscibilità del trust, rendendo l'atto istitutivo giuridicamente inesistente, produrrà comunque la diretta apprensione dei beni da parte della curatela fallimentare, sussista o meno tale clausola.


§ 6. Il confronto con il decreto tavolare del Tribunale di Belluno 16 gennaio 2014

La sentenza di legittimità commentata si inserisce quindi nel solco della giurisprudenza di legittimità e merito che l'hanno preceduta, per tracciare il legittimo percorso dei trust interni che si è chiamati a rispettare e, entro il quale, si consegue la certezza che un trust meritevole di tutela potrà essere riconosciuto, spiegare i suoi legittimi effetti e dunque, assicurare il rispetto dei diritti manifestati il disponente con la sua istituzione.

Una brusca, quanto incerta deviazione, proviene dal decreto tavolare bellunese del 16 gennaio 2014.

Le argomentazione in diritto esplicitate in questo decreto sono state tutte ampiamente risolte e superate dalle - ormai oltre 200 - decisioni di merito[42] che hanno seguito la prima pronuncia del tribunale bellunese del 2002[43], fra le quali tutti i giudici tavolari che pacificamente oggi ordinano la trascrizione sul libro fondiario della proprietà acquisita dal trustee per diversi scopi e finalità. Non solo, ma come esplicitato all'inizio di questo commento, prima della sentenza n. 10105 del 9 maggio 2014, la Corte di legittimità si era già pronunciata sul trust interno.

Non rientra quindi fra i temi trattati da questo commento la replica alle motivazioni giuridiche addotte dal tribunale bellunese, rinviando alla giurisprudenza citata e, soprattutto, alla prassi attuale espressione dell'evoluzione dei rapporti economico-sociali di cui una comunità è portatrice, esprimendo concrete esigenze e legittime istanze che proprio il diritto, e i suoi operatori, hanno il dovere di recepire e tutelare[44].

Certo è che se il trust interno non fosse stato sentito come strumento necessario per soddisfare particolare esigenze portate dalla comunità sociale, la sua diffusione, anche su impulso di giudici tutelari o curatele fallimentari, non sarebbe stata dell'entità oggi raggiunta.

La riflessione che qui si vuole condividere è dunque di natura diversa.

La premessa è che qualsiasi tesi giuridica, ed a maggior ragione decisione giurisdizionale, è meritevole di apprezzamento e considerazione a prescindere dalla conclusione a cui porta.

Tuttavia, proprio perché ha effetti che si riverberano sulla collettività, esprime un valore sociale e giuridico che la deve rendere in grado di far acquisire, a chi la legga, una chiara rappresentazione della questione nei suoi esatti contorni, per trarne un precedente che si fondi su una oggettiva rappresentazione della realtà.

Solo con una chiara rappresentazione della realtà, si può infatti decidere, e la decisione è strettamente personale, in quale ambito e sfera giuridica collocare il provvedimento esaminato, la sua rilevanza rispetto all'ordinamento giuridico, e farsene una concreta opinione a riguardo.

La decisione è quindi da intendersi anche come strumento di portata generale per l'operatore del diritto e per il cittadino, per trarne un riferimento completo, preciso e chiaro.

In altri termini, e per concludere, nulla sarebbe da obiettare a questa decisione tavolare se, dopo aver correttamente rappresentato lo stato della giurisprudenza ad oggi esistente sui trust interni, si fosse poi ad essa distaccata, motivandone le ragioni.

Così però non può dirsi sia avvenuto e questo è il suo primo punto debole e fortemente censurabile

Se una qualsiasi persona non particolarmente conoscitrice dei trust interni, leggesse il decreto del Tribunale di Belluno 16 gennaio 2014, ne trarrebbe una rappresentazione non coerente con la realtà e sarebbe indotta a non ricorrere allo strumento, avvertendo chiaramente gravi margini di incertezza rispetto all'ordinamento interno.

Si legge infatti nel provvedimento de quo che: "a fronte dei provvedimenti giurisprudenziali richiamati dal reclamante a sostegno della propria tesi, le questioni esaminate non possono considerarsi pacificamente risolte, in assenza sul punto, di una decisione della giurisprudenza di legittimità, essendo numerosi i provvedimenti che hanno escluso l'ammissibilità del trust interno (v. Trib. Santa Maria Capua Vetere 5 marzo 1999 e 25 marzo 1999; Trib. Napoli 1 ottobre 2003; Appello Napoli 27 maggio 2004; Tribunale Velletri 29 luglio 2005 oltre al già menzionato provvedimento del Tribunale di Belluno 25 settembre 2005" .

All'inizio di questo commento, abbiamo precisato quali fossero le decisioni di legittimità precedenti la sentenza 10105 del 9 maggio 2014, che hanno preceduto temporalmente anche il decreto bellunese[45].

Contrariamente dunque a quanto si legge, la Corte di Cassazione già si era pronunciata sul trust interno prima del gennaio 2014.

Di ciò il tribunale avrebbe dovuto darne conto, soprattutto allorquando ve ne sono alcune che, chiarendo la natura giuridica del trust, come privo di soggettività giuridica[46], o la sua legittimità, salvo verificarne caso per caso l'interesse meritevole di tutela[47], ne confermano per principi generali la compatibilità con l'ordinamento interno.

Lascia poi ancora più perplessi la giurisprudenza di merito citata nel decreto tavolare, dalla quale il Tribunale verrebbero trarre ragioni a conforto della sua tesi rigetto della domanda tavolare, rappresentata dai soli 6 provvedimenti sopra citati.

Dimentica però il giudice tavolare di dire che tutti quei tribunali contrari tra la fine degli anni 90 e i primi anni di questo secolo, hanno poi rivisto le loro posizioni, tanto che oggi quegli stessi fori trascrivono nei pubblici registri il diritto di proprietà del trustee senza nulla opporre[48]. Altresì avrebbe dovuto dare atto della diversa posizione assunta all'unanimità dai tutti i giudici tavolari italiani, nessuno escluso, i quali intavolano da anni in favore del trustee sul libro fondiario[49], nonostante la posizione espressa dal tribunale bellunese nel 2002.

Ma non è tutto perché anche il conservatore del registro delle imprese al quale è soggetto il comune di Cortina d'Ampezzo trascrive sul pubblico registro la proprietà della partecipazione sociateria acquisita dal trustee come chiunque potrà agevolmente verificare

Anche di queste decisioni il giudice tavolare avrebbe dovuto dar conto.

E forse, per finire, il giudice avrebbe dovuto - anche solo - dare atto che il trust interno oggi, non nasce solo nella prassi professionale, ma anche nelle aule giudiziarie su istanze di curatori fallimentari, commissari giudiziali, tutori di interdetti, amministratori di sostegno che ne fanno richiesta ai relativi giudici i quali, per contro, puntualmente lo autorizzano senza contare la numeora produzione dell'Agenzia delle Entrate, i provvedimenti in tema del Ministero dei Beni Culturali e recentemente anche il Ministero delle Infrastrutture[50].

Se questa è dunque è la prima censura che può ascriversi alla decisione in commento, altra ne ricorre, persino più delicata.

Più volte è stato citato il precedente del Tribunale di Belluno del 22 settembre 2002, giudizio tavolare di II grado, a firma del medesimo estensore di questo provvedimento; il caso di specie da cui trasse spunto è emblematico e occorre illustrarlo.

Tizio istituì nel 2002 un trust di famiglia dove fece confluire un importante patrimonio formato da più immobili: fra questi uno era situato a San Vito di Cadore, l'altro a Cortina d'Ampezzo. San Vito, sempre nel bellunese, è soggetto al regime della trascrizione su base personale vigente in tutta Italia, tranne che nei territori del Nord Est, Cortina, invece, al regime tavolare.

La trascrizione tavolare ha efficacia costitutiva del diritto ed è rimessa all'autorità giudiziaria, in sede di volontaria giurisdizione la quale, ricevuta l'istanza di intavolazione del notaio rogante, se non ravvisa ragioni ostative di diritto o in fatto, autorizza l'annotazione sul libro fondiario. Solo con l'annotazione, dunque, la proprietà del bene immobile passa dal cedente, al cessionario.

Il Conservatore di San Vito, serenamente trascrisse nel 2002 in favore del trustee, contro il disponente mentre, al contrario, il giudice tavolare di Cortina si rifiutò e il decreto tavolare del 22 settembre 2002 confermò in II grado il rigetto.

Tizio ha dunque oggi un immobile in trust ed uno fuori e non può fare nulla perché il decreto tavolare di secondo grado non è purtroppo impugnabile in Cassazione.

Nella medesima situazione si trovano oggi il disponente e il trustee, la cui richiesta di intavolazione è stata rigettata con questo provvedimento del gennaio 2014, con la differenza che costoro oggi sono le sole persone in tutta Italia che si vedono negato tale diritto.

Rammentando infine che se l'immobile ampezzano del disponente in questione non fosse stato di sua personale proprietà ed invece avesse fatto parte del patrimonio di una società la cui partecipazione fosse stata di proprietà del disponente, col che oggetto del trasferimento fosse stata tale partecipazione, il conservatore del locale registro delle imprese avrebbe pacificamente iscritto la quota a nome del trustee

Non è forse incostituzionale questo?

Ma non è tutto.

La grave lacuna di questo decreto è aver del tutto dimenticato la legge italiana di ratifica della Convenzione che, anche a voler ammettere che non consenta il trust interno, comunque impone al giudice il rispetto del 2° co dell'art. 15 che recita: "Qualora le disposizioni del precedente paragrafo siano di ostacolo al riconoscimento del trust, il giudice cercherà di realizzare gli obiettivi del trust con altri mezzi giuridici".

Ad un recentissimo convegno, un autorevole studioso ha evidenziato la grande importanza e portata di questo secondo comma che appresta una tutela rimediale che travalica persino il trust, obbligando il giudice, per altro a ciò tenuto anche dai nostri precetti interni di conservazione del negozio giuridico, a salvaguardare comunque la volontà espressa dal disponente, con i mezzi giuridici a sua disposizione[51].

E proprio la portata di questa norma non fu dimentica dal Tribunale di Velletri quando, contestando il trust interno, ne preservò comunque gli effetti dichiarando che nel caso di specie si trattava di contratto a favore di terzo[52].

Di ciò non vi è traccia nel decreto bellunese.

Al contrario, un primo spunto sarebbe venuto dalla moderna lettura del contratto di affidamento fiduciario, le cui norme costitutive si ravvisano nello stesso codice civile, come ha sostenuto recentemente autorevole dottrina, prontamente confermata dalla giurisprudenza di merito[53].

Un secondo spunto, a tutto voler concedere, vi sarebbe stato nell'art. 2645 ter c.c. se non fosse che, con altro provvedimento - parimenti dubbioso - del tavolare ampezzano di primo grado[54], questo giudice ha ritenuto che detta norma abbia "limitato ambito di applicazione… destinata alla costituzione di patrimoni destinati alla tutela di interessi riferibili al settore sociale nelle sue varie applicazioni (ricerca scientifica, cura di persone disabili, tutela e promozione della cultura dell'ambiente e simili)"

All'evidenza così certo non è, bastando leggere l'art. 2645 ter c.c. ma tuttavia, ed ancora, se anche questa norma si ritenesse non applicabile, non certamente perché si riferisce solo a persone a disabili, ma più legittimamente, ad esempio, per carenza di forma dell'atto (posto che tale articolo richiede l'atto pubblico) rimarrebbe la strada del contratto a favore di terzo, già indicata dal citato tribunale di Velletri[55].

Nulla di tutto ciò.

Evidentemente le ragioni propulsive del fine perseguito dal tribunale bellunese: delegittimare il trust interno hanno fatto dimenticare le buone ragioni ed i diritti che andavano invece adeguatamente preservati.

Con buona pace della certezza del diritto e dell'art. 2907 c.c.










[1] Cass. 18 dicembre 2004 n.48708, in www.il-trust-in-italia.it; Cass. 13 giugno 2008 in T&AF, 2008, 522; Cass. 30 marzo 2011 n.13276 in T&AF 2011, 408; Cass. Sez. V penale 30 marzo 2011 in www.il-trust-in-italia.it; Cass. 22 dicembre 2011 n. 28363, in T&AF 2013, 280; Cass, Sez. Un. 15 marzo 2012 n. 4132 in tema di giurisdizione del giudice italiano, in T&AF, 2013, 522; Cass. 28 giugno 2012, in T&AF, 2013, 45; Cass.19 novembre 2012 n. 20254: in T&AF, 2013, 279; Cass. Pen. 5 giugno 2013, in T&AF, 2013, 621; Cass. 16 settembre 2013 n. 37848 in tema di trattamento tributario della posizione beneficiaria, in T&AF, 2014, 174; Cass. 8 ottobre 2013 n. 41670, in T&AF, 2005, 60.
[2] Con "trust interno" si intende la tipologia di trust qui in esame ed in generale il trust i cui elementi costitutivi tutti (cittadinanza e residenza del disponente e dei beneficiari, luogo ove si trovano i beni in trust, luogo ove la finalità o lo scopo del trust devono essere attuati) rimandano al territorio dello Stato italiano ad eccezione della legge applicabile al trust specifico che, in ragione della mancanza di legge italiana sul trust, non può che essere una legge straniera. Così M.LUPOI in Trusts, Milano, 2001, 546 e ss
[3] Cass. 22 dicembre 2011 n. 28363 cit. con nota di A.TONELLI
[4] Cass.19 novembre 2012 n. 20254. cit
[5] Cass. 18 dicembre 2004 n.48708 cit.
[6] Trib. Bologna 9 gennaio 2014 e Trib Trieste 22 gennaio 2014 in questa rivista con nota di A.TONELLI e nello stesso senso v. anche Trib. Bologna 26 marzo 2014 www.il-trust-in-italia.it e Tribunale di Reggio Emilia 14 marzo 2011 in T&AF, 2011, 630 e in questa rivista
[7] Ci riferiamo alla Convenzione sulla legge applicabile ai trust ed al loro riconoscimento, adottata a L'Aja il 1° luglio 1985 ed integralmente ratificata e resa esecutiva dalla Stato italiano con L. 16 ottobre 1989 n. 364 entrata in vigore il 1° gennaio 1992
[8] In questo senso si era chiaramente espresso il giudice triestino nel decreto 22 gennaio 2014 cit. Analoghe parole sono state spese da M. LUPOI, all'incontro di studi tenutosi in Ravenna il 10 ottobre 2014, Il trust e le sue concrete applicazioni, per i cui atti vd. www.fondazioneforenseravennate.it
[9] In questo senso si era già espresso il Trib. Belluno 22 settembre 2002, a firma del medesimo estensore del provvedimento bellunese qui citato, in T&AF, 2003, 255.
[10] Fin dai suoi primi scritti, M. LUPOI, definì lo schema di trust enunciato dall'art. 2 della Convenzione come "trust amorfo" in quanto privo degli elementi fondanti la fattiscpecie, su tutti, l'obbligazione fiduciaria che lega fra loro i beneficiari, al trustee e al programma negoziale alla cui esecuzione il trustee è "fiduciariamente preposto".
[11] Fra le più recenti, Cass. 20 marzo 2012 n. 4372 in Giudice di Pace, 2012, 4, 303 con nota di PALMERI; Cass. Sez. III, 08/05/2006, n. 10490 in Corriere Giur., 2006, 12, 1718 nota di ROLFI. La Cass. SS. UU. 11 novembre 2008, n. 26972, in Danno resp. 2009, 4 ss., intervenuta in tema di danno esistenziale e, richiamando il concetto della causa concreta, aveva stabilito come fosse risarcibile anche il danno non patrimoniale derivante da fatti che avevano leso interessi di natura non patrimoniale ex art. 1174 c.c. Detti interessi avrebbero potuto, secondo le Sezioni Unite, essere rinvenuti proprio cercando la causa concreta posta a base del negozio di specie. In dottr. F. GALGANO, Il contratto, Padova 2007, 143 ss; SACCO, Il contratto, Torino 2004, 792 ss.; ROPPO, Op cit., 369 ss.. Non a caso però, proprio il concetto della funzione economico individuale della causa si trae dall'esperienza giuridica dei paesi di common law, che tratta la questione facendo riferimento alla cd. consideration del contract, e fra per i primi scritti in tema, vd. GORLA, Il contratto, I, Milano 1955.
[12] Ci si riferisce alla nota discussione che ha visto quali attori principali, pro trust interni, M. LUPOI e A. GAMBARO, e contra, dall'altro F. GAZZONI, C. CASTRONOVO, G. BROGGINI in cui scritti in ordine cronologico sono stati: M. LUPOI, Lettera ad un notaio curioso di trust, in Riv. Not, 1998, 343 e ss; C. CASTRONOVO, Il trust e "sostiene Lupoi",in Europa e dir. Priv., 1998, I, 441; G. BROGGINI, Trust e fiducia nel diritto internazionale privato, in Europa e dir.priv., 1999,I,399; F. GAZZONI, Tentativo dell'impossibile (osservazioni di un giurista non vivente su trust e trascrizione), in Riv. Not., 2001,1, 11; M. LUPOI, Lettera ad un notaio conoscitore dei trust, in Riv. Not., 2001, 5, 1159; F. GAZZONI, In Italia tutto è permesso anche quello che è vietato,(lettera aperta a Maurizio Lupoi sul trust ed altre bagatelle), in Riv. Not., 2001, 5, 1247; A. GAMBARO, Notarella in tema di trascrizione degli acquisti immobiliari del trustee ai sensi della XV Convenzione de L'Aja, in Riv. Dir. civ, 2001, 2, 257; F. GAZZONI, Il cammello, il leone, il fanciullo e la trascrizione del trust, in Riv. Not., 2002, 5, 1107; A. GAMBARO, Un argomento a due gobbe in tema di trascrizione del trustee in base alla XV Convenzione de L'Aja, in Riv. dir. civ, 2002, 6, 919; F. GAZZONI, Il cammello la cruna dell'ago e la trascrizione del trust, in Rass. Dir. Civ., 2003, 4, 953. Molteplici le eccezioni avanzate da questa dottrina. Fra esse, le più significative riguardavano la segregazione dei beni in trust rispetto al patrimonio personale del trustee intesa quale effetto minimo richiesto dalla stessa Convenzione sulla legge applicabile ai trust e al loro riconoscimento (artt. 2 e 11). Gli effetti della segregazione sono peculiari, con particolare riguardo all'art. 2740 cc, norma di ordine pubblico con esplicita riserva di legge, tanto che ne è derivato un acceso dibattito, ampiamente riportato nelle riviste giuridiche. La parola fine a questa diatriba è stata posta dalla giurisprudenza italiana formatasi, dopo la prima importante decisione del Tribunale di Bologna 18 aprile 2000 cit. fino ai giorni nostri, con le decisioni riportate in nota precedente. Fra queste, è indubbio che una delle più importanti sia rappresentata dalla nota sentenza del Tribunale di Bologna 1 ottobre 2003 cit. che, in oltre 50 pagine di motivazione, destituisce di fondamento ogni assunto della citata dottrina contraria, evidenziando come non ricorra alcuna violazione del citato art. 2740 cc.
[13] La sussistenza di una giurisprudenza attestata e conforme in relazione ad una specifica fattispecie è un valore che non può essere facilmente disatteso dal giudice e dall'interprete. In dottr. così scriveva INZITARI, Obbligatorietà e persuasività del precedente giudiziario, in Contr. Impr, 1988, 527 e ss
[14] Centinaia le decisioni giurisprudenziali ad oggi esistenti in materia di trust interni: da quelle che ne hanno confermato la legittimità rispetto all'ordinamento giuridico italiano, ai decreti di giudici tutelari di tutta Italia che ne hanno autorizzato l'istituzione in favore di disabili, minori o persone bisognevoli di supporto ed aiuto, ai decreti di giudice delegati che hanno autorizzato il curatore fallimentare ad istituire un trust per la liquidazione di parte dell'attivo fallimentare o che hanno omologato concordati preventivi con programmi di liquidazione attuati anche per il tramite del trust, ai procedimenti di separazione o divorzio che si sono conclusi prevedendo l'istituzione di un trust in favore della famiglia separata. Per una completa rassegna vd. www.il-trust-in-italia.it e T&AF dal 2000
[15] Proto Pisani Lezioni di diritto processuale civile , IV, Napoli, 2002, p. 504. Sulla funzione di nomofilachia e sulla natura della Corte di Cassazione vd Calamandrei, Opere giuridiche a cura di Cappelletti, vol. VI, VII e VIII, Morano, 1976 - 1979
[16] Trib. Belluno 22 settembre 2002 cit.
[17] Tr. Santa Maria Capua Vetere 14 Luglio 1999 in T&AF, 2000, 251 e ss (Rifiuto di iscrizione del trasferimento di quote sociali al trustee; Tr. Belluno decreto 25 Settembre 2002 in T&AF, 2003, 255 e ss; Tr. Napoli 1 Ottobre 2004 in T&AF, 2004, 74 e ss (Trust auto-dichiarato e ambito della Convenzione de L'Aja); C. A. Napoli 27 Maggio 2004 in T&AF, 2004, 570 e ss; Tr. Velletri 20 giugno 2005 in T&AF, 2005, 577.
[18] Oggi infatti si trascrive pacificamente nella Conservatoria dei Pubblici Immobiliari o del Registro di Napoli, Santa Maria Capua Vetere e in tutti le circoscrizioni territoriali dell'Italia del nord-est soggetta al regime tavolare ad eccezione di Belluno.
[19] Ci riferiamo a quella serie di decisioni inizialmente provenienti dal Tribunale di Milano: 22 ottobre 2009, in T&AF, 2010, 77 e ss; 30 giugno 2009 in T&AF, 2010, 80 e ss; 29 ottobre 2010 in T&AF, 2011, 146 e ss; C di Appello di Milano 29 ottobre 2009 in T&AF, 2010, 274 e ss e di Alessandria, 24 novembre 2009 in T&AF, 2010, 171 e ss.
[20] Anche solo questa finalità dimostra la totale illegittimità dei trust in questione. Il regime di par condicio, gravemente penalizzante per il creditore è infatti un'eccezione rispetto al percorso civilisticamente previsto per il pagamento dei creditori e, come tale, il legislatore lo consente solo nell'ambito strettamente pubblicistico del processo fallimentare che assicura il controllo dell'autorità giudiziaria e la liquidazione dell'attivo da parte di un pubblico ufficiale: il curatore. In ambito privatistico, non è certamente possibile per il debitore arrogarsi il diritto di decidere di pagare i suoi creditori in regime di par condicio, dovendo invece seguire le normali regole che ci consegna il codice civile.
[21] Per ostacolare questi trust, iniziò dunque una prassi, il cui primo precedente è del Trib. di Bolzano 23 luglio 2011 in T&AF, 2012, 178, con la quale si ricorse alla cancellazione del provvedimento di cancellazione della società dal registro delle imprese al fine di evitare la decorrenza dell'anno che avrebbe impedito lo spirare del termine che precludeva il fallimento della società cancellata.
[22] Così si erano pronunciati S. BARTOLI, Due sentenze di beni societari costituiti in trust, in Corriere di Merito 2010, 4, 388; T. MANFEROCE, Trust e procedure concorsuali, Relazione tenuta presso il Consiglio Superiore della Magistratura all'incontro di studio sul tema I c.d. Patrimoni di scopo: fondo patrimoniale, patrimonio destinato a uno specifico affare e "trust" tra diritto interno e modelli stranieri Roma 11 - 13 ottobre 2010; M ATZORI, Riflessioni sui trust liquidatori, in Moderni sviluppi dei Trust, Milano, 2011, 549, Quaderni di T&A, n. 11; F. GALLUZZO, "Validità di un trust liquidatorio istituito da una società in stato di decozione", in Corr. Giur., 2010, 527 e ss.; D. GALLETTI, "Il trust e le procedure concorsuali, una convivenza subito difficile", Nota a: Trib. Milano, 16 giugno 2009, in Giur. Comm., 2010 (5.2 2010), p. 895-910
[23] T. MANFEROCE cit.
[24] Così si espresse il Trib. Bologna 16 giugno 2003 quando, fra i primi in Italia, dovette decidere circa la iscrizione di quote societarie a nome del trustee sul registro delle imprese in Notariato, 2001,1, 45, con nota di A.TONELLI
[25] Così fu il caso che diede luogo alla sentenza del Trib. Bologna 1 ottobre 2003 in T&AF, 2004, 62
[26] Come ha stabilito il Trib. Bologna 9 gennaio 2014 cit.
[27] Ad esempio potrebbe risultare non riconoscibile il trust istituito dal genitore del minore, con beni a questo appartenenti, per sottrarne la gestione al controllo del giudice tutelare
[28] Anche nei suoi primi scritti la dottrina più autorevole accendeva una lampada sulla residualità del trust, rispetto ai negozi di diritto civile, sottolineando come la legittimità del primo si sarebbe conseguita tutte le volte in cui il fine perseguito dal disponente, non sarebbe stato perseguibile con i secondi: M LUPOI, Trusts, Milano, 2000, 615; M. DOGLIOTTI A.BRAUN, Il trust nel diritto delle persone e della famiglia, Milano 2003; S.M. CARBONE, La scelta della legge regolatrice, in T&AF, 2000, 3
[29] L'esempio di scuola era la famiglia di fatto che, potendo legittimamente perseguire interessi di protezione patrimoniale a vantaggio dei suoi componenti, come la famiglia legittima, non riusciva a trovare alcuno strumento idoneo nello strumentario civilistico, men che meno nel fondo patrimoniale, ammesso solo per la famiglia che si fondi sul matrimonio. In tema vd. A TONELLI, Trust, famiglia di fatto ed interesse meritevole di tutela, all'incontro di studi Il trust e le sue concrete applicazioni, in www.fondazioneforenseravvenate.it cit.
[30] Trib Trieste 23 settembre 2005 in T&AF, 2006, 83
[31] Unica eccezione in giurisprudenza viene dal Trib. Urbino 11 novembre 2011 in T&AF, 2012, 406 che, rigettando un ricorso cautelare, sostenne che il trust è riconoscibile nel nostro ordinamento in forza della recessività del principio del numero chiuso dei diritti reali e sulla scorta delle altre ipotesi di segregazione patrimoniale conosciute al nostro ordinamento e della progressiva erosione del principio di cui all'art. 2740, comma 2, cod. civ. Ritenne dunque i trust interni libera espressione dell'autonomia negoziale stabilita dall'art. 1322 cod. civ. e, in applicazione di tale principio, affermò il diritto di ricorrere al trust anche in presenza di idoneo strumento civilistico capace di adempiere alla medesima. Ribadì infine l'obbligo per il giudice di valutare la validità di un trust facendo esclusivo riferimento alla causa esplicitata al fine di verificare se fosse diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela
[32] Trib. Bologna 9 gennaio 1024 e Trieste 24 gennaio 2014 citt.
[33] Trib. Napoli 3 marzo 2014 in www.il-trust-in-italia.it; Trib. Bolzano 8 aprile 2014 in T&AF, 2014,49; Trib. Milano 22 ottobre 2009 in T&AF, 2010,77; Trib. Milano 17 luglio 2009 in T&AF, 2010,80. In dottr. P. LICCARDO scrive in proposito: "La meritevolezza e/o liceità del trust dipendono in gran parte dalla meritevolezza e/o liceità del piano e/o dell'accordo di ristrutturazione stipulato o raggiunto, con diversità di approccio interpretativo a seconda della condizione di tipicità, o di parziale tipicità o di atipicità riconosciuta all'accordo medesimo; sono del pari evidenti i riflessi negativi prodotti sull'atto segregativo dalla nullità dell'accordo laddove ad esempio realizzi la dolosa distrazione di beni destinati a far parte di una procedura fallimentare ormai ineludibile " in Il Trust nelle procedure concorsuali, in Il trustee nella gestione dei patrimoni, a cura di D. ZANCHI, Torino, 2009,
[34] Il Trib. Milano 22 gennaio 2013, in T&AF, 2013, 537, ha in particolare revocato con provvedimento di urgenza il trustee di un trust liquidatorio, privo di guardiano, che aveva omesso di portare avanti alcun concreto programma liquidatorio, concedendo al contrario finanziamenti a suo favore, utilizzando gli immobili in trust senza corrispettivo e, soprattutto, omettendo qualsiasi rendiconto ai creditori che ne avevano fatto richiesta.
[35] Così P. LICCARDO cit.
[36] Trib. Napoli 3 marzo 2014 cit. Trib. Milano 22 gennaio 2013 cit.; Trib. Milano 27 maggio 2013 in T&AF, 2014, 46
[37] L'art. 13 della Convenzione così recita: "Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del tustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l'istituto del trust o la categoria del trust in questione"
[38] Diversamente opinando dalla Corte, il Trib Bologna 9 gennaio 2014 cit. ha decretato la non riconoscibilità di un trust interno, per mancanza dei requisiti minimi di cui all'art. 2 della Convenzione, ex art. 13, così come questa lettura della norma, intesa quale norma di chiusura e quindi rimediale per il giudice che voglia eliminare gli effetti di un trust "ripugnante" per l'ordinamento interno, fu data anche dalla prime pronunce in tema di cui al Trib. Bologna 1 ottobre 2003 e 16 giugno 2003 cit.
[39] Sono le parole della sentenza del Trib. Bologna 1 ottobre 2003 cit.
[40] Trib Bo 1 ottobre 2003 cit.
[41] Il Trib. Milano 29 ottobre 2010, in T&AF, 2011, 146 aveva stabilito che il trust liquidatorio dovesse contenere clausole che ne limitavano l'operatività in caso di insolvenza conclamata, ritenendo nullo il trust che non prevedesse, in caso di fallimento, la consegna dei beni al curatore in quanto, proprio la mancanza di tale previsione, veniva ritenuta unico motivo del trust. Nello stesso senso, Trib Mantova 25 marzo 2011, in T&AF, 2011, 529.
[42] Per queste decisioni si rinvia all'archivio completo in www.il-trust-in-italia.it
[43] Ci riferiamo al Trib. Belluno 22 settembre 2002 cit.
[44] Scriveva in proposito autorevole dottrina processualistica: "Non c'è dubbio intanto che non si possa identificare il diritto in senso oggettivo col testo delle leggi; non certamente con le relative tavole (cartacee se non più bronzee ma neanche con le parole incise). Le contingenze della nostra vita sociale sono così infinitamente varie e complicate che non è neanche pensabile di prevederle puntualmente per fornire a ciascuno e in ciascun momento una regola legale già pronta (già..sfornata) per tutti i casi. I testi non possono essere concepiti e formulati in via di previsione normativa se non scomponendo, per così dire, a questo effetto il tessuto continuo del divenire, in aspetti o momenti elementari, astrattamente riducibili a categorie più o meno generali, aspetti o momenti che si potranno poi ravvisare avverati nella realtà pratica in diverse combinazioni fra loro. A parte ciò bisogna ricordare che lo Stato interviene ad innestare o imprimere il diritto su situazioni, rapporti o vicende di cui esso non determina a suo libito lo schema. Che anzi, di solito, lo rileva dall'osservazione da ciò che più spesso accade così come determinato da esigenze ed esperienze tecniche, non di rado varianti nel tempo e da fattori normativi di altro ordine o di più remote origini che, più o meno, continuano ad operare. Nessuno si sognerà per esempio che sia una creazione del legislatore l'ordinamento o la famiglia. Di qui il carattere estremamente frammentario ellittico e lacunoso dei dettati legislativi, i rinvii anche espressi ma molte volte quasi inavvertiti ad altre fonti, e la necessità di ricorrere spesso all'analogia diretta o indiretta, senza contare la difficoltà che sorgono dall'accavallarsi delle leggi dello Stato diverse e successive nel tempo. Di qui la necessità del diturno ed incessante travaglio dell'interpretazione collettiva, a cui quotidianamente tutti più o meno concorriamo pratici e tecnici, esperti, studiosi e scienziati, a cui concorrono come vedremo i giudici combinando, integrando, rielaborando, volgarizzando quando occorre. Ma neanche per questa via il pensiero normativo arriverà mai a cristalizzarsi in un corpus iuris esauriente e definitivo che ci offra per ogni evento la sua regola già elaborata, onde non resti che applicarla meccanicamente. Anche le illusioni giustinianee della constitutio de confirmatione Digestorum, sono svanite da un pezzo. Il travaglio interpretativo per aggiornare ed approssimare alla realtà della vita le formule preconcpeite ed astratte continua e continuerà senza posa. E non toglie e non toglierà che di fronte al caso pratico occorra pure sempre ricomporre ed adeguare quelle formule alle caratteristiche della particolarità del fatto e cioè come norma del caso concreto. Così siamo tenuti a fare noi singoli, nella nostra vita, così sono tenuti a fare tutti gli uffici dello Stato nell'esercizio delle loro funzioni, quando ci si debba uniformare, noi e loro, al diritto in senso oggettivo, così sono tenuti a fare, come vedremo, anche i giudici (uffici e organi giurisdizionali) quando debbano intervenire a garantirne l'osservanza o reagire contro inosservanze che si siano già avverate". E. REDENTI, Diritto processuale civile, I, Milano, 1951.
[45] vd. note da 1 a 5
[46] Corte di Cassazione 19 novembre 2012 n. 20254 che dichiara: "l'istituzione di un trust non configura abuso del diritto:
[47] Corte di Cassazione 22 dicembre 2011 n. 28363
[48] Dopo infatti questi provvedimenti: Trib Chieti 10 marzo 2000 Trib Bologna 4 aprile 2000; Trib. Bologna 16 giugno 2003; Trib Verona 8 gennaio 2003, e gli ultimi che lo hanno ulteriormente ribadito: Trib. Torino 10 febbraio 2011; Trib. Pesaro 9 marzo2009; Trib Frosinone 10.01.2014, oggi i conservatori trascrivono senza riserve, compreso il Trib di Santa Maria Capua Vetere e di Napoli citt. Lo stesso può dirsi per il trust autodichiarato, la cui legittimazione è stata riconosciuta, fra gli altri, da: Trib. Parma 21 ottobre 2003; Trib. Cagliari 4 agosto 2008;
[49] Questi i primi decreti tavolari che, diversamente ritenendo rispetto al Trib. Belluno 22 settembre 2002, hanno intavolato a nome del trustee: Trib. Trento Giudice Tavolare 20.07.04; Trib. Bressanone, Giudice Tavolare 11.09.06; Trib. Trento Giudice Tavolare 25.01.06; Trib. Rovereto Giudice Tavolare 28.10.05; Trib. Trieste Giudice Tavolare 23.09.05 afferma la legittimità dei trust interni ed ordina l'intavolazione del diritto di proprietà su un'area trasferita al trustee per realizzare il programma negoziale volto alla costruzione di un asilo nido da parte del Comune di Duino Aurisina, disponente del Trust; Trib. Trento Giudice Tavolare 07.04.05; Trib. Trieste Giud. Tavolare 17.07.2009 ordina l'intavolazione di un diritto di proprietà trasferito dal trustee al disponente in seguito all'atto di dichiarazione di cessazione di un trust di scopo (cessato in quanto lo scopo è stato perseguito, ossia è stato costruito l'asilo nido di cui al sub 6);
[50] Per i relativi provvedimenti vd. www.il-trust-in-italia.it
[51] così F. BOCCHINI, Applicazioni pratiche dei Trust interni, Napoli, 28 ottobre 2014
[52] Il Trib. Velletri 29 luglio 2005 in T&AF, 2005, 577 con nota di G. FANTICINI
[53] M. LUPOI, Il contratto di affidamento fiduciario, Milano, 2014 e in giur: Trib. Civitavecchia 5 dicembre 2013 in T&AF, 2014, 299 che autorizza il soggetto invalido, rappresentato dall'amministratore di sostegno, a sottoscrivere un contratto di affidamento fiduciario a suo favore. Trib Genova 30 gennaio 2014 che autorizza, con efficacia immediata, l'amministratore di sostegno a stipulare in nome e per conto del soggetto amministrato la dichiarazione di voler profittare del contratto di affidamento fiduciario a suo favore.
[54] Decreto tavolare dell'Ufficio tavolare di Cortina d'Ampezzo n. 23 del 23 marzo 2006 inedito
[55] In questo senso I Valas, residualità e competitività del trust rispetto ai negozi di diritto civile, Convegno Napoli 28 ottobre 2014 cit.






















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