Riflessioni sull'ordinanza del Tribunale di Monza 12 ottobre 2015 e sulla sentenza del Tribunale di Monza del 13 maggio 2015: ma l'Italia è un paese non trust?
Pubblicato il 28/11/15 02:00 [Articolo 840]






Le ordinanze in commento, che offrirebbero numerosi spunti di riflessione su aspetti anche processuali derivanti dalla iterazione fra i trust e codice di rito, saranno oggetto di alcune note strettamente attinenti ai principi fondanti il diritto dei trust, ponendoli a confronto con la Convenzione sulla legge applicabile ai trust ed al loro riconoscimento[1] e le norme interne vigenti.

La prima domanda che viene spontaneo porsi è se si vuole riconoscere valenza alla legge n. 364 del 16 ottobre 1989, che come è noto ha ratificato e resa esecutiva tale Convenzione o se si vuole, destituirla di fondamento.

Posto che così non può avvenire, non essendo questa la strada che il nostro sistema giuridico ha delineato per privare di efficacia le leggi, occorre allora riportare la questione "trust interni" sui giusti binari che le competono.

Le riflessioni che seguono si attestano su due temi centrali dei provvedimenti in commento ossia, un primo tema, di portata minore, avente ad oggetto la validità del trust autodichiarato e quindi se esso abbia la sua legittima fonte nella Convenzione ed un secondo tema di portata più generale che riguarda l'ammissibilità del trust interno[2].


§. 1 Sul trust autodichiarato

Il proliferare di trust illeciti (molto spesso autodichiarati) posti in essere esclusivamente per frodare i creditori, se ha per un verso esacerbato gli animi dei nostri tribunali, che emettono a raffica provvedimenti di censura, ha per altro verso indotto taluni a "buttare via il bambino insieme all'acqua sporca", per usare un detto che al meglio rende il senso di quello che ci si accinge a precisare.

A parere di chi scrive, questo fatto è molto grave.

Negli ultimi tempi si sta assistendo ad una vera e propria forzatura del sistema giuridico posta in essere nei confronti del trust interno che risulti in palese frode dei creditori, il quale, invece di essere naturalmente revocato ai sensi dell'art. 2901 cc, seguendo il percorso che la legge ha tracciato per tali fattispecie, diviene oggetto delle sanzioni più disparate e fantasiose, a volte però prive di adeguato sostegno da parte delle leggi vigenti.

Il negozio in frode ai creditori è soggetto, ove ne ricorrano i presupposti, alla revocatoria di cui all'art. 2901 cc o, per taluni casi, alla nuova norma contenuta nell'art. 2929 bis cc.

Essendo la sanzione della nullità rigorosamente tipica, non esiste una norma che commini la nullità per il negozio in frode ai creditori e con questo punto fermo del nostro sistema giuridico, siamo tutti chiamati a fare i conti.

Dopo una prima serie di decisioni di tribunali di merito[3] che incorrevano in questo errore, nel comprensibile desiderio - pratico - di togliersi di torno fastidiosi trust che tentavano di spiegare i loro effetti segregativi in ambito concorsuale o pre-concorsuale, è finalmente intervenuta la Corte di Cassazione facendo grande chiarezza[4].

Evidentemente non è bastata.

Sono sopravvenute infatti alcune decisioni di merito[5] e ordinanze tributarie della Corte di Cassazione[6] che hanno mirato a destituire di valenza il trust autodichiarato sulla base di considerazioni in diritto infondate e contraddittorie.

Non è infatti giuridicamente sostenibile la non ammissibilità del trust autodichiarato a meno che non si voglia unilateralmente privare di validità la legge n. 3641989.

Si deve invece fare, caso per caso, quel percorso di esame e valutazione dello specifico programma negoziale enunciato nell'atto istitutivo che tanto bene indicò, sin dal 2005, il Tribunale di Trieste[7], poi ripreso dalla citata sentenza del giudice di legittimità[8].

Recentemente il Tribunale di Milano, in tema di autodichiarato, ha precisato come la mera coincidenza soggettiva tra disponente e trustee non determini in alcun modo l'inefficacia del trust, dovendosi invece valutare, ai fini della compatibilità del trust con i principi inderogabili del diritto italiano, solo se il disponente abbia agito al fine di dare luogo a situazioni contrastanti con l'ordinamento, nel cui ambito il negozio è destinato ad operare[9].

Se per un verso questa è senza dubbio la corretta - ed unica - impostazione, l'errore comune a quanti sostengono l'invalidità di questa fattispecie, fra i quali i provvedimenti in commento, discende da una incomprensione di fondo della Convenzione.

Il primo errore in diritto dei trust[10] è ritenere che l'ult. co dell'art. 2 della Convenzione, che come noto recita: "il fatto che il costituente conservi alcune prerogative o che il trustee stesso possieda alcuni diritti in qualità di beneficiario non è necessariamente incompatibile con l'esistenza di un trust" postuli una necessaria dissociazione tra la figura del disponente e quella del trustee, ritenendo che il primo possa, in limine, riservarsi alcune prerogative come risulterebbe dalla lettera del citato comma.

All'evidenza, nella norma proprio non si legge questo divieto e sul punto poco altro, per ora, è da dirsi.

Il secondo errore[11] è invero davvero cavilloso e parte da un'ardita interpretazione dell'art. 5 che, per contro, ha una lettera molto chiara: "la Convenzione non si applica qualora la legge specificata al capitolo II non preveda l'istituto del trust o la categoria del trust in questione".

Punto focale dell'art. 5 è il richiamo espresso al Capitolo II che enuncia il diritto per il disponente di scegliere la legge regolatrice del proprio trust, segnatamente all'art. 6.

Il significato da attribuirsi pertanto a tale art. 5 è manifesto: se il disponente ha scelto quale legge regolatrice del proprio trust una legge che non conosce l'istituto (ossia ha indicato la legge dello stato X che tuttavia non ha legiferato in materia di trust) la Convenzione non si applica.

Per contro il Tribunale di Monza 12 ottobre 2015, dimenticando il richiamo espressamente fatto dall'art. 5 alla legge di cui al Capitolo II, ritiene che esso rinvii alla Convenzione, ed in particolare all'art. 2, sicchè, così conclude, non prevedendo l'art. 2 l'autodichiarato, l'art.5 ne conferma l'invalidità.

Nuovamente l'evidenza della lettera dell'art. 5 non menziona affatto l'art. 2, ma cita espressamente la legge specificata al capitolo II, senza contare che l'art. 2, per le ragioni già espresse, non contiene affatto un divieto di coincidenza fra disponente e trustee.

Il terzo errore di diritto[12] si ricava per induzione.

L'art. 2, che certo è uno dei punti centrali della Convenzione" richiede fra i requisiti minimi che i trust devono avere, per poter assolvere al giudizio di conformità richiesto, che "i beni siano posti sotto il controllo del trustee".

Tuttavia la prassi italiana ci consegna, correttamente, due tipi di trust, rispetto ai quali, per quanto attiene ai trust interni, tertium non datur: i trust nei quali c'è stato il trasferimento dei beni in piena ed esclusiva proprietà di un trustee, che è persona terza rispetto al disponente, ovvero l'autodichiarato.

Se volessimo allora proseguire nel solco del ragionamento dei provvedimenti commentati, dovremmo far notare loro che come non c'è l'autodichiarato nell'art. 2, nemmeno c'è il trust traslativo.

Per gli effetti, richiedendo l'art. 2 il "controllo" sui beni da parte del trustee, e non certo il "trasferimento dei beni al trustee", anche i trust traslativi dei beni al trustee terzo, sarebbero parimenti inammissibili per il combinato disposto degli artt. 2 e 5 della Convenzione.

Dunque, finora, avremmo tutti scherzato.

Evidentemente non è così.

Tre sono le strutture normative con le quali il trust interno deve fare i conti per poter essere riconosciuto.

La prima: assolvere ai requisiti minimi di cui agli artt. 2 e 3 della Convenzione.

Il che vuol dire che il trust deve avere almeno questi requisiti e non, invece, come hanno ritenuto i provvedimenti in commento, che il trust deve avere solo questi requisiti.

Questo proprio non è scritto.

Un principio di diritto internazionale privato si pone alla base di questa affermazione: la Convenzione non è di diritto sostanziale uniforme ma enuncia solo alcuni requisiti minimi che i trust devono presentare per superare il primo esame al quale sono soggetti[13].

Questi requisiti sono: che vi sia il trustee, che vi siano dei beni, che vi sia uno scopo o dei beneficiari, che i beni siano "posti sotto il controllo dei trustee" (art.2) e, infine, che si producano gli effetti della separazione dei beni in trust dal patrimonio personale del trustee (art.11)

A questi requisiti, la Convenzione ne aggiunge un altro, il più importante: la volontà di istituire il trust da parte del disponente che quindi esplica in tal modo la sua piena autonomia negoziale (art. 3)

In altri termini, la Convenzione ammette solo i cosiddetti "trust volontariamente istituiti" (o expressed trust per il diritto dei trust").

L'art. 3 è stato purtroppo completamente dimenticato dai provvedimenti in commento.

Laddove ricorrano questi requisiti minimi, recita l'art. 11, il trust deve essere riconosciuto (ossia è valido per la Convenzione) se risulta produrre un solo effetto, per meglio dire, l'unico effetto che la Convenzione richiede: la separazione dei beni in trust dal patrimonio personale del trustee.

E con questo è conclusa l'analisi sommaria della prima struttura normativa di riferimento

La seconda struttura normativa con la quale il trust deve fare i conti, ha la sua fonte negli artt. 6 e 8 della Convenzione: il disponente ha il diritto di scegliere liberamente la legge regolatrice del proprio trust (ex art.6) e questa legge "regola la validità del trust" (ex art.8).

L'art. 8, al pari dell'art. 3, è stato completamente dimenticato dai provvedimenti in commento.

Il fatto che i trust interni, volontariamente istituiti, possano essere solo di due tipi: trust con trasferimento dei beni in proprietà di un trustee terzo o l'autodichiarato, è principio fondante qualsiasi legge che abbia disciplinato il trust, fra le quali, e su tutte, la legge inglese.

E dunque la scelta fra una di queste due fattispecie, è rimessa liberamente disponente in forza dell'art. 8, in combinato disposto con gli artt. 3 e 6.

Recita la più autorevole dottrina inglese in materia di trust: ""The constitution of trust: a trust is completely constitued by the settlor …either: declaring that certain property vested in him … is to be held henceforth by him on certain trust or effectively trasferring certain property to truestees and declaring the trust upon which the trustees are to hold such property" [14] rifacendosi ad un precedente addirittura del 1874[15].

La Convenzione dunque rinvia, proprio perché non è una convenzione di diritto sostanziale uniforme, alla disciplina prevista per il trust dalla legge regolatrice prescelta dal disponente, facendo in tal modo entrare in gioco la seconda struttura normativa.

Non si può allora prendere della legge applicabile quello che piace e togliere quello che non piace, ma si deve rammentare che se questi sono i tipi di trust volontariamente istituiti ammessi dalla legge regolatrice prescelta, compresa quella inglese, questi, per gli effetti, sono i trust che il cittadino italiano ha il diritto di fare.

L'unica arma che avrebbe il giudice del foro è contenuta nell'art. 13 della Convenzione (sul quale si tratterrà nel prosieguo) che gli darebbe la stura per affermare che l'autodichiarato non è mai riconoscibile da parte del nostro ordinamento perché viola - in quanto tale - una norma di ordine pubblico interno.

Tuttavia questa argomentazione appare di difficile condivisione, non individuando la norma alla quale potrebbe far riferimento, ancor più rammentando la struttura giuridica del fondo patrimoniale (pacificamente una sorte di trust autodichiarato) o del vincolo di destinazione ex art. 2645 ter.

Veniamo ora al quarto errore di diritto[16] per il quale, francamente, è necessaria una ricostruzione sistematica, seppur breve, del diritto dei trust.

Semplificando massimamente il ragionamento seguito dal Tribunale, parrebbe che siano privi di valenza gli autodichiarati in quanto, coincidendo il disponente con il trustee, questi avrebbe per forza (a priori, dunque) mantenuto ogni potere diretto sul trust e sui beni che ne compongono il fondo.

A sostegno, viene detto, che sarebbe violata la massima di diritto consuetudinario normanna "Donner et retenir ne vaut" ossia, non vale far finta di dare quando poi di fatto si trattiene.

Tale massima sarebbe stata invocata dalla Convenzione nella disposizione di cui all'ult. co dell'art. 2 che, ripetiamo, recita: "il fatto che il costituente conservi alcune prerogative o che il trustee stesso possieda alcuni diritti in qualità di beneficiario non è necessariamente incompatibile con l'esistenza di un trust".

Partiamo dalla legge inglese, che indubbiamente è portatrice dei principi fondanti il diritto dei trust, la quale, pur non conoscendo questa norma, ha però individuato 3 condizioni per i trust volontariamente istituiti, le cosiddette "tre certezze", in presenza delle quali è indubbia l'esistenza del trust[17]: fra queste, rileva la Certainty of intention intesa quale volontà di istituire il trust[18].

Da questa condizione, è discesa la censura verso quel disponente che, apparentemente manifestando la volontà di istituire il trust, di fatto non abbia proprio voluto farlo, continuando ad esercitare un potere di controllo diretto sul trust o sui beni in trust.

Ecco uno dei fatti, alla ricorrenza del quale, il trust può dirsi sham per la legge inglese.

L'errore però sta nel ritenere che questo avvenga sempre - ed a prescindere - quando il disponente coincida con il trustee perché così proprio non è.

Non lo è nemmeno per la legge inglese, certamente la più importante, che, infatti, ammette pacificamente il trust autodichiarato in forza di un precedente che risale persino al 1874[19].

La questione è nuovamente completamente diversa.

Di base vi è una mancata comprensione della differenza fra "i poteri fiduciari del trustee" che sono sempre e solo rivolti nei confronti dei beneficiari e per attuare la scopo del trust[20] e i poteri diretti del disponente, che sono invece rivolti al soddisfacimento di personali interessi egoistici[21].

E' quindi necessario verificare caso per caso, se questo disponente rustee ha attuato lo scopo del trust o se invece ha usato il trust a fini solo propri, come ben insegna la legge inglese[22].

Nel primo caso quel trust sarà perfettamente lecito, nel secondo caso potrà essere sham, se tale è per la legge regolatrice, oppure laddove quella specifica legge regolatrice non conosca questo divieto, quel trust potrà comunque essere ritenuto simulato, o non riconoscibile, per la legge del foro.

Che dunque le due figure (disponente e trustee) coincidano, proprio non prova nulla, per nessuna legge regolatrice e tantomeno per quella inglese.

Questo ultimo passaggio merita un breve approfondimento perché, anche su questo fronte, si avverte una certa confusione nell'usare termini, quali ad esempio "sham", conferendogli un significato diverso da quello dell'ordinamento di provenienza.

E' sbagliato affermare che sempre, quando il disponente si sia riservato molti poteri, il trust risulterà "sham".

Abbiamo sopra spiegato perché potrebbe esserlo per la legge inglese, ossia quando ricorra la prova effettiva del controllo diretto del disponente sul trust, a prescindere da chi ne sia il trustee.

Potrà dunque risultare sham per la legge inglese un trust con un trustee diverso dal disponente, sul quale tuttavia questi risulterà aver mantenuto un controllo diretto mentre, per contro, non sarà affatto sham un trust autodichiarato nel quale il disponente rustee risulti portare a compimento in modo conforme le obbligazioni fiduciarie che, con l'assunzione dell'ufficio di trustee, ha assunto.

Se invece si tratta di leggi del modello internazionale, come ad esempio quella di Jersey, la novella del 2006 ha introdotto - purtroppo - l'art. 9A che oggi permette la ritenzione di molteplici poteri da parte del disponente.

Ne deriva che questo trust, mai sarebbe ritenuto sham per una corte di Jersey ma, difficilmente supererà il giudizio di validità del giudice italiano, come hanno ben precisato il Tribunale di Bologna, Trieste e Reggio Emilia[23], argomentando dall'ult. co dell'art. 2.

Ciò non toglie che ben possa il disponente scegliere quale legge regolatrice del proprio trust la legge di Jersey, tuttavia evitando di riservarsi tutte quelle prerogative di controllo diretto che, discrezionalmente, l'art. 9A gli consentirebbe di mantenere.

Con ciò si è conclusa l'analisi della seconda struttura normativa al quale il trust interno è soggetto, ossia quella della legge regolatrice, e si apre il varco per l'analisi della terza strettura normativa data dalla legge dello Stato nel quale il trust è destinato a spiegare i suoi effetti; nel nostro caso la legge italiana, di cui al prossimo paragrafo.

All'inizio di questo paragrafo abbiamo fatto cenno alla forzatura giuridica alla quale oggi si assiste a carico del trust interno che, giunti a questo punto della nostra riflessione, risulta manifesta.

Se le ragioni strettamente di diritto sopra esposte dimostrano come sia pacificamente ammesso dalla Convenzione il trust autodichiarato, e quello traslativo, per contro il nostro giudice, mentre per il fondo patrimoniale che persegua fini divergenti con la ratio della norma, applica l'art. 2901 cc, dichiarando l'inefficacia dell'atto di disposizione patrimoniale nei soli confronti dell'attore-creditore, per i trust autodichiarati (del tutto assimilabili ai fondo patrimoniali) si affanna a cercare gli elementi di censura più disparati, spesso però non supportati da norme di riferimento.


§. 2 Sul trust interno

La terza struttura normativa con la quale il trust interno deve risultare compatibile è quella rappresentata dalla legge italiana.

Molteplici le norme della Convenzione che rimandano alla legge del foro ma ai fini che qui interessano, rilevano gli artt. 15 e 13.

L'art. 15 ha certo un fine apprezzabile del quale però, abbiamo già avuto occasione di dire[24], ne avremmo potuto anche fare a meno posto che non c'era bisogno di una norma di diritto internazionale privato, per evitare che il trust interno risultasse lesivo delle nostre norme di diritto positivo in tema di protezione dei creditori, diritti dei minori, successione legittima, effetti personali e patrimoniali del matrimonio.

In ogni caso infatti, tali trust avrebbero trovato pronta censura nei nostri tribunali che avrebbero applicato la sanzione di riferimento: revocatoria, nullità, annullamento, azione di riduzione e così via.

L'art. 13 è invece il cuore del problema, trattato maggiormente dal Tribunale di Monza 12 ottobre 2015, avendo invece sommariamente affrontato la questione, il precedente del 13 maggio 2015.

Desideriamo preliminarmente mettere sul tavolo una questione, per sbrigativamente risolverla, in quanto già trattata da ogni punto di vista giuridico e sostanziale.

Le ragioni giuridiche che hanno determinato il riconoscimento del trust interno sono compiutamente riportate in centinaia di decisione di merito che si possono trovare in qualsiasi archivio[25].

A ciò devono però aggiungersi le - realmente - dimenticate[26] decisioni della Corte di Cassazione[27], molteplici in ambito penale, che indirettamente, dettando regole sui casi specifici, hanno implicitamente riconosciuto il trust interno.

Fra queste, alcune meritano espressa menzione.

La già citata sentenza civile n. 10105 del 9 maggio 2015 ove si legge che il trust: "può essere piegato al raggiungimento dei più vari scopi pratici", occorre "esaminare, al fine di valutarne la liceità, le circostanze del caso di specie, da cui desumere la causa concreta dell'operazione", tenendo conto che non è necessario, per il riconoscimento nel nostro ordinamento, che tale istituto "assicuri un quid pluris rispetto a quelli già a disposizione dell'autonomia privata nel diritto interno"

A riguardo occorre precisare che questa sentenza, e solo questa, è stata menzionata dal Tribunale di Monza 12 ottobre 2015 dalla quale però il Tribunale ha ritenuto di doversi discostare in quanto il caso portato al suo esame non aveva ad oggetto l'insolvenza del convenuto.

Il ragionamento lascia francamente interdetti.

La sentenza penale del 3 dicembre 2014 n. 50672[28] che afferma: "il trust riconosciuto e veicolato nel nostro ordinamento dalla giurisprudenza, mutua profili sostanziali dallo schema anglosassone" secondo uno schema di separazione patrimoniale perfetta, intesa come "incomunicabilità bidirezionale" tra il patrimonio separato e il patrimonio del soggetto che ne è titolare; "il riconoscimento di una intestazione meramente formale dei diritti al trustee stempera i dubbi sulla configurabilità di un trust interno a causa delle caratteristiche dei nostri diritti reali".

Ancora la sentenza penale del 16 aprile 2015, n. 15804 che definisce il trust un "lecito istituto giuridico", includendo fra i meccanismi di segregazione ammessi: "sia la costituzione del trust che del fondo patrimoniale che l'ordinamento, indubbiamente, consente in quanto rispondono ad interessi ritenuti meritevoli di tutela

La sentenza civile del 19 novembre 2012 n. 20254 che, significativamente afferma che: "l'istituzione di un trust non configura abuso del diritto, quando il vantaggio fiscale non costituisce la ragione determinante dell'operazione…".

La ulteriore sentenza civile n°24813/2008 che, nel dichiarare non contrastanti con il divieto dei patti successori talune disposizioni testamentarie, ha sentito il bisogno di sottolineare che la progressiva erosione di detto divieto, sul piano sia dottrinale che normativo, è stata attuata anche dal "recepimento nella normativa nazionale dell'istituto di common law del trust".

Infine la sentenza civile del 22 novembre 2011 n. 28363[29] che ha dichiarato la carenza di soggettività giuridica del trust interno e per gli effetti ha confermato la condanna pronunciata del giudice di appello, nei confronti del trustee, a risarcire il danno che lo stesso trustee aveva causato ad un terzo, circolando con un' autovettura facente parte dei beni in trust.

Dispiace allora che tali sentenze siano state dimenticate dai Tribunali in commento[30].

Ancora più farraginosa e contraddittoria è la lettura che il Tribunale di Monza 13 maggio 2015 pare dare l'art 13 della Convenzione che classifica quale norma di "preventiva chiusura" mentre quello del 13 ottobre 2015 ritiene che lo Stato italiano, pur ratificando la Convenzione, non abbia comunque esercitato il "potere discrezionale conferitogli da questo articolo, e quindi non abbia inteso vincolarsi al riconoscimento di trusts a carattere meramente interno"

Del tutto diversa la lettura che ha dato a questa norma la giurisprudenza di merito e legittimità intercorsa dal 2000 ad oggi[31] che ha invece evidenziato come si tratti di una norma di mera chiusura, intesa quale estremo rimedio[32] al quale ricorrere quando, in presenza di un trust "ripugnante" per il foro, non si ravvisino fra gli strumenti giuridici che l'ordinamento interno fornisce (proprio quelli di cui all'art. 15 sopra esposto) una norma di diritto positivo in grado di renderlo inerme[33].

Esaurito questo tema, veniamo ai due finali che maggiormente ci premono.

La mole di giurisprudenza di merito, unita a quelle di legittimità, che hanno decreto il riconoscimento del trust interno, non è peregrino pensare abbiano acquisito oggi un ruolo di vero e proprio diritto vivente.

E' noto come il diritto vivente (la cui importanza è riconosciuta dalla C.E.D.U. e dalle nostre Supremi Corti di Cassazione e Costituzionale) sia un processo giuridico il quale, partendo da situazioni concrete, rappresentative di una realtà sociale in continua evoluzione e prive di regole espresse, trova nell'apporto della giurisprudenza un'adeguata e precisa riposta.

Il diritto vivente viene quindi in essere grazie all'interpretazione dei giudici, fornendo una regola iuris che, ripetuta in una molteplicità di coerenti decisioni, consente di accertare il significato assunto dalla norma nella sua coerente e continua evoluzione sociale[34].

Emblematica l'evoluzione degli "interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico" di all'art.1322, 2° co che, venuti ed esistenza in una epoca storica dove il legislatore tutelava solo quei negozi atipici conformi all'interesse dello Stato totalitario, sono stati poi disattesa dall'avvento della Costituzione repubblicana che ha ridotto la questione alla mera liceità degli interessi perseguiti da siffatti negozi[35].

Altro esempio è costituito dal concetto di "causa" del negozio giuridico, che la Cassazione non intende più come "astratta funzione economico sociale", bensì come "concreta funzione individuale" del negozio (la cd. "causa concreta") facendo in tal modo assurgere i motivi personali ad una rilevanza nemmeno ipotizzabile sino a 20 anni fa.

Sopravvenute decisioni hanno mutato l'assetto giuridico dei nostri rapporti sociali, quali quelle relative al leasing, al factoring, alla fideiussione omnibus, alla responsabilità da contatto sociale, solo per rammentarne alcuni.

La C.E.D.U. valorizza sensibilmente questo fenomeno, al punto che l'interpretazione giudiziale che si consolida in un diritto vivente preclude addirittura una diversa interpretazione da parte del legislatore mediante una legge d'interpretazione autentica con effetto retroattivo: ciò perché la conoscibilità della regola di diritto implica la ragionevole prevedibilità della sua applicazione.

La norma, dunque, non può mai restare cristallizzata, essendo invece soggetta all'evoluzione strettamente dipendente dal contesto storico-sociale in cui è inserita.

L'interesse che la norma tutela, e che esprime il valore che la collettività riconosce ad un bene della vita, diviene "linfa vitale" del suo continuo divenire[36].

La fonte del diritto vivente sono allora, come detto in più occasioni dalle Corti Costituzionale e di Cassazione, i "corsi giurisprudenziali" quando divengono tanto apprezzabili da divenire costanti, anche se di merito.

Ciò detto, appare evidente come il diritto vivente abbia ormai ampiamente legittimato l'ammissibilità dei trust interni come tali, ferma l'esigenza di analizzarne caso per caso la causa concreta, cioè il programma negoziale dagli stessi perseguito[37].

Appaiono rientrare nel diritto vivente le oltre 15 sentenze della Suprema Corte di Cassazione, sia civili, sia penali, sia tributarie (in materia di famiglia, di impresa, di fallimento, di diritti reali o obbligatori, di azioni a tutela del credito, di comportamento del trustee, di protezione di soggetti deboli e così via) che in modo indiretto, ma assolutamente consapevole, hanno trattato la materia confermando l'ammissibilità dei trusts interni ed invitando invece ad analizzare con estrema cura la meritevolezza degli interessi sottesi a ciascun programma negoziale.

Fra esse, rammentiamo ancora la già citata Cass n. 10105 del 2014 che afferma: "quale strumento negoziale astratto, il trust può essere piegato, invero, al raggiungimento dei più vari scopi pratici, occorre perciò esaminare, al fine di valutarne la liceità, le circostante del caso di specie da cui desumere la causa concreta dell'operazione".

Anche le recenti, e fortemente contestate in punto di diritto, ordinanze tributarie della C. di Cassazione[38] nulla hanno eccepito su una presunta non riconoscibilità del trust interno, pur trattandosi di questioni rilevabili d'ufficio.

E' un fatto, d'altro canto, che ad oggi (cioè ad oltre venti anni dall'entrata in vigore della Convenzione) le pronunzie (solo di merito) che negano l'ammissibilità del trust interno si contano sulle dita di una mano.

Ma non è tutto.

La Convenzione data 1985 e il suo art. 13 recita: "Nessuno stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a stati che non prevedono l'istituto del trust o la categoria del trust in questione".

Nel 1985 il nostro paese era certamente un paese che non conosceva il trust e dunque, come viene comunemente detto, era un paese non trust.

Oggi si ritiene che ciò non possa più dirsi per ragioni oggettive.

L'art. 2645 ter cc[39] ha previsto effetti di separazione patrimoniale, derogando all'art. 2740 cc, su beni vincolati ad una destinazione meritevole di tutela.

Non può dirsi dunque che lo Stato italiano non conosca un fenomeno del tutto simile al trust che abbia il fine di perseguire una causa lecita che, vincolando beni al perseguimento di uno scopo, produca l'effetto di sottrarli al principio della responsabilità patrimoniale universale.

Il legislatore tributario ha espressamente riconosciuto la soggettività passiva del trust e ne ha disciplinato compitamente l'imposizione fiscale diretta ed indiretta.

Gli artt. 44 e 73 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi hanno disciplinato il trattamento fiscale in tema di imposte dirette dei trust interni mentre la reintrodotta imposta sulle successione e donazioni (art.2, co 49, d.l. 310.2006 n. 262) ha determinato le aliquote indirette alla quali sono soggetti i trasferimenti di beni dal disponente al trustee.

E sia chiaro che queste norme espressamente parlano del "trust".

Sarebbe davvero una macabra ironia della sorte pensare che il cittadino abbia pagato le imposte conformemente a come hanno stabilito il legislatore e giudice tributario di cassazione[40] su atti che - invece - qualche isolato tribunale ritiene inesistenti.

Autorevole dottrina[41] ha recentemente elencato gli ambiti operativi nei quali la Pubblica Amministrazione ha fatto ricorso al trust, che qui sommariamente riportiamo:

a) la Banca d'Italia ha prescritto ad un noto uomo politico di collocare temporaneamente in un trust una parte del capitale sociale di un istituto di credito, detenuto da una società di comunicazione e ne è seguito un trust interno con trustee italiano[42];

b) il Ministero dei Beni Culturali ha autorizzato l'Amministrazione ad acquistare, in via di prelazione artistica, il bene culturale oggetto di conferimento in un trust a titolo oneroso, dopo aver precisato che il trust è "caratterizzato dall'essere costituito da un cittadino italiano - disponente - dall'avere come amministratore - trustee - e come eventuali beneficiari altri cittadini italiani, ed infine dall'essere stato dotato, almeno in fase iniziale, con beni che si trovano in Italia"[43];

c) il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha prescritto i requisiti formali per l'immatricolazione e il trasferimento a nome del trustee della proprietà di veicoli italiani posti in trust[44];

d) il Gestore Servizi Energetici, società per azioni interamente partecipata dal Ministero dell'Economia e delle Finanze, ha individuato nel trust interno l'unico strumento idoneo a costituire un fondo impignorabile e ne ha redatto lo schema di atto istitutivo[45];

e) l'Agenzia delle Entrate ha riconosciuto la possibilità per il trust che persegua i medesimi fini delle Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale di potersi iscrivere nell'anagrafe delle Onlus[46].

Tutto questo è doveroso conoscerlo[47] e dirlo posto che si tratta di precedenti non conosciuti, o quantomeno certamente non menzionati, nei provvedimenti in commento.

La questione è dunque così riassumibile: il trust interno, se assolve ai requisiti minimi della Convenzione, viene da essa riconosciuto. Ciò comporta gli effetti segregativi sul fondo in trust e l'applicazione della legge applicabile prescelta per la disciplina interna dello specifico trust.

Tale complessivo rapporto deve essere conforme alla legge del foro, altrimenti sarà specificatamente sanzionato dall'art. 15 della Convenzione in combinato disposto con la norma del foro violato (ad esempio l'art. 2740 cc quando ricorrono i presupposti dell'art. 2901) ovvero se comunque produce effetti "ripugnanti[48]" per il foro, ma questo non dispone dello strumento ad hoc, soccorre la norma di chiusura di cui all'art. 13 che consente al giudice di non riconoscerlo[49].


§. 3 Conclusioni

E' allora evidente che il trust autodichiarato portato all'attenzione del Tribunale di Monza 13 maggio 2015[50] pare caratterizzato da elementi sufficienti a decretarne l'inefficacia ex art. 2901 cc ovvero la non riconoscibilità ex artt 2, ult. co e 13 della Convenzione (come già fece il Tribunale di Bologna[51]) senza che ciò c'entri in alcun modo con la legittimità dell'istituto del trust autodichiarato o ancor più del trust.

Ci chiediamo infatti dove sia la non riconoscibilità dei pregevoli trust autodichiarati che sezioni fallimentari hanno utilizzato, o autorizzato, per garantire la buona riuscita del concordato preventivo, dell'accordo di ristrutturazione o della liquidazione dell'attivo[52].

Ci chiediamo ancora dove sia la non riconoscibilità del trust autodichiarato (ma anche traslativo) posto in essere dal genitore del disabile che desideri preservare parte del suo patrimonio per il figlio sfortunato e che abbia previsto l'intervento di un trustee terzo solo dopo la sua morte, essendo convinto di poter provvedere personalmente ai bisogni del figlio, fintanto che in vita.

E da ultimo pensiamo ai trust autodichiarati, conclusi all'interno di separazioni o divorzi, nei quali uno dei genitori si è dichiarato trustee sulla casa coniugale, per assicurare alla famiglia separata un'abitazione, a prescindere dalle sue future vicende personali o patrimoniali[53].

Recentemente la Fondazione Golinelli di Bologna[54] ha istituito un trust nel quale ha fatto confluire decine di milioni di euro per finanziare un progetto per giovani meritevoli che durerà sino al 2065.

Il desiderio del fondatore è stato quello di non versare questa somma direttamente nelle mani della Fondazione, ma invece rimetterla ad un collegio di trustees assolutamenti terzi, composto da autorità cittadine che, esattamente come avviene nei paesi anglosassoni[55], possa negli anni a venire costantemente monitorarne il corretto impiego.

Ancora il Comune di Bologna ha impiegato il trust per finanziare un bene pubblico destinato ai cittadini[56] e altri impieghi al momento sono in corso.

I sostenitori di tali progetti hanno aderito perché per mezzo del trust hanno conseguito la certezza della destinazione della risorsa da loro messa a disposizione al fine indicato, con la garanzia di avere sempre la rendicontazione delle somme (che è pubblica) per contro sapendo che i loro denari non sarebbero confluiti nelle generiche casse dell'ente pubblico.

Ci si chiede dove sia la non riconoscibilità di questi trust, l'immeritevolezza, o quale sia il concreto peso dei temi dottrinali addotti da chi non ne comprenda - o rifiuta di comprenderne - l'utilità.

Il problema è dunque sempre e solo uno: non è da criminalizzare il trust autodichiarato o ancor più il trust, ma gli spregevoli impieghi che di esso ne vengono fatti, dando invece a questo strumento il giusto ruolo che merita, essendo il frutto della condivisione e scambio fra le culture giuridiche di diversi paesi.

Da ultimo, l'Italia non può più dirsi un paese non trust ai fini dell'art. 13 della Convenzione.









[1] Ci riferiamo alla Convenzione sulla legge applicabile ai trust ed al loro riconoscimento adottata a L'Aja il 1 luglio 1985 e ratificata e rese esecutiva della Stato italiano con l. n. 364 del 16 ottobre 1989, entrata in vigore il 1 gennaio 1992,
[2] Con "trust interno" si intende la tipologia di trust i cui elementi costitutivi tutti (cittadinanza e residenza del disponente e dei beneficiari, luogo ove si trovano i beni in trust, luogo ove la finalità o lo scopo del trust devono essere attuati) rimandano al territorio dello Stato italiano, ad eccezione della legge applicabile al trust specifico che, in ragione della mancanza di legge italiana sul trust, non può che essere una legge straniera. Così M.LUPOI in Trusts, Milano, 2001, 546 e ss
[3] Tribunale di Milano 22 ottobre 2009, in www.ilcaso.it e in T&AF, 2010, 77 e ss; 30 giugno 2009 in www.ilcaso.it e in T&AF, 2010, 80 e ss; 29 ottobre 2010 www.ilcaso.it e in T&AF, 2011, 146 e ss; C di Appello di Milano 29 ottobre 2009 in www.ilcaso.it e in T&AF, 2010, 274 e ss ; Trib. Alessandria, 24 novembre 2009 www.ilcaso.it e in T&AF, 2010, 171 e ss. Trib. Bolzano 8 aprile 2013 in www.il-trust-in -italia.it
[4] Cass. 9 maggio 2014 n. 10105 in www.ilcaso.it con nota di A.TONELLI, Certezze ed incertezze del diritto
[5] Trib. Bergamo 4 novembre 2015 www.ilcaso.it e in www.il-trust-in-italia.it
[6] Cass. ordinanze 25 febbraio 2015 n. 3886; 24 febbraio 2015 nn. 3735 e 3737, tutte in www.ilcaso.it e in www.il-trust-in-italia.it
[7] Trib Trieste 23 settembre 2005 in www.ilcaso.it e in T&AF, 2006, 83
[8] Cass n. 1010514 cit.
[9] Trib. Milano 10 giugno 2014 in www.ilcaso.it e in www.il-trust-in-italia.it
[10] Nel quale incorre il Tribunale di Monza 12 ottobre 2013
[11] Ancora del Tribunale di Monza 12 ottobre 2013
[12]Nel quale incorrono entrambi i provvedimenti in commento
[13] In dottrina sono state scritte pagine e pagine su questo tema, fra i tanti rammentiamo A.GAMBARO (che rappresentò l'Italia in sede di redazione della Convenzione) Segregazione e unità del patrimonio, in T &AF - 2000, 155 ss.; ID., Un argomento a due gobbe in tema di trascrizioni del trustee in base alla XV Convenzione dell'Aja, Riv. Dir. Civ. 2002, II, 919 ss.; Id., Notarella in tema di trascrizione degli acquisti immobiliari del trustee ai sensi della XV Convenzione dell'Aja, Riv. Dir. Civ. 2002, 263; C.MASI, La Convenzione dell'Aja in materia di Trust, in Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, a cura di G.Vettori, Padova 1999, 784 ss.
[14] D, HAYTON P.MATTHEWS C. MITCHELL, Law of Trusts and trustees, Law of Trusts and trustees, London, 2010, 8th ed., 206
[15] Strong v Bird (1874) LR 18 Eq 315
[16] Nel quale incorre il Tribunale 13 maggio 2015
[17] Le cd. "tre certezze" hanno fonte in un leading case del 1840 Knight v. Knight (1840) e Beav 148, 49, ER 58 e sono: Certainty of intention, Certainty of subject matter , Certainty of objects, ossia: la certezza delle volontà di istituire il trust, la certezza dell'esistenza del fondo in trust, la certezza dei beneficiari
[18] In dottrina inglese vedi: D.HAYTON, C.MITCHELL, HAYTON & MARSHALL, The law of trust and equitable remedies, XII ed London 2005, 129 e 190. In dottrina italiana M. LUPOI, Istituzioni del diritto dei trust e dei negozi di affidamento fiduciario, Padova, 2008, 25, in giurisprudenza ne ha parlato il Trib. Reggio Emilia 14 marzo 2011 in www.ilcaso.it e in T&AF, 2011, 630
[19] v. nota 15
[20] Sul punto si rinvia a D, HAYTON P.MATTHEWS C. MITCHELL, Law of Trusts and trustees, London, 2010, 8th ed., General principles applicable to powers of trustee, pag. 897 e ss e The trustee's duties, pag.647 e ss
[21] M. LUPOI, Trust, 2001
[22] v. nota 17
[23] Trib. Bologna 9 gennaio 2014 in www.ilcaso.it e in T&AF, 2014, 293; Trib. Trieste 22 gennaio 2014 in www.ilcaso.it e in T&AF, 2014, 215; Trib. Reggio Emilia 14 marzo 2011 cit.
[24] A. Tonelli, nota a Corte di Cassazione 8 maggio 2014 n. 10105 e Tribunale di Belluno 18 febbraio 2014 in www.ilcaso.it
[25] v. in www.il-trust-in -italia.it per la raccolta completa rammentando come il leading case in materia è quello del Trib. Bologna 1 ottobre 2003 in T&AF, 2004, 63 al quale si unì fra i primi il Trib. Trieste - Giudice Tavolare 23.9.2005, T&AF 2006, 83, che ritennero che le norme della Convenzione avessero natura non solo internazionalprivatistica, ma anche sostanziale, s?' che la legge di ratifica n°364 del 1989 abbia finito per introdurre nel nostro ordinamento (a prescindere dall'esistenza di un conflitto di leggi proprie di ordinamenti differenti) l'istituto del trust. In tale ottica, pertanto, il fenomeno della separazione patrimoniale propria dei beni in trust trova ora fondamento in norme di legge extra codicem e risulta così privo di base l'argomento secondo il quale il trust violerebbe la riserva di legge in tema di patrimoni separati prevista dall'art. 2740 secondo comma c.c. D'altro canto - si aggiunge - ipotizzare che il trust si ponga in contrasto con principi del nostro ordinamento finirebbe per svuotare di significato la legge di ratifica della Convenzione come è stato detto dal Trib. Pisa 22.1.2001, T&AF 2002, 241 e Trib. Brescia 12.10.2004, T&AF 2005, 83.
[26] L'elencazione delle decisioni della Corte di Cassazione di cui alla nota che segue, è tratta da un articolo di M.LUPOI, Il dovere professionale di conoscere la giurisprudenza, che sebbene in corso di pubblicazione, è stato qui cortesemente messo a disposizione
[27] Cass. 18 dicembre 2004 n.48708, in www.il-trust-in-italia.it; Cass. 13 giugno 2008 in T&AF, 2008, 522; Cass. 30 marzo 2011 n.13276 in T&AF 2011, 408; Cass. Sez. V penale 30 marzo 2011 in www.il-trust-in-italia.it; Cass. 22 dicembre 2011 n. 28363, in T&AF 2013, 280; Cass, Sez. Un. 15 marzo 2012 n. 4132 in tema di giurisdizione del giudice italiano, in T&AF, 2013, 522; Cass. 28 giugno 2012, in T&AF, 2013, 45; Cass.19 novembre 2012 n. 20254: in T&AF, 2013, 279; Cass. Pen. 5 giugno 2013, in T&AF, 2013, 621; Cass. 16 settembre 2013 n. 37848 in tema di trattamento tributario della posizione beneficiaria, in T&AF, 2014, 174; Cass. 8 ottobre 2013 n. 41670, in T&AF, 2005, 60; Cass. pen., sez. VI, 27.5.2014, n. 21621, in T&AF, 2014, 411; Cass. pen., sez. III, 15.4.2015, n. 15449; Cass. pen., sez. III, 14.1.2015, n. 1341, in T&AF, 2015, 265
[28] in T&AF, 2015, 269
[29] in T&AF, 2013, 280 con nota di A TONELLI
[30] Come ha parimenti fatto il Tribunale di Belluno 18 febbraio 2014, con nota di A TONELLI cit.
[31] Sul punto si rinvia alla raccolta completa della giurisprudenza in www.il-trust-in-italia.it.
[32] Il primo tribunale ad esprimersi in questo senso fu il Trib. Bologna 1 ottobre 2003 in T&AF, 2004, 63
[33] Si pensi ad esempio al caso del Trust che voglia sottrarre al controllo del Giudice Tutelare il patrimonio di proprietà del minore
[34] Va ascritto a Cass. n°1007 del 1967 il merito di aver trattato per prima questo tema; Cass.n°3675 del 1981, dal canto suo parlò di "diritto vivente" con riferimento al danno biologico, da distinguersi dal patrimoniale.
[35] Cass. n. 1061/1991; Cass. n. 7832/1998; Cass. n. 2288/2004
[36] Cass. SS.UU. n. 15144 del 2011
[37] Cass. 1010514 cit.
[38] nn. 3735, 3886, 5322 del 2015 in www.ilcaso.it e in www.il-trust-in-italia.it
[39] L'art. 2645 ter è stato inserito nel codice civile ad opera dell'art. 39 novies, d.l. 30 novembre 2005 n. 273, conv. in l. 23 febbraio 2006 n. 51
[40] Ci riferiamo alle citate ordinanze della Cassazione nn. 3735, 3886, 532215
[41] M LUPOI, Il dovere professionale di conoscere la giurisprudenza, cit. in nota 26
[42] Ci riferiamo a Silvio Berlusconi che ha temporaneamente collocato una parte del capitale sociale di Mediolanum detenuto da Fininvest in un trust interno, vd. Il Sole 24 Ore, 9.1.2015 e 10.1.2015
[43] Circolare Prot. n. 3438, 18.2.2009
[44] Circolare Prot. n. 15513, 10.7.2014
[45] T&AF, 2013, 339; v. anche T&AF, 2014, 163 e 236
[46] Agenzia delle Entrare, Circolare n. 38E dell'1 agosto 2011
[47] M LUPOI, Il dovere professionale di conoscere la giurisprudenza, cit. in nota 26
[48] Il termine venne usato per la prima volta dal Tribunale di Bologna nella sentenza 1 ottobre 2003 cit.
[49] Ancora così Trib. Bologna 1 ottobre 2003 cit.
[50] Non si conosce il fatto relativo al provvedimento di cui al Tribunale di Monza 12 ottobre 2015
[51] Trib. Bologna 9 gennaio 2014 cit.
[52] Tribunale Torino 8 ottobre 2015 in www.ilcaso.it e in wwwil-trust-in-italia.it; Trib. Pescara 20 marzo 2015, Trib. Ravenna 22 maggio 2014; Trib. Bologna 18 dicembre 2014; Trib. Milano 28 marzo 2014; TRib. Reggio Emilia 27 gennaio 2014; Trib. Sondrio 12 ottobre 2013; Trib. Ravenna 4 aprile 2013; Trib Pescara 11 ottobre 2011; Trib Bologna 2 marzo 2010; Trib. Salluzzo 9 novembre 2006; Trib Firenze 26 ottobre 2006; Trib. Mondovi 16 dicembre 2005; Trib. Parma 3 marzo 2005, tutte in wwwilcaso.it e in www.il-trust-in -italia.it;
[53] Giudice Tutelare del Trib. Genova 31 dicembre 2012; Giudice Tutelare del Tribunale di Civitavecchia 5 dicembre 2013, Giudice Tutelare del Tribunale di Genova del 30 gennaio 2014; Trib. Milano 7 giugno 2006; Trib. Pordenone 20 dicembre 2005
[54] Ci riferiamo al Trust Opus 2065, istituito nel settembre 2015 con notizia riportata dalla stampa e televisione nazionale
[55] Sul punto si rinvia a A TONELLI, Un trust per l'università italiana, in Rivista di diritto e economia, 2009, 1, 126
[56] Ci riferiamo al Trust Ad Hoc istituito da una cittadina in favore del Comune e del quale è trustee un dirigente comunale.





















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