In un precedente scritto, pubblicato su questa rivista[1] e a cui ci permettiamo di rinviare per approfondimenti, si era dato conto del revirement operato dalla Suprema Corte con l'ordinanza n. 2657/2019 in merito alla vexata quaestio rappresentata dalla verifica del diritto ipotecario nel caso di fallimento del terzo datore.
Qui si riferisce invece di un nuovo pronunciamento sul tema, la sentenza della Prima Sezione Civile n. 18790/2019, pubblicata il 12 luglio 2019, con cui gli Ermellini «ripristinano» il precedente consolidato orientamento giurisprudenziale.
Il provvedimento è di particolare interesse, non solo perché riafferma il principio, che era andato maturando in vigenza della legge fallimentare - sia ante che post riforma - della non partecipazione del titolare di un diritto di garanzia ipotecaria (o pignoratizia) al procedimento di accertamento dello stato passivo del terzo datore fallito, ma anche perché in motivazione i Giudici fanno espresso riferimento, in chiave interpretativa delle norme attualmente vigenti, al «Codice della crisi e dell'insolvenza» (inde CCI) introdotto dal decreto legislativo 12 gennaio 2019, n.12 in attuazione della legge delega 19 ottobre 2017, n. 155 «Delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi d'impresa e dell'insolvenza».
Mette in buon conto, a questo punto, procedere con ordine.
La questione affrontata è, giova ricordarlo, se il titolare di una garanzia reale (pegno o ipoteca) prestata dal soggetto poi fallito diverso dal debitore possa, o meno, ottenere l'ammissione al passivo e, nel caso di risposta negativa, se possa comunque far valere il proprio diritto di prelazione in sede di riparto dell'attivo fallimentare.
La situazione costituisce quella particolare condizione di dissociazione tra debito e garanzia (cd. responsabilità senza debito) in cui: da una parte vi è il debito con il reciproco credito, che attinge per la sua soddisfazione alla garanzia generica costituita dall'intero patrimonio del debitore ex art. 2740 c.c.; dall'altra parte vi è invece la responsabilità del terzo che ha costituito in garanzia a favore del creditore specifici beni. Ebbene, nel caso di inadempimento dell'obbligato principale, il creditore potrà procedere in executivis sui beni in garanzia, pur non appartenendo essi al patrimonio del debitore.
Sulla base di tale premessa e considerato il tenore dell'art. 52 l.fall. - nella versione prima delle modifiche introdotte dal D.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5[2] - la Suprema Corte aveva costantemente affermato che il mero titolare di prelazione, non essendo creditore concorsuale, non può divenire creditore concorrente mediante l'ammissione al passivo, ma che ad esso è riconosciuta la facoltà di partecipare alla ripartizione dell'attivo su quanto ricavato dalla liquidazione del bene oggetto di garanzia[3].
La riscrittura dell'art. 52 l.fall. ad opera del D. Lgs. 5/2006, con l'ampliamento a «ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare» dell'accertamento secondo le norme stabilite dal Capo V, non aveva modificato l'orientamento dei Giudici di legittimità, secondo cui la disposizione «non può riferirsi ai diritti reali di garanzia costituiti dal terzo non debitore (o terzo datore della garanzia), atteso che questi si pongono al di fuori dello stato passivo fallimentare perché il terzo non è creditore diretto del fallito e perché, in ogni caso, ove anche si volesse estendere la detta disposizione fino a comprendere anche quell'accertamento del diritto verso il terzo datore di ipoteca, si dovrebbe introdurre un anomalo contraddittorio con una ulteriore parte, quella corrispondente al debitore garantito proprio dall'ipoteca data dal terzo»[4].
Con l'ordinanza n. 2657/2019, che sovverte l'indirizzo fino ad allora consolidato e muove dall'assunto, opposto al precedente, che il dato letterale dell'art. 52 l.fall. - come modificato dal D.lgs. 5/2006 - impone di ricomprendere tra «ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare» anche i diritti reali di garanzia, gli Ermellini avevano invece concluso che il titolare di prelazione, al fine di poter partecipare al riparto, ha l'obbligo di sottostare alle regole dell'accertamento di cui al Capo V della legge fallimentare, ritenendo inoltre non "necessaria l'instaurazione del contraddittorio nei confronti di un soggetto la cui obbligazione, a ben vedere, non è toccata da una decisione riguardante esclusivamente il concorso degli aventi diritto nel fallimento del terzo proprietario del bene ipotecato".
Con la sentenza qui in commento la Suprema Corte abbraccia nuovamente il precedente consolidato orientamento, a tenore del quale «il mero beneficiario di prelazione ipotecaria o (come nella specie) pignoratizia non è creditore concorsuale e, pertanto, i suoi diritti non possono essere accertati nelle forme ordinarie di cui al capo V della legge fallimentare»[5]. Nell'arresto viene ribadito anche che la soddisfazione del titolare della prelazione nell'ambito della procedura esecutiva concorsuale è assicurata dalla facoltà di intervento nel procedimento di riparto, a tal fine dovendosi interpretare l'obbligo, a carico del curatore, previsto dall'art. 107, comma 3 l.fall., di dare notizia ai prelatizi delle operazioni di vendita degli immobili oggetto di garanzia.
Con un obiter dictum la sentenza affronta poi anche il tema della necessità, nel caso si intendesse approdare alla tesi della obbligatorietà dell'utilizzo del procedimento di accertamento del passivo previsto dal capo V della legge fallimentare, di introdurre un anomalo contraddittorio con il debitore garantito. In particolare alle argomentazioni sul punto recepite nell'ordinanza n. 2657/2019 (non appare «necessaria l'instaurazione del contraddittorio nei confronti di un soggetto la cui obbligazione, a ben vedere, non è toccata da una decisione riguardante esclusivamente il concorso degli aventi diritto nel fallimento del terzo proprietario del bene ipotecato»), si replica oggi che «l'accertamento del diritto reale di garanzia di cui titolare è il terzo, è comunque finalizzato a consentire ad esso la partecipazione al riparto delle somme ricavate dalla vendita dell'immobile oggetto di garanzia a suo favore, nella misura che risulterà appunto all'esito della verifica condotta secondo le regole di cui al Capo V della legge fallimentare. Rispetto a tale necessità, di determinazione della somma sia nell'an che nel quantum, non sembra pertanto potersi ritenere l'integrazione del contraddittorio con il terzo (debitore) del tutto irrilevante, in quanto solo attraverso tale meccanismo processuale appare possibile consentire al curatore di svolgere le contestazioni concernenti l'esistenza e l'entità del credito oggetto di garanzia. In assenza di tale situazione processuale il rischio è infatti quello di ammettere al concorso prima e di soddisfare poi un credito (in tutto o in parte) inesistente, minando così alla radice l'efficacia del credito di regresso spettante ex art. 2871 c.c. al fallimento».
Fin qui, il processo logico deduttivo su cui poggiano i motivi che sorreggono la sentenza in commento, fa perno sulla vigente legge fallimentare.
C'è poi una parte della pronuncia che è invece dedicata all'uso, in chiave evolutiva e interpretativa, della disposizione che, sul tema, sono contenute nel CCI.
Viene cioè effettuata un'analisi comparata tra la statuizione giurisprudenziale fatta propria in sentenza e le nuove disposizioni che nel CCI si occupano della fattispecie, al fine non solo di verificarne la tenuta alla luce della novella, ma addirittura per concludere che la scelta legislativa «corrobora» l'orientamento giurisprudenziale espresso.
Al di là del caso specifico («Anche la nuova regolazione della crisi d'impresa, che, nonostante l'ampia vacatio legis, può ragionevolmente assurgere a significativo indice interpretativo delle norme tuttora vigenti, conferma, dunque, come sia preferibile, rispetto alla contraria soluzione adottata da Cass. n. 2657 del 2019, quella già fatta propria dal maggioritario orientamento espresso da Cass. n. 2540 del 2016, Cass. n. 27504 del 2017, Cass. n. 18082 del 2018 e, da ultimo, da Cass. n. 12816 del 2019, a tenore del quale, quindi, il mero beneficiario di prelazione ipotecaria o (come nella specie) pignoratizia non è un creditore concorsuale e, pertanto, i suoi diritti non possono essere accertati nelle forme ordinarie di cui al capo V della legge fallimentare»), ciò che preme evidenziare è la novità, in se stessa rappresentata, della funzione interpretativa assunta dalle nuove disposizioni contenute nel CCI.
È appena il caso di ricordare che, se è vero che per la maggior parte delle disposizioni del CCI è previsto un periodo di vacatio legis di diciotto mesi (cfr. art. 389 CCI) e che le procedure pendenti alla data di entrata in vigore del CCI (agosto 2020) saranno comunque definite secondo l'attuale legge fallimentare (cfr. art. 390 CCI), talché anche le relative controversie dovranno essere regolate, ratione temporis, sulla base della vigente disciplina; appare però altresì verosimile che i tribunali faranno sempre più frequente ricorso all'uso, in chiave interpretativa del vigente assetto normativo, di quelle disposizioni contenute nel CCI che non hanno contenuto innovativo.
Ciò che oggi ci appare pertanto come un'assoluta novità è probabile che nel tempo sia destinato a divenire invece un canone ermeneutico sempre più praticato dai giudici, a qualsiasi livello, per la definizione di questioni attinenti la vigente legge fallimentare, esercizio questo a cui pertanto anche gli operatori dovranno guardare con attenzione per cercare di risolvere anticipatamente le problematiche interpretative che, giorno per giorno, si parano loro davanti quando affrontano il diritto della crisi d'impresa.
[1] Cfr. Della Santina, "L'accertamento del diritto ipotecario nel caso di fallimento del terzo datore (note a margine dell'ordinanza della Suprema Corte di cassazione n. 2657/2019)", in www.ilcaso.it, 28 marzo 2019.
[2] «Il fallimento apre il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito.
Ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal capo V, salvo diverse disposizioni della legge.»
[3] Nella sentenza qui in commento la completa rassegna giurisprudenziale
[4] Così Cassazione n. 2540/2016
[5] Invero già con l'ordinanza n. 12816/2019, di poco precedente alla sentenza qui in commento, la Suprema Corte aveva «ripristinato» il previgente indirizzo.