Discorso tenuto il 7 giugno 2023 all'MIT di Boston da Mario Draghi insignito del prestigioso "Miriam Pozen Prize"
Pubblicato il 09/06/23 19:57 [Articolo 2083]






 

Signore e signori,

E’ meraviglioso tornare al Mit tra tanti amici. Ed è un grande onore ricevere il Premio Miriam Pozen. Nel 2020, il Premio Miriam Pozen inaugurale è stato assegnato a Stan Fischer. Stan è stato un vero gigante della politica, grazie al suo equilibrio, alla sua acutezza e alla sua esperienza. Per me è stato anche un amico, un mentore, un modello. Mi sento immensamente privilegiato a seguire le sue orme. 

La mia conferenza di oggi attingerà dalle mie esperienze come banchiere centrale e primo ministro italiano. Vorrei soffermarmi sui due eventi che, insieme alle crescenti tensioni con la Cina, hanno dominato le relazioni internazionali e l’economia globale nell’ultimo anno e mezzo: la guerra in Ucraina e il ritorno dell’inflazione. Questi eventi hanno colto di sorpresa i responsabili politici.

Pensavamo che le istituzioni che avevamo costruito, insieme ai legami economici e commerciali, sarebbero state sufficienti a prevenire una nuova guerra di aggressione in Europa. E credevamo che le banche centrali indipendenti avessero acquisito la capacità di contenere le aspettative di inflazione, al punto da temere una stagnazione secolare. Con il senno di poi, sosterrò che questi due eventi epocali non sono nati dal nulla e non sono scollegati tra loro. Sono piuttosto entrambi la conseguenza di un cambio di paradigma che negli ultimi venticinque anni ha silenziosamente spostato la geopolitica globale dalla competizione al conflitto. 

Questo cambio di paradigma potrebbe portare a tassi di crescita potenziale più bassi e richiederebbe politiche che portino a deficit di bilancio e tassi di interesse più elevati. Negli anni Novanta, molti credevano che il processo di globalizzazione fosse inarrestabile e che avrebbe diffuso i valori liberali e democratici in tutto il mondo. Lo sviluppo del settore privato, il buon funzionamento dei mercati, la straordinaria crescita degli investimenti esteri diretti e l’espansione del commercio mondiale erano obiettivi visti come favorevoli non solo alla prosperità per tutti, ma anche alla democrazia per tutti. 

L’opinione dominante era che i valori globali sarebbero stati convergenti e che questa convergenza avrebbe rimodellato le relazioni internazionali per i decenni a venire. E si presumeva che le istituzioni internazionali sarebbero state sufficienti a correggere le distorsioni derivanti dalla globalizzazione – ad esempio in materia di clima, concorrenza e diritti di proprietà – e che le istituzioni nazionali avrebbero corretto le disuguaglianze. Due esempi hanno rivelato le carenze di questa visione consensuale della globalizzazione.

Il primo, forse il più simbolico e consequenziale, è stato l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), nonostante non fosse (e non sia) un’economia di mercato, nell’ipotesi che lo sarebbe diventata. Sebbene questa decisione abbia portato a una storica riduzione della povertà globale e abbia avvantaggiato i consumatori e le imprese occidentali, ha avuto un forte impatto sociale, politico e ambientale. La Wto si è dimostrata incapace di contenerlo. 

In secondo luogo, la pretesa che la diffusione del libero mercato avrebbe diffuso anche i valori della democrazia liberale è stata infranta dall’esempio della Russia. L’occidente ha visto l’ascesa di Vladimir Putin come un segno dell’inevitabile modernizzazione della Russia, e ha accolto Mosca nelle sedi multilaterali, a partire dal G7 e dal G20. Abbiamo ipotizzato che i legami economici e commerciali che abbiamo creato con la Russia sarebbero stati una garanzia di prosperità, un motore di democratizzazione, un preludio a una pace duratura. Tuttavia, Putin non ha mai accettato i cambiamenti politici e territoriali dopo la fine dell’Unione sovietica. 

Dalla Georgia alla Crimea, il governo russo ha violato ripetutamente la sacralità dei confini internazionali, perseguendo un piano premeditato per ripristinare il suo passato imperiale. I contratti che avevamo firmato con la Russia, in particolare per la fornitura di gas naturale, sarebbero diventati uno strumento di ricatto. Mentre noi eravamo impegnati a celebrare la fine della storia, la storia stava preparando il suo ritorno. Anche le nostre istituzioni nazionali si sono dimostrate sorprese da questa sfida. La rivolta contro l’ordine liberale multilaterale ha preso forza, a causa della sua percepita iniquità e della mancanza di garanzie. 

Nel 2016, l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti e il referendum sulla Brexit in Europa hanno mostrato una diffusa insoddisfazione nei confronti del modello economico e politico esistente. Gli elettori chiedevano una maggiore protezione e un maggiore controllo. Volevano un ruolo più centrale per lo stato, che è tornato in primo piano. La pandemia di Covid-19 ha accelerato la tendenza ad allontanarsi dal primato dei mercati.

In Europa ci siamo subito resi conto che troppe catene di approvvigionamento erano fuori dal nostro controllo interno in un momento critico. L’esempio più chiaro e pericoloso è stata la catena di fornitura di beni medici essenziali – dai dispositivi di protezione ai vaccini – dove i governi hanno dovuto assumere una posizione più assertiva. Anche il settore pubblico ha assunto un ruolo centrale nel sostenere l’economia durante le chiusure e nell’avviare la ripresa alla riapertura. I bilanci statali hanno protetto i posti di lavoro, i salari e le imprese, una mossa che si è rivelata saggia per limitare i danni dello choc pandemico. 

Ma proprio quando pensavamo di aver vinto la guerra contro il Covid-19, un nuovo conflitto è arrivato a minacciare la nostra prosperità e sicurezza collettiva: la brutale invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Non si è trattato di un atto di follia imprevedibile. E’ stato il premeditato passo successivo dell’agenda del presidente Putin e un duro colpo per l’Ue. I valori esistenziali dell’Unione europea sono la pace, la libertà e il rispetto della sovranità democratica. Sono i valori emersi dopo il bagno di sangue della Seconda guerra mondiale. Ed è per questo motivo che per gli Stati Uniti, l’Europa e i suoi alleati non c’è alternativa a garantire che l’Ucraina vinca questa guerra. 

Accettare una vittoria russa o un pareggio confuso indebolirebbe fatalmente altri stati confinanti e invierebbe agli autocrati il messaggio che l’Ue è pronta a scendere a compromessi su ciò che rappresenta, su ciò che è. Segnalerebbe inoltre ai nostri partner orientali che il nostro impegno per la loro libertà e indipendenza – un pilastro della nostra politica estera – non è poi così incrollabile. In breve, infliggerebbe un colpo esistenziale all’Ue. Vincere questa guerra per l’Europa significa avere una pace stabile, e oggi questa prospettiva appare difficile.

L’invasione dell’Ucraina fa parte di una strategia a lungo termine e delirante di Putin: recuperare l’influenza passata dell’Unione sovietica, e l’esistenza del suo governo è ormai intimamente legata al suo successo. Ci vorrebbe un cambiamento politico interno a Mosca perché la Russia abbandoni i suoi obiettivi, ma non c’è alcun segno che tale cambiamento si verifichi. Le conseguenze geopolitiche di un conflitto prolungato al confine orientale dell’Europa sono molto significative. Quanto prima ce ne renderemo conto, tanto meglio saremo preparati. 

In primo luogo, l’Ue deve essere disposta a rafforzare le proprie capacità di difesa. Questo è essenziale per aiutare l’Ucraina per tutto il tempo necessario e per fornire una deterrenza significativa contro la Russia.

In secondo luogo, dobbiamo essere pronti a iniziare un percorso con l’Ucraina che porti alla sua adesione alla Nato. L’alternativa è inviare sempre più armi e costruire un accordo tra l’Ucraina e tutti i suoi alleati in questa guerra con elementi di difesa reciproca che ricordino il trattato che lega gli Stati Uniti alla Corea del sud. Ma un tale accordo sarebbe difficile da raggiungere e da attuare. Non avrebbe pari potere rispetto alla Russia e, come ha osservato Henry Kissinger, non legherebbe la strategia nazionale dell’Ucraina a quella globale. Inoltre, credo che il contesto storico e politico sia diverso da quello coreano. Se questo si dovesse rivelare il corso degli eventi più probabile, l’incertezza e l’instabilità che ne deriverebbero potrebbero essere notevoli.

In terzo luogo, dobbiamo prepararci a un periodo prolungato in cui l’economia globale si comporterà in modo molto diverso dal recente passato. Ed è qui che si intersecano i cambiamenti geopolitici e le dinamiche inflazionistiche. La guerra in Ucraina ha contribuito all’aumento delle pressioni inflazionistiche a breve termine, ma è anche probabile che inneschi cambiamenti duraturi che preannunciano un aumento dell’inflazione in futuro.

Nel breve periodo, l’impennata dei prezzi dell’energia, l’aggravarsi delle strozzature dal lato dell’offerta a causa dell’interruzione delle catene del valore e le perturbazioni nei mercati dei cereali e di altri prodotti alimentari hanno spinto l’inflazione a livelli che non si vedevano da decenni.

Questi fattori dal lato dell’offerta sono stati inizialmente la principale fonte di inflazione in Europa, in quanto le imprese hanno dovuto aumentare i prezzi in risposta all’aumento dei costi energetici e di altro tipo. Negli Stati Uniti, le successive ondate di stimoli fiscali hanno reso l’inflazione un fenomeno prevalentemente dal lato della domanda. In entrambi i casi, però, le banche centrali sono dovute intervenire per riportare il tasso d’inflazione verso i loro obiettivi, un’azione che avevano quasi dimenticato dopo un decennio di bassa inflazione. 

Con il senno di poi, è probabile che le autorità monetarie avrebbero dovuto diagnosticare in anticipo il ritorno di un’inflazione persistente. Ma soprattutto in Europa, data la natura di choc guidato dall’offerta, non è chiaro se agire più rapidamente avrebbe arginato di molto l’accelerazione dei prezzi. L’incapacità dei governi di accordarsi tempestivamente su un tetto di prezzo per il gas naturale ha reso il lavoro della Banca centrale europea molto più difficile. In ogni caso, quando le banche centrali sono intervenute, hanno dimostrato un forte impegno a tenere sotto controllo l’inflazione e hanno in gran parte recuperato il tempo perduto. L’aumento dei tassi si sta ora diffondendo nell’economia e ci sono segnali di rallentamento nel settore manifatturiero. Tuttavia, i servizi e soprattutto il turismo rimangono forti e i mercati del lavoro rimangono generalmente rigidi rispetto agli standard storici. 

L’inflazione si sta dimostrando più resiliente di quanto le banche centrali avessero inizialmente ipotizzato. La lotta contro l’inflazione non è finita e probabilmente richiederà una cauta prosecuzione della stretta monetaria, sia attraverso tassi di interesse ancora più elevati, sia allungando i tempi per invertire la rotta. Tuttavia, le diverse fonti dello choc inflazionistico nelle varie giurisdizioni hanno implicazioni per il compito che attende le banche centrali. 

Negli Stati Uniti, l’inflazione è stata in gran parte trainata da un’impennata del reddito disponibile delle famiglie durante la pandemia e da un conseguente aumento del risparmio, che da allora è stato progressivamente ridotto. Un fattore chiave sono stati i trasferimenti fiscali durante e dopo la pandemia, che hanno più che compensato la crescita del reddito disponibile superiore al trend nel 2020 e 2021. Tuttavia, il reddito disponibile è ora in gran parte tornato al trend e la politica fiscale è tornata a un orientamento meno espansivo. Ciò suggerisce che l’attuale impulso ai consumi – e la pressione sui prezzi che ha prodotto – svanirà una volta esaurito il risparmio in eccesso. Inoltre, anche se la creazione di posti di lavoro negli Stati Uniti rimane forte, vi sono dubbi sul fatto che i salari assumeranno il ruolo di motore delle pressioni inflazionistiche una volta che la spesa si sarà normalizzata.

I salari nominali sono fortemente aumentati, ma manca l’evidenza che la crescita dei salari abbia guidato la crescita dei prezzi. Piuttosto, i salari sembrano aver risposto allo stesso fattore comune di eccesso di domanda e dovrebbero quindi diminuire man mano che la domanda diminuisce. Nell’area dell’euro le sfide sono diverse. 

Finora l’inflazione non è stata trainata da un eccesso di domanda. A differenza degli Stati Uniti, i consumi reali totali nell’area dell’euro sono ancora al di sotto del livello pre-pandemico e ben al di sotto del trend pre-pandemico. Questo netto contrasto riflette il fatto che l’area dell’euro ha subìto un enorme choc delle ragioni di scambio a causa della crisi energetica, che ha allo stesso tempo aumentato i costi e trasferito le entrate al resto del mondo. Le imprese hanno reagito finora modificando il loro comportamento in materia di prezzi: anziché assorbire i costi più elevati nei margini, come avevano fatto per la maggior parte del decennio precedente, hanno trasferito tali costi sui consumatori, mantenendo o addirittura aumentando i loro profitti.

I lavoratori, invece, non sono riusciti a evitare una perdita di reddito reale. Alla fine dello scorso anno i salari reali erano ancora inferiori di circa il 4 per cento rispetto ai livelli pre-pandemia. E, data la natura inerziale della maggior parte delle contrattazioni salariali in Europa, questo processo si protrarrà nel tempo fino al recupero delle perdite salariali reali.

Un periodo più lungo di aumento dei salari comporta naturalmente rischi più elevati che l’inflazione diventi persistente, soprattutto se le imprese continueranno a mantenere il comportamento dei prezzi che abbiamo osservato finora. Per eliminare questi rischi, quindi, la domanda deve essere sufficientemente contenuta da ridurre il potere di determinazione dei prezzi e impedire alle imprese di trasferire ai consumatori i futuri aumenti salariali. D’altra parte, con la diminuzione della domanda, le imprese potrebbero assorbire parte degli aumenti salariali impliciti nei contratti di lavoro per i prossimi 1-2 anni. Al netto di altri fattori, il grado di stretta monetaria futura dipende dall’interazione tra imprese e manodopera e dalla profondità degli effetti delle decisioni monetarie passate.

In generale, non mi aspetto che problemi di stabilità finanziaria ostacolino il processo. Le attuali difficoltà bancarie non sono in alcun modo paragonabili alla crisi finanziaria, e andrebbero affrontate con misure ad hoc, come è stato fatto finora. Date le dimensioni limitate di queste crisi, i governi dovrebbero finanziare, quando necessario, ogni intervento necessario, evitando di creare un conflitto per le banche centrali tra il perseguimento degli obiettivi di politica monetaria e quelli di stabilità finanziaria. L’esperienza degli anni Settanta è ancora ben chiara a tutti noi e oggi né i governi né le banche centrali vogliono assistere a un de-ancoraggio delle aspettative di inflazione.

Alla fine, le banche centrali riusciranno a riportare il tasso di inflazione ai loro obiettivi. Ma quando le conseguenze a lungo termine della guerra diventeranno visibili, l’economia avrà un aspetto molto diverso da quello a cui siamo abituati. Una guerra prolungata tra Russia e Ucraina e le continue tensioni geopolitiche con la Cina continueranno a pesare sul tasso di crescita potenziale dell’economia globale.

Inoltre, il desiderio di garantire che le catene di approvvigionamento siano resistenti agli choc geopolitici significa che i paesi saranno più disposti ad acquistare beni da fornitori affidabili e affini, anche se non sono i più economici, e a investire nel reshoring della produzione critica in patria. Questo porterà a un aumento della capacità produttiva nelle economie occidentali, ma non necessariamente della portata e dell’efficienza necessarie a garantire che l’inflazione rimanga bassa come in passato. Allo stesso tempo, mi aspetto che i governi gestiscano deficit di bilancio sempre più elevati. 

Le sfide che dobbiamo affrontare – dalla crisi climatica, alla necessità di rafforzare le nostre catene di approvvigionamento critiche, alla difesa, soprattutto nell’Ue – richiederanno investimenti pubblici sostanziali che non possono essere finanziati solo attraverso aumenti delle tasse. Questi livelli più elevati di spesa pubblica eserciteranno un’ulteriore pressione sull’inflazione, in aggiunta ad altri possibili choc dal lato dell’offerta di energia e altri beni. 

Nel lungo periodo, è probabile che i tassi di interesse rimangano più alti di quanto non siano stati nell’ultimo decennio. Allo stesso tempo, la bassa crescita potenziale, i tassi più alti e gli elevati livelli di debito post-pandemia sono un cocktail volatile – e le banche centrali che tollerano l’inflazione non saranno la soluzione.

Le banche centrali devono certamente essere molto attente al loro impatto sulla crescita, in modo da evitare inutili sofferenze. Ma il compito di ridisegnare le politiche fiscali in questo nuovo contesto spetterà principalmente ai governi. Dovranno imparare di nuovo a vivere in un mondo in cui lo spazio fiscale non è infinito, come sembrava essere il caso quando i tassi di crescita superavano sostanzialmente i costi di finanziamento.

E, se alcune delle lezioni degli ultimi trent’anni sono state comprese, sarà necessario prestare molta più attenzione alla composizione della politica fiscale. 

Questa dovrebbe essere concepita per aumentare la crescita potenziale, proteggendo e includendo allo stesso tempo coloro che hanno più bisogno di aiuto. Naturalmente questo quadro potrebbe cambiare radicalmente se un’ondata di potenti innovazioni, come l’intelligenza artificiale, dovessero scuotere il mondo e aumentare la crescita globale. Sebbene sia difficile prevedere tutte le implicazioni di un simile evento, una cosa è chiara: i governi, gli stati e le istituzioni devono rispondere in modo proattivo per garantire l’inclusione e la protezione di tutti coloro che sarebbero influenzati negativamente da questi sviluppi.

In tutto questo, l’Ue dovrà affrontare sfide sovranazionali senza precedenti. L’Ue è stata per molti versi al centro dell’esperimento di globalizzazione, ma considerare la creazione del mercato unico e dell’euro solo come un’estensione di questo processo sarebbe una lettura parziale. Il progetto è sempre stato più ambizioso. L’Ue è stata eccezionale in due importanti dimensioni.

Il modello sociale europeo ha garantito una rete di sicurezza più solida per coloro che sono rimasti indietro rispetto al resto del mondo. Inoltre, l’Ue disponeva di regole e istituzioni collettive forti che, per quanto imperfette, garantivano una maggiore protezione contro gli effetti collaterali del libero mercato. Ma l’Ue non è stata concepita per trasformare il peso economico in potere militare e diplomatico. Ecco perché la risposta europea alla Russia rappresenta una svolta.

Ora, la guerra in Ucraina, come mai prima d’ora, ha dimostrato l’unità dell’Ue nel difendere i suoi valori fondanti, andando oltre le priorità nazionali dei singoli paesi. Questa unità sarà cruciale negli anni a venire. Sarà fondamentale per ridisegnare l’Unione in modo da accogliere al suo interno l’Ucraina, i paesi balcanici e quelli dell’Europa orientale; per organizzare un sistema di difesa europeo che sia complementare e accrescitivo rispetto alla Nato; e per superare tutte le altre sfide sovranazionali che dobbiamo affrontare collettivamente: in primis la transizione climatica e la sicurezza energetica, per adattare le nostre istituzioni, e soprattutto il processo decisionale, al nuovo contesto. E tutto questo senza indebolire la protezione sociale che rende l’Ue unica.

Insisto sull’unità perché è l’unica strada percorribile: i singoli paesi europei, per quanto forti, sono troppo piccoli per affrontare queste sfide da soli. E più queste sfide sono grandi, più il cammino verso un’unica entità politica, economica e sociale, per quanto lungo e difficile, diventa inevitabile. Il nostro viaggio, iniziato molti anni fa e accelerato con la creazione dell’euro, continua.

Oggi ho parlato dei nostri tempi difficili. Ma i tempi non sono mai stati facili. Sono arrivato qui nell’agosto del 1972. Mentre ero studente, c’è stata la guerra dello Yom Kippur, diversi choc dei prezzi del petrolio, il crollo del sistema monetario internazionale, il terrorismo imperversava in tutto il mondo e l’inflazione era fuori controllo, solo per citare alcuni eventi di quel tempo, e naturalmente eravamo in piena Guerra fredda. Siamo stati in grado di superare queste sfide, e sono certo che lo saremo anche in futuro, grazie a donne e uomini preparati e ispirati.

Voglio rendere un tributo di gratitudine al Mit e più in generale a tutte le istituzioni scientifiche ed educative per il loro immenso contributo nel preparare e ispirare generazioni di donne e uomini simili nel loro servizio al mondo.

Grazie.

 























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