Redazione del bilancio e dintorni ai tempi del Coronavirus: prime riflessioni
Pubblicato il 11/04/20 02:00 [Articolo 893]






Il saggio è pubblicato sul libro curato da M. Irrera:
"Il diritto dell'emergenza: profili societari, concorsuali, bancari e contrattuali"

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Sommario: 1. Un quadro preliminare dei problemi. - 2. - I bilanci 2019. Tempi e modalità di approvazione. - 3. (Segue). La rappresentazione degli effetti dell'emergenza sanitaria quale fatto rilevante intervenuto dopo la chiusura dell'esercizio - 4. (Segue). Limiti alla distribuzioni di dividendi. - 5. I bilanci 2020. Presupposti per la valutazione delle voci di bilancio nella prospettiva della continuità. - 6. Due strategie di "gestione" delle perdite da Coronavirus a confronto. - 7. - Possibili linee di intervento sul fronte dei principi contabili.


1. Un quadro preliminare dei problemi.

L'emergenza epidemiologica da Covid-19, avendo comportato il blocco di tutte le attività produttive non essenziali, ha inciso fortemente sul normale svolgimento dell'attività d'impresa per molte società, interessate in modo diretto e/o indiretto da tale misura. Una simile situazione pone notevoli criticità anche per quel che riguarda la redazione del bilancio. Invero, i problemi suscettibili di porsi sono diversi a seconda che si tratti dei bilanci relativi al 2019, peraltro in via di approvazione proprio in questo periodo, oppure quelli del 2020.

Con riferimento ai primi, i problemi che sono emersi riguardano anzitutto i tempi e le modalità di svolgimento delle assemblee, essendo oramai alle porte il termine per la loro l'approvazione (par. 2); e secondariamente l'informativa da fornire nella nota integrativa in ordine alla epidemia da Coronavirus quale fatto rilevante intervenuto dopo la chiusura dell'esercizio (par. 3). Un'ulteriore questione riguarda i limiti alla distribuzione dei dividendi introdotti dal d.l. 8 aprile 2020, n. 23 (c.d. "Decreto liquidità") per le società che beneficiano di finanziamenti dietro garanzia rilasciata da SACE s.p.a. (par. 4).

Per quel che riguarda i secondi, ossia i bilanci del 2020, il tema è ancora parzialmente aperto. L'art. 7 del d.l. 8 aprile 2020, n. 23 ha stabilito che le società in normale stato di funzionamento al 23 febbraio 2020 possono continuare a redigere, secondo una prospettiva di going concern, anche i bilanci redatti nel corso del 2020, compreso quello di chiusura (par. 5). Tale misura si combina con quella contenuta nell'art. 6 del medesimo decreto che ha sospeso temporaneamente l'applicazione della regola "ricapitalizza o liquida"; nonché la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale ai sensi degli artt. 2484, n. 4, e 2545-duodecies, c.c. (par. 6). Resta tuttavia da verificare se a questa strategia di "gestione politica" delle perdite da Coronavirus, operante sul terreno del diritto societario, ne possano essere affiancate altre che agiscano invece attraverso i principi contabili (par. 7).


2. I bilanci 2019. Tempi e modalità di approvazione.

Come già accennato, per i bilanci chiusi al 31 dicembre 2019 i primi problemi che si sono posti hanno riguardato i termini e le modalità per la loro approvazione. A questo problema ha dato risposta l'art. 106 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. decreto "Cura Italia"), denominato "Norme in materia di svolgimento delle assemblee di società", con cui sono state introdotte disposizioni emergenziali su entrambe le questioni[1].

Per quel che riguarda i tempi di approvazione, la norma in questione ha generalizzato la possibilità di estendere fino a 180 giorni dalla chiusura dell'esercizio il termine per la convocazione dell'assemblea annuale di approvazione del bilancio. Tale possibilità, secondo quanto stabilito dagli artt. 2364, comma 2 e 2478-bis c.c., è normalmente consentita solamente se prevista nello statuto e in ogni caso limitatamente alle società obbligate a redigere il bilancio consolidato ovvero a quelle che abbiano particolari esigenze relative alla struttura e all'oggetto delle società, fermo restando l'obbligo per gli amministratori di indicare nella relazione sulla gestione le ragioni della dilazione. Tale dilazione non è da intendersi obbligatoria: le società infatti rimangono libere di usufruirne o meno, salva la necessità di darne atto nella relazione sulla gestione pur senza motivarne le ragioni, dal momento che essa è per legge dovuta alla emergenza sanitaria nazionale.

In ogni caso, in coerenza con gli scopi di questo lavoro, di analizzare alcune ricadute dell'emergenza sanitaria e delle relative misure di contrasto sulla redazione del bilancio, pare doversi evidenziare che l'esercizio dell'opzione di far slittare l'approvazione del bilancio non è neutra perché ad essa consegue la necessità di offrire nel bilancio 2019 informazioni maggiormente dettagliate. Le imprese che usufruiscono della dilazione, infatti, sono in possesso di maggiori informazioni: ad esempio con riferimento ai ricavi il dato da riportare è quello relativo ai primi cinque mesi del 2020, mentre nel caso di approvazione del bilancio nel termine usuale è quello dei primi tre mei. Questa considerazione, peraltro, può essere estesa anche alle società che hanno l'esercizio a cavallo dell'anno solare (es. 1° luglio 2019- 30 giugno 2020)[2].

Per quanto riguarda le modalità di svolgimento delle assemblee, allo scopo di evitare assembramenti, l'art. 106, stabilisce regole applicabili in via emergenziale fino al 31 luglio 2020 e che sono differenziate a seconda che si tratti di società di diritto comune oppure di società quotate, con strumenti finanziari diffusi fra il pubblico o con titoli negoziati su un sistema multilaterale di negoziazione. Inoltre, il medesimo articolo detta regole specifiche per le banche popolari, le banche di credito cooperativo, le società cooperative e le mutue assicuratrici e, infine, per le società a controllo pubblico[3].


3. (Segue). La rappresentazione degli effetti dell'emergenza sanitaria quale fatto rilevante intervenuto dopo la chiusura dell'esercizio.

A norma dell'art. 2427, comma 1, numero 22-quater, c.c. il documento in cui devono essere rappresentati «la natura e l'effetto patrimoniale, finanziario ed economico dei fatti di rilievo avvenuti dopo la chiusura dell'esercizio» è costituito dalla nota integrativa. Per ottemperare a questa previsione, utili indicazioni operative si traggono dal principio contabile OIC 29[4] ove, al par. 59, si distingue tra tre tipologie di fatti intervenuti dopo la chiusura dell'esercizio: i) i fatti successivi che devono essere recepiti nei valori di bilancio; ii) i fatti successivi che non devono essere recepiti nei valori di bilancio; e infine iii) i fatti successivi che possono incidere sulla continuità aziendale.

L'emergenza da Coronavirus, per le tempistiche con cui si è verificata e il grado di gravità che la connota, è suscettibile di rientrare nella seconda categoria nonché, nei casi più critici, anche nella terza. Alla prima categoria infatti appartengono solamente «quei fatti positivi e/o negativi che evidenziano condizioni già esistenti alla data di riferimento del bilancio, ma che si manifestano solo dopo la chiusura dell'esercizio e che richiedono modifiche ai valori delle attività e passività in bilancio, in conformità al postulato della competenza».

In ogni caso, il termine entro cui il fatto rilevante intervenuto dopo la chiusura dell'esercizio si deve verificare perché sia obbligatorio tenerne conto in bilancio è la data di formazione dello stesso; con la precisazione che se un simile fatto si verifica tra tale data e quella di approvazione, gli amministratori debbono adeguatamente modificare il progetto di bilancio (OIC 29, par. 62).

Tanto considerato, salvo che non si tratti di società che abbiano approvato il bilancio a febbraio, per tutte le altre si pone la necessità di rappresentare l'impatto dell'emergenza sanitaria da Covid-19 già nella nota integrativa del bilancio 2019. Non tutte le società però sono soggette all'obbligo di redigere la nota integrativa, non lo sono per esempio le micro-imprese che abbiano optato per la redazione del bilancio in forma iper-semplificata ai sensi dell'art. 2435-ter, c.c. Tuttavia, pare opportuno che una simile informazione venga resa anche da parte di tali società in virtù dell'obbligo contenuto nell'art. 2423, comma 3, c.c. di fornire le informazioni complementari necessarie per soddisfare l'obbligo della rappresentazione chiara, veritiera e corretta. Con riferimento a tali società, senza arrivare ad esigere la redazione della nota integrativa, le informazioni potrebbero essere collocate in una semplice "nota informativa" (per usare una espressione impiegata dal d.l. 8 aprile 2020, n. 23, all'art. 7) oppure in calce alla stato patrimoniale. Allo stesso modo mi pare che dovrebbero procedere persino le società di persone, in considerazione della particolare situazione contingente nonché dello stretto "collegamento" venutosi a creare fra i bilanci (di tutti i tipi sociali) del 2019 e quelli del 2020. Come già accennato, infatti, l'art. 7, d.l. 8 aprile 2020, n. 23 ha previsto, in via emergenziale, che i bilanci 2020 potranno essere predisposti nella prospettiva dello stato di continuità sempre che tale stato fosse sussistente con riferimento al bilancio 2019[5]. Si pone dunque la necessità, anche per le società di persone, di sondare con rigore la tenuta dello stato di continuità rispetto all'esercizio 2019 e di darne adeguata informazione attraverso il bilancio.


4. (Segue). Limiti alla distribuzione di dividendi.

Un'ulteriore questione che potrebbe riguardare anche i bilanci del 2019 attiene ai limiti alla distribuzione dei dividendi e all'acquisto di azioni proprie posti dal decreto liquidità all'art. 1, lett. i), ove si prevede che «l'impresa che beneficia della garanzia [concessa dalla SACE s.p.a.] assume l'impegno che essa, nonché ogni altra impresa che faccia parte del medesimo gruppo cui la prima appartiene, non approvi la distribuzione di dividendi o il riacquisto di azioni nei dodici mesi successivi all'erogazione del finanziamento».

In particolare, la mancata distribuzione dei dividendi non rappresenta un presupposto per ottenere un finanziamento garantito da SACE s.p.a., ma un onere successivo all'erogazione dello stesso, della durata di dodici mesi. In questa prospettiva, esso è suscettibile di operare sia con riferimento agli utili del 2019, sia a quelli del 2020, perché viene a dipendere dai tempi di erogazione del finanziamento. Sul punto va però osservato che, in base alla formulazione della norma, qualora l'erogazione avvenga in un periodo a cavallo tra la deliberazione e la distribuzione, la società non è obbligata ad adottare una delibera di revoca. Resta tuttavia il dubbio se, in virtù del generale principio di diligenza, gli amministratori possano comunque procedere al pagamento dei dividendi[6].

Così com'è formulata la disposizione, il limite è posto in capo ai soci, i quali, nel momento dell'approvazione del bilancio, se la società ha già ottenuto un finanziamento garantito da SACE s.p.a., non possono approvare anche la distribuzione degli eventuali utili[7]. Come è agevole intuire, scopo della norma è quello di evitare che i soci sottraggano alla società liquidità quando essa (come dimostrano la richiesta e l'ottenimento del finanziamento) ne ha bisogno ai fini della gestione. Essendo questa la ratio, c'è da chiedersi se il divieto di approvare la distribuzione degli utili e il riacquisto delle azioni sia espressione di un principio generale oppure abbia carattere speciale. Nel primo caso, dovrebbero ritersi vietate non solo la distribuzione degli utili e il riacquisto di azioni, ma anche ogni altra forma di attribuzione di somme ai soci. In particolare, ci si chiede se resti possibile il rimborso della partecipazione a seguito dell'esercizio del diritto di recesso ad nutum oppure se, senza arrivare ad escludere del tutto la possibilità di recedere, non debba venire in considerazione quantomeno il principio fissato dall'art. 2473-bis, c.c. per le s.r.l., in virtù del quale è escluso il rimborso delle quote mediante riduzione del capitale sociale.


5. I bilanci 2020. Presupposti per la valutazione delle voci di bilancio in una prospettiva di continuità.

Come già anticipato, l'art. 7 del d.l. 8 aprile 2020, n. 23 intitolato "disposizioni temporanee sui principi di redazione del bilancio", ha previsto che «nella redazione del bilancio di esercizio in corso al 31 dicembre, la valutazione delle voci nella prospettiva della continuazione dell'attività, di cui all'art. 2423-bis, comma primo, n. 1) del codice civile può comunque essere operata se risulta sussistente nell'ultimo bilancio di esercizio chiuso in data anteriore al 23 febbraio 2020».

La disposizione è applicabile anche ai bilanci chiusi entro il 23 febbraio 2020 e non ancora approvati e si riferisce alle sole società (di capitali, ma anche di persone) che redigono il bilancio oppure il rendiconto in conformità alle norme civilistiche. Per un simile provvedimento a favore dei soggetti IAS adopter occorrerà attendere un intervento analogo da parte dello standard setter internazionale e della Commissione europea.

Dall'ambito di applicazione della norma in esame restano escluse inoltre quelle società che, indipendentemente dalla crisi indotta dall'epidemia da Covid-19, non versavano in uno stato di continuità già in fase di redazione del bilancio relativo all'esercizio 2019. Per esse infatti l'applicazione dei criteri di valutazione di funzionamento avrebbe effetti fuorvianti, in quanto inficerebbe la fedele rappresentazione della situazione patrimoniale, reddituale e finanziaria della società.

L'intervento del nostro legislatore, nella sua impostazione generale, è apprezzabile perché oltre a prendere atto dell'anomalo grado di incertezza che impedisce alle società di stimare durata, ampiezza e intensità dei fenomeni attuali in un'ottica prospettica, pare anche capace di preservare la funzione informativa del bilancio. Per le società che prima dell'emergenza sanitaria erano in continuità vengono sterilizzati gli effetti determinati da tale situazione attraverso la disattivazione dell'obbligo di accertare il persistente stato di continuità sulla base di regole elaborate con riferimento ad uno scenario economico fisiologico, la cui applicazione nella situazione patologica attuale non appare adeguata. Essa, infatti, comporterebbe l'obbligo per un notevolissimo numero di società di redigere i bilanci dell'esercizio 2020 con criteri di liquidazione anziché di funzionamento. Superata la fase emergenziale e ritrovato, come si auspica, il normale going concern, tali società dovrebbero ripristinare i criteri di funzionamento, circostanza che avrebbe come ulteriore effetto negativo quello di creare una discontinuità nella sequenza cronologica dei bilanci andando a ledere la loro capacità informativa comparata.

La norma però non brilla per chiarezza laddove prevede che «il criterio di valutazione è specificamente illustrato nella nota informativa anche mediante il richiamo delle risultanze del bilancio precedente».

Anzitutto non è chiaro a quale criterio si faccia riferimento, se a quelli di valutazione delle poste di bilancio (e allora perché usare il singolare e non il plurale come fa l'art. 2427, comma 1, c.c.?) oppure a quello di accertamento dello stato di continuità.

Se si propendesse per la prima soluzione, allora si tratterebbe di una previsione superflua per le società che redigono il bilancio in forma ordinaria o abbreviata, dal momento che esse a norma dell'art. 2427, comma 1, c.c. sono già obbligate ad illustrare «i criteri applicati nella valutazione delle voci del bilancio» sicché la disposizione si limiterebbe a introdurre un simile adempimento, in via estemporanea, per le micro-imprese e per le società di persone che a tale obbligo non sono normalmente soggette non essendo tenute alla redazione della nota integrativa.

Nella seconda ottica interpretativa, la norma potrebbe invece richiedere all'organo amministrativo una sorta di attestazione che la società, alla data di riferimento del bilancio 2019, era in stato di funzionamento, attraverso l'illustrazione del criterio utilizzato per effettuare tale indagine.

Qualunque sia l'interpretazione che si voglia attribuire al precetto, è da ritenere che il legislatore abbia impiegato la dicitura «nota informativa» anziché quella di «nota integrativa» per chiarire che si tratta di informazioni che devono essere rese da tutte le società, anche quelle non obbligate alle redazione della nota integrativa.

Il punto meriterebbe un chiarimento, ma mi pare che la norma presupponga in ogni caso una rigorosa applicazione dei principi contabili e di revisione (OIC n. 11 e Principio di revisione n. 570) ai fini dell'accertamento della reale sussistenza e della tenuta dello stato di continuità prima del 23 febbraio 2020 anche da parte delle società di minori dimensioni. Peraltro, non c'è dubbio che in alcune situazioni border line per l'organo amministrativo potrebbe essere difficile stabilire se - prima del 23 febbraio 2020 - sussistesse la continuità sicché, dove presenti il ruolo dei sindaci e del revisore potrebbe risultare fondamentale[8]. Sul punto, l'Assirevi, nel documento di ricerca n. 233-Attestazioni della direzione, precisa che potrà essere richiesta un'attestazione specifica sulle informazioni e sulle analisi svolte dalla direzione al fine di valutare gli impatti del Covid-19[9].


6. Due strategie di "gestione" delle perdite da Coronavirus a confronto.

L'art. 6 del d.l. 8 aprile 2020, n. 23 ha introdotto disposizioni temporanee anche in materia di riduzione del capitale. In particolare ha previsto che «a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino alla data del 31 dicembre 2020 non si applicano gli articoli 2446, commi secondo e terzo, 2447, 2482-bis, commi quarto, quinto e sesto, e 2482-ter del codice civile. Per lo stesso periodo non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, n. 4, e 2545-duodecies del codice civile».

Anche questo intervento è da giudicarsi opportuno, infatti, veniva auspicato già da più parti[10].

Le misure resesi necessarie per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da Covid-19 stanno pesando fortemente sulle imprese, le quali continuano a sostenere costi generali e di struttura che non trovano al momento copertura in ricavi, per via del fermo al regolare svolgimento delle attività d'impresa. Si tratta però di perdite che non riflettono le effettive capacità e potenzialità delle società coinvolte e che dunque non sono necessariamente sintomo di una crisi definitiva. In quest'ottica, la previsione in esame mira ad evitare che la perdita del capitale, dovuta alla crisi da Covid-19 e verificatasi nel corso dell'esercizio 2020, ponga «gli amministratori di un numero elevatissimo di imprese nell'alternativa -palesemente abnorme- tra l'immediata messa in liquidazione, con perdita della prospettiva di continuità per imprese anche performanti, ed il rischio di esporsi alla responsabilità per gestione non conservativa ai sensi dell'articolo 2486 del codice civile»[11].

In effetti, nonostante le misure messe in campo dal Governo per facilitare l'accesso a finanziamenti proprio con il d. l. 8 aprile 2020, n. 23 non è escluso che si pongano comunque difficoltà di reperimento della liquidità, che sommate alle incerte prospettive di ripresa - in assenza di un intervento del legislatore - avrebbero potuto indurre molte società ad "abbandonare la nave", optando per il loro scioglimento. L'alternativa della trasformazione infatti qualora avesse comportato il passaggio al regime delle società di persone, avrebbe richiesto di mettere a rischio il proprio patrimonio personale, che in un momento di così profonda incertezza avrebbe potuto essere avvertito come un prezzo troppo alto.

La disposizione in esame però si è limitata ad introdurre una sospensione della regola "ricapitalizza o liquida", ma opportunamente mantiene fermi gli obblighi degli amministratori di accertare l'entità della perdita attraverso la redazione di una situazione patrimoniale, ai fini di una chiara rappresentazione della realtà, strumentale ad una consapevole gestione della stessa. Il mantenimento di tale obbligo è coerente con il persistente obbligo di diligenza degli amministratori che, com'è noto si traduce, in particolare, nella cura di assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale al fine di attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di strumenti per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale (art. 2086, comma 2, c.c.)[12].

Tali perdite sono destinate ad emergere - al più tardi - dai bilanci di chiusura relativi all'esercizio 2020. Stando al precetto di cui all'art. 2446, c.c., infatti, per alcune di esse si potrebbe presentare la necessità di accertare l'entità delle perdite prima della fine dell'esercizio (attraverso un bilancio intermedio) qualora gli amministratori ravvisino, già nel corso dell'esercizio, che a causa di perdite il capitale è diminuito di oltre un terzo, ponendosi così l'obbligo di convocare senza indugio l'assemblea. Fino alla fine del 2020, come si è detto, non s'impone, tra i provvedimenti da prendere, quello della riduzione del capitale né quello dello scioglimento, ma mi pare che resti ferma la necessità di una dialettica soci-amministratori sulle modalità per fronteggiare la crisi e recuperare le perdite.

Come spiegato, il legislatore per "gestire" le perdite eccezionali determinate dalla epidemia da Coronavirus, ha scelto di intervenire sulle norme di diritto societario, così includendo nella misura tutte le società, sia quelle che redigono il bilancio in aderenza alle norme civilistiche, sia i soggetti IAS adopter.

Da alcuni aziendalisti era stata avanzata un'altra proposta[13], tesa però ad agire sul lato dei principi contabili di redazione del bilancio. Nello specifico, si proponeva che, in deroga al principio di competenza, alcuni costi che le società stanno sostenendo senza che sia possibile una loro correlazione con i corrispondenti ricavi, venissero "sospesi", iscrivendoli nell'attivo di stato patrimoniale alla stregua di una attività immateriale e precisamente in una voce denominata BI 1 bis "Costi a recuperabilità differita". Secondo questa proposta, sarebbero stati da assoggettare a tale regime i costi relativi a servizi, contratti che regolano il godimento di beni di terzi, gli investimenti in immobilizzazioni materiali ed immateriali, il lavoro ed il deperimento di materie o merci sostenuti nel periodo che va dal 23 febbraio 2020 fino al 31 luglio 2020 a fronte dei quali non è possibile generare ricavi essendo venute meno le normali condizioni di operatività. In buona sostanza, a questi costi si immaginava di estendere lo stesso trattamento contabile previsto per i costi di impianto, di ampliamento e di sviluppo (art. 2426, comma 5, c.c.), per cui si suggeriva che essi venissero ammortizzati sistematicamente entro un periodo non superiore a cinque anni e che fino al loro completo ammortamento non fosse possibile distribuire dividendi, se non nella misura in cui fossero residuate riserve disponibili. Si immaginava una procedura più rigorosa solamente per la loro iscrizione: l'art. 2426, comma 5, c.c. infatti prevede che i costi di impianto, di ampliamento e di sviluppo siano iscrivibili in bilancio con il consenso, ove esistente, del collegio sindacale, ammettendo dunque la possibilità che gli amministratori delle società prive di un organo di controllo interno diano luogo alla capitalizzazione dei costi in questione autonomamente, senza alcun confronto con altri organi o soggetti. La proposta di cui si discute, invece, rimetteva l'iscrizione dei "costi a recuperabilità differita" alla espressa autorizzazione del «soggetto incaricato della revisione contabile ai sensi dell'articolo 2477, che deve utilizzare per la verifica i medesimi principi di cui alla Comunicazione Consob n. DEM/1061609 del 9-8-2001 per verificare la corretta iscrizione e le possibilità di recupero future», aggiungendo che «per le società che non sono tenute alla revisione ai sensi dell'articolo 2477, l'iscrizione della suddetta posta è condizionata al rilascio di una relazione da parte di un revisore o di una società di revisione iscritte nel registro tenuto presso il MEF, nella quale si attesti la corretta iscrizione dei costi, nonché la ragionevolezza delle ipotesi riportate nel piano e le possibilità di recupero dei costi iscritti in deroga». A chiusura di queste previsioni, la proposta aggiungeva che, sul piano informativo, la nota integrativa avrebbe dovuto indicare "in maniera puntuale i criteri di stima ed il dettaglio dei costi per i quali si è proceduto alla capitalizzazione", mentre la relazione del soggetto incaricato della revisione legale avrebbe dovuto contenere "un fondato giudizio sulla correttezza e sulla recuperabilità dei costi iscritti nell'attivo, sulla base di un piano industriale prodotto dalla società".

Le due "strategie" - differire l'applicazione della regola "ricapitalizza o liquida" e capitalizzare alcuni dei costi sostenuti nel periodo del blocco delle attività produttive - hanno il medesimo scopo: evitare che le società, a causa delle perdite "eccezionali" provocate dell'emergenza sanitaria da Coronavirus, si sciolgano in virtù di quanto previsto dall'art. 2484, comma 4, c.c. Esse però non appaiono equivalenti, in particolare la seconda risulta scarsamente efficiente per plurime ragioni.

In primo luogo, le deroghe ai principi contabili che vengono proposte sono suscettibili di essere applicate alle sole società che redigono il bilancio in conformità alle norme civilistiche, escludendo dalla misura le società che adottano gli IAS/IFRS, anche solo volontariamente. Inoltre, l'applicazione del trattamento contabile che era stato proposto appare costoso, dal momento che richiede di selezionare i costi da capitalizzare; acquisire l'autorizzazione del soggetto incaricato della revisione legale, predisporre e attuare un piano di ammortamento, fornire adeguate informazioni in nota integrativa. A questo si aggiunga che le perdite prese in considerazione sono solamente quelle subite nel periodo del blocco delle attività produttive, dando in qualche modo per scontata una immediata e piena ripresa della regolare attività d'impresa. Peraltro queste perdite (soprattutto nelle s.r.l.), una volta divise per cinque e sommate a quelle che presumibilmente si continueranno a subire nei mesi successivi alla ripresa delle normali attività e per tutto il 2020, sarebbero state con tutta probabilità ancora di una misura tale da comportare comunque l'applicazione della regola "ricapitalizza o liquida" a cospetto della quale invece si mirava a non arrivare.

In definitiva, tale "strategia", vuoi per i suoi tecnicismi applicativi, vuoi perché, come evidenziato, non coglie pienamente nel segno, è da giudicarsi meno efficiente di quella adottata dal legislatore che più semplicemente differisce l'applicazione delle norme sulla riduzione del capitale sociale per perdite, riproponendo l'approccio adottato per le start-up innovative.


7. Possibili linee di intervento sul fronte dei principi contabili.
Come già più sopra evidenziato, ogni strategia che utilizzi i principi contabili come strumento di intervento è destinata, a priori, a valere solamente per le società che redigono il bilancio in conformità alle regole civilistiche, dal momento che il legislatore italiano non ha competenza in materia di IAS/IFRS. Questo pare un limite da tenere in considerazione e mi sembra che comporti che ogni provvedimento adottato sul fronte contabile possa unicamente abbinarsi, ma non porsi in alternativa, a quelli che è possibile mettere in campo sul piano del diritto societario. A questo va aggiunto che eventuali trattamenti contabili emergenziali debbono in ogni caso essere compatibili con il quadro del diritto contabile europeo e segnatamente con la Direttiva 2013/34/UE.

In quest'ottica, la capitalizzazione dei costi sostenuti nel periodo del blocco delle attività produttive non essenziali (analizzata nel precedente paragrafo) non sembra rappresentare una strategia percorribile per la gestione delle "perdite da Coronavirus" anche per una ulteriore ragione, questa volta di carattere teorico: appare dubbia infatti la sua compatibilità con i principi fondanti del bilancio previsti dalla Direttiva 2013/34/UE e trasfusi nel nostro ordinamento agli artt. 2423 e 2423-bis, c.c.

Nel quadro della disciplina europea, infatti, l'iscrizione delle componenti negative di reddito è governata dal principio di competenza, in virtù del quale i costi, anche se sono solo presunti, devono essere imputanti al conto economico seguendo una logica di contrapposizione con i relativi ricavi (c.d. matching principle). In aderenza a questo metodo, sono capitalizzabili i costi aventi utilità pluriennale al fine di ripartirli lungo il periodo in cui troveranno realizzazione i corrispondenti ricavi. Un componente negativo di reddito, viceversa, deve essere immediatamente imputato all'esercizio quando il costo non produce alcun beneficio economico futuro (es. spese generali) e non consente dunque - o non consente più - l'iscrizione di una attività nello stato patrimoniale.

Stante questo quadro di regole, attribuire una utilità pluriennale ai costi di cui si propone la capitalizzazione (i costi relativi a servizi, contratti che regolano il godimento di beni di terzi, gli investimenti in immobilizzazioni materiali ed immateriali, il lavoro ed il deperimento di materie o merci) appare una eccessiva forzatura della legge. Il limite peraltro non è neppure superabile invocando la derogabilità del principio di competenza, dal momento che esso, com'è ampiamente noto, non può essere disapplicato neppure ricorrendo alla deroga ex art. 2423, comma 5, c.c. E' unanimemente condiviso infatti che tale deroga non si applichi ai principi generali di bilancio[14], ma unicamente a taluni criteri di valutazione (essenzialmente quello del costo). E' altrettanto noto, inoltre che essa non opera in casi eccezionali di carattere generalizzato (quale è l'emergenza sanitaria da Coronavirus), ma solamente in quelli che riguardino singoli beni[15]. In conclusione, la "strategia" della capitalizzazione dei costi sostenuti nel periodo del fermo delle attività produttive non pare suscettibile di applicazione neppure in abbinamento a quella di sospensione della regola "ricapitalizza o liquida".

Nessun ostacolo giuridico invece incontrerebbe l'emanazione di una nuova legge di rivalutazione, che consenta il riallineamento dei valori contabili a quelli correnti con la conseguente emersione di plusvalori latenti da accantonare in un'apposita riserva che, secondo la dottrina pressoché unanime, è pienamente utilizzabile per coprire perdite di bilancio[16]. Per una simile misura si potrebbe stabilire una rilevanza meramente civilistica delle plusvalenze e quindi consentire una rivalutazione "gratuita" ossia senza la richiesta di una imposta sostitutiva per l'affrancamento della riserva.

Sempre allo scopo di rafforzare contabilmente la struttura patrimoniale delle società, un'altra possibilità, giuridicamente ammissibile, è quella di introdurre, con un apposito provvedimento normativo, il metodo finanziario per la contabilizzazione dei beni detenuti in leasing, ora contabilizzati con il metodo patrimoniale, dando così piena applicazione al principio della prevalenza della sostanza sulla forma di cui all'art. 2423-bis, n. 1-bis).

Ogni adeguamento del valore degli immobili al ritmo della gestione, invece, non necessita di interventi normativi ad hoc, essendo già disponibile una disciplina in materia. Per esempio, i piani di ammortamento dei beni immobili, materiali e immateriali possono essere modificati liberamente dagli amministratori per tenere conto del concreto utilizzo che di essi è stato fatto nel corso dell'esercizio. Peraltro, per tali modificazioni non è neppure necessario ricorrere alla deroga alla consistency ex art. 2423-bis, comma 2, c.c., trattandosi di un mero cambiamento di stime contabili e non di un cambiamento di criterio. Le stime, infatti, sono suscettibili di essere continuamente affinate per tenere conto delle informazioni che si rendono via via disponibili cosicché il bilancio possa costantemente riflettere la dinamica della gestione e mantenere una rappresentazione fedele alla realtà (OIC 29, parr. 29-33)[17].

Per quel che riguarda, invece, le perdite di valore delle immobilizzazioni, queste, secondo la disciplina civilistica (art. 2426, n. 3, c.c.), sono da imputare in bilancio solamente se si stima che siano "durevoli" ossia irreversibili e definitive, circostanza che si auspica non sia destinata a verificarsi sempre. Pare ragionevole ritenere che in molte situazioni non potranno ritenersi integrati i presupposti della svalutazione sia per la natura transitoria delle cause che hanno determinato una riduzione di valore del bene al di sotto del valore contabile, sia per l'incertezza del carattere duraturo della perdita. In questo senso, non pare opportuno introdurre una generalizzata sospensione della procedura di impairment di cui n. 3 dell'art. 2426, c.c. Più in generale, considerata la molteplicità di strategie che è possibile mettere in campo per mitigare l'impatto delle perdite da Coronavirus sul bilancio, ritengo che non siano da prendere in considerazione quelle che sono suscettibili di falsare la rappresentazione fedele della situazione patrimoniale, reddituale e finanziaria della società e di compromettere così la portata informativa del bilancio.

Le perdite più importanti si prospetta che saranno registrate sul fronte dell'attivo circolante, in particolare a causa del deperimento, della senescenza e della obsolescenza delle merci in magazzino; e delle svalutazioni dei crediti. Tali perdite a differenza di quelle riguardanti le immobilizzazioni, devono essere imputate in bilancio immediatamente, in virtù del principio di dissimetria. Come più sopra precisato, una strategia di mitigazione degli effetti di tali perdite potrebbe derivare da una combinazione di misure, che contempli la momentanea sospensione della regola "ricapitalizza o liquida" e provvedimenti di rivalutazione degli attivi di bilancio.

NOTE
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[1] Per un ampio commento all'art. 106, d.l. 17 marzo 2020, n. 18 si rinvia a M. Irrera, Le assemblee (e gli altri organi collegiali) delle società ai tempi del Coronavirus (con una postilla in tema di associazioni e fondazioni), 2020, disponibile su www.ilcaso.it.

[2] Così F. Roscini Vitali, Nei bilanci 2020 continuità con lo spartiacque del 23 febbraio, in Ilsole24ore del 9 aprile 2020.
[3] Per una illustrazione di tali modalità si rinvia a M. Irrera, Le assemblee (e gli altri organi collegiali) delle società ai tempi del Coronavirus, cit.

[4] Così OIC n. 29, Cambiamenti di principi contabili, cambiamenti di stime contabili, correzione di errori, fatti intervenuti dopo la chiusura dell'esercizio, 2017, par. 64.

[5] V. infra par. 5.

[6] In proposito di vedano le indicazioni indirizzate alle società britanniche e irlandesi dal Financial Reporting Council, che raccomanda ai relativi amministratori di valutare l'opportunità di dare corso alla distribuzione dei dividendi tenendo conto non del momento in cui ne è stata deliberata la distribuzione, ma di quello in cui viene ne viene effettuato il pagamento (https://www.frc.org.uk/about-the-frc/covid-19/company-guidance-update-march-2020-(covid-19)).

[7]Una diversa portata ha invece la raccomandazione di non dare corso a distribuzioni di dividendi indirizzata dalla BCE alle banche soggette alla sua vigilanza il 27 marzo 2020 (https://www.ecb.europa.eu/ecb/legal/pdf/oj_c_2020_102i_full_en_txt.pdf) e fatta propria dalla Banca d'Italia nella medesima data (https://www.bancaditalia.it/media/comunicati/documenti/2020-01/cs-Racc-politiche-dividendi.pdf). La raccomandazione è quella di non pagare i dividendi, ivi inclusa la distribuzione di riserve e di non assumere alcun impegno irrevocabile per il pagamento dei dividendi per gli esercizi finanziari 2019 e 2020 almeno fino al 1° ottobre 2020. Per le società in questione dunque il limite (ovvero la raccomandazione) deve intendersi indirizzata agli amministratori, rimanendo liberi i soci di deliberare la distribuzione dei dividendi. Salvo che al loro pagamento, gli amministratori non potranno dare corso almeno fino al 1° ottobre 2020. E' opportuno notare, sul piano della rappresentazione di bilancio, che laddove ne venisse deliberata la distribuzione, gli utili non potrebbero più essere rappresentati nel patrimonio netto, ma dovrebbero essere iscritti tra le passività alla stregua di un debito verso i soci.

[8] F. Roscini Vitali, Nei bilanci 2020 continuità con lo spartiacque del 23 febbraio, in Il sole 24 ore, giovedì 9 aprile 2020.

[9] Disponibile sul sito http://www.assirevi.com.

[10] V. in particolare I. Pollastro, Emergenza sanitaria e crisi d'impresa: come contenere il contagio?, in www.ilcaso.it, 2020, p. 8 e C. Bianco, Una proposta per la qualificazione dei prestiti agevolati COVID-19, 2020, in www.ilcaso.it,

[11] Così la Relazione illustrativa al d.l. 8 aprile 2020, n. 23, p. 7.

[12] Sul punto, si rinvia, anche per ulteriori riferimenti a M. Irrera, La collocazione degli assetti organizzativi e l'intestazione del relativo obbligo (tra codice della crisi e bozza di decreto correttivo), in corso di pubblicazione su Il Nuovo Diritto delle Società.

[13]V. https://www.milanofinanza.it/news/lettera-aperta-a-conte-vanno-cambiate-le-norme-contabili-del-codice-202003311617563620.

[14] Per tutti G. E. Colombo, Il bilancio di esercizio, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, 7*, Utet, 1994, p. 331.

[15] Per tutti ancora G. E. Colombo, Il bilancio di esercizio, cit. p. 333.

[16] Sul punto si tenga presente quanto precisato dall'art. 13, comma 2, l. 342/2000 ossia che in ipotesi di "utilizzazione della riserva a copertura di perdite, non si può fare luogo a distribuzione di utili fino a quando la riserva non è reintegrata o ridotta in misura corrispondente".

[17] Sul punto sia consentito rinviare a M. Di Sarli, La continuità del bilancio, Milano, 2018, p. 139 ss.






















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