Appunti veloci sulla riforma 2015 della legge fallimentare
Pubblicato il 18/08/15 02:00 [Articolo 418]






Sommario: §1.- Articolo 163 bis. Offerte concorrenti; §2.- Articolo 169 bis. Contratti pendenti; §3.- Articolo 64. Atti a titolo gratuito.


§1. Articolo 163 bis. Offerte concorrenti.

La nuova norma prevede che, quando il ricorso per concordato preventivo
_ comprende un'offerta da parte di un soggetto già individuato
_ avente ad oggetto il trasferimento o l'affitto in suo favore
_ a titolo oneroso
_ dell'azienda, di un ramo d'azienda o anche solo di beni specifici,
il tribunale «dispone la ricerca di interessati disponendo l'apertura di un procedimento competitivo».
In sostanza viene recepita una nota prassi virtuosa adottata da molti tribunali: quando la proposta di concordato preventivo è di tipo c.d. chiuso, nel senso che prevede la vendita a condizioni prefissate di tutti o di parte dei beni concordatari e la dismissione dei cespiti deve intervenire prima dell'omologazione (pena la perdita dell'occasione di alienazione o la perdita di efficacia di un'offerta), il tribunale o più sovente il giudice delegato comunicava al ricorrente, tramite il commissario giudiziale, che era necessario procedere ad una procedura competitiva (in sostanza ad un sondaggio del mercato).
Tale sondaggio era eseguito dallo stesso imprenditore in procedura in piena libertà di forme ed era fatto consistere, di solito, nella pubblicazione di un avviso di vendita o di un invito a manifestare interesse, contenente la descrizione dei beni da alienare, e la fissazione di un termine per far pervenire le offerte o le manifestazioni di interesse.
Volta che il mercato fosse stato adeguatamente sondato - e che fosse pertanto palese che l'offerta (eventualmente irrevocabile) sulla quale veniva fondata la proposta di concordato preventivo era l'unica strada seriamente percorribile - allora l'imprenditore presentava istanza ai sensi dell'articolo 161 settimo comma (prima dell'emissione del decreto ex articolo 163) o ai sensi dell'articolo 167 secondo comma della legge fallimentare, onde ottenere autorizzazione alla alienazione del cespite.
Ottenuta l'autorizzazione del tribunale o del giudice delegato, l'imprenditore in procedura ed il soggetto interessato all'acquisto dei beni potevano dar corso agli atti attuativi necessari al trasferimento dei beni.
Si apriva pertanto la fase c.d. notarile, con la comparizione delle parti davanti al notaio, il quale - sulla scorta dell'autorizzazione del tribunale - redigeva un atto pubblico di vendita o di affitto del cespite (solitamente l'azienda) dell'imprenditore insolvente.
La nuova norma dà una disciplina positiva a questa prassi e la rende ammissibile non solo dopo l'emissione del decreto apertura del concordato preventivo, ma anche dopo il deposito del solo ricorso ex articolo 161, sesto comma, se è vero - come lo è - che l'ultimo comma della disposizione in commento prevede che «la disciplina del presente articolo si applica, in quanto compatibile, anche agli atti da autorizzare ai sensi dell'articolo 161 settimo comma nonché all'affitto di azienda o di uno o più rami di azienda».
La disciplina di legge è tuttavia diversa dalla prassi seguita.
A prescindere dalla tecnica legislativa in qualche passaggio non soddisfacente (« … il tribunale dispone la ricerca di interessati … disponendo … ecc…»), ci si chiede anzitutto se al «procedimento competitivo a norma delle disposizioni previste dal secondo comma del presente articolo» si applichino gli articoli 104 e seguenti.
A me sembra che, nonostante nel corpo dell'articolo 163 bis non vengano richiamate le norme degli articoli 104 e seguenti, il menzionato articolo preveda in buona sostanza una vendita forzata dei beni, che - com'è noto - ricorre qualora (i) sia fatta dall'autorità giudiziaria o sotto il suo controllo, (ii) contro o anche solo indipendentemente dalla volontà del debitore, (iii) nell'interesse di tutti i creditori e (iii) il ricavato sia distribuito sotto la sorveglianza dell'autorità giudiziaria col rispetto delle cause legittime di prelazione.
È evidente che l'articolo 163 bis intende impedire la presentazione di offerte intangibili e preconfezionate dal debitore senza tenere in adeguato conto l'interesse del ceto creditorio alla massimizzazione dei risultati della liquidazione e, anzi, in qualche caso con intenti fraudatori.
Tale interpretazione mi sembra suffragata dal nuovo 182 quinto comma, che infatti - con previsione generale - dispone che «alle vendite, alle cessioni e ai trasferimenti legalmente posti in essere dopo il deposito della domanda di concordato o in esecuzione di questo, si applicano gli articoli da 105 a 108-ter in quanto compatibili. La cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonché delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo, sono effettuati su ordine del giudice, salvo diversa disposizione contenuta nel decreto di omologazione per gli atti a questa successivi».
Siamo pertanto in presenza di una vendita forzata.
Ne deriva, a mio avviso, che:
(a) a seguito della vendita (effettuata prima o dopo l'omologazione) con atto notarile, dovranno essere cancellate le formalità gravanti sui beni trasferiti; evento che potrà avvenire, in applicazione dell'articolo 108, mediante decreto del tribunale o del giudice delegato e dopo l'incasso del prezzo (o, nel caso di pagamento rateale con garanzia, anche in un momento anteriore);
(b) la vendita (l'udienza e gli atti che la precedono o la seguono) potranno essere delegate al professionista ai sensi dell'articolo 591 bis del codice di procedura civile;
(c) se è alienata un'azienda, salvo quanto si dirà appresso per i crediti da lavoro subordinato, è esclusa la responsabilità dell'acquirente per i debiti sorti prima del trasferimento, a meno che il contratto non contenga accordi diversi (articolo 105, quarto comma).

Rimangono peraltro problemi interpretativi notevoli, soprattutto nel caso in cui il bene affittato o alienato sia un'azienda, giacché gli articoli 104 bis e 105, secondo comma, della legge fallimentare prevedono formalità non coincidenti con quelle indicate dall'articolo 163 bis per l'individuazione del prezzo base (stima) e per l'individuazione dell'aggiudicatario (scelto anche in base all'ammontare del canone offerto, alle garanzie promesse, alla attendibilità del piano di prosecuzione aziendale, alla conservazione dei livelli occupazionali), sia esso acquirente o affittuario d'azienda.
L'articolo 104 bis stabilisce inoltre che il contratto d'affitto debba avere un certo contenuto (previsione che non è compresa nell'articolo 163 bis).
Mi chiedo pertanto se gli articoli 104 bis e 105 secondo comma debbano essere comunque applicati, per non rendere totalmente disomogenee le modalità di affitto o di cessione dell'azienda nel caso del fallimento e nel caso del concordato preventivo.
Vi è poi un problema di coordinamento del tutto trascurato dal testo del nuovo articolo 163 bis e che rischia di rendere la norma sostanzialmente priva di concreta operatività.
Com'è noto, l'articolo 105, terzo comma (che, per quanto sopra detto, dovrebbe applicarsi al caso delle offerte concorrenti), prevede che «nell'ambito delle consultazioni sindacali relative al trasferimento d'azienda, il curatore, l'acquirente e i rappresentanti dei lavoratori possono convenire il trasferimento solo parziale dei lavoratori alle dipendenze dell'acquirente e le ulteriori modifiche del rapporto di lavoro consentite dalle norme vigenti».
La genericità della disposizione della legge fallimentare mi pare (oggi) integrata dall'articolo 47, comma 4 bis, della legge n° 428/1990 (introdotto dal decreto legge n° 83/2012 e modificato dalla legge di conversione n° 134/2012).
Gli adempimenti previsti da questa norma sono stati totalmente ignorati dal legislatore della novella fallimentare.
Essa, in estrema sintesi, prevede che «quando si intenda effettuare, ai sensi dell'articolo 2112 del codice civile, un trasferimento d'azienda in cui sono complessivamente occupati più di quindici lavoratori» il cedente ed il cessionario devono dare comunicazione scritta alle rispettive rappresentanze sindacali unitarie, nonché ai sindacati di categoria.
Successivamente, su richiesta delle rappresentanze o dei sindacati, si procede ad un esame congiunto, al cui esito può essere concluso un accordo, che consente la deroga all'articolo 2112 del codice civile.
Il comma 4 bis sopra menzionato prevede infatti che «Nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell'occupazione, l'articolo 2112 del codice civile trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall'accordo medesimo qualora il trasferimento riguardi aziende: [… omissis …] b-bis) per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo».
È dunque evidente che, nonostante la riforma abbia allungato a centoventi giorni il termine per la convocazione dei creditori in adunanza, lo svolgimento delle trattative sindacali e la conclusione degli accordi potrebbero esigere un tempo maggiore di quello normativamente previsto per l'adunanza dei creditori.
Ne deriva, tenuto conto dell'obbligo dell'imprenditore di modificare la domanda di concordato preventivo nel senso corrispondente all'esito della gara competitiva ed il divieto di modifica della proposta concordataria fino a quindici giorni prima dell'adunanza dei creditori, che l'adunanza stessa debba essere opportunamente rinviata.
Tutto ciò, senza considerare che l'offerta concorrente sarà considerata come "ostile" da parte dell'imprenditore che presenta il concordato.
Ne deriva che, mentre un accordo ai sensi dell'articolo 47 è sicuramente possibile tra imprenditore, terzo acquirente e sindacato, detto accordo potrebbe rimanere solo un miraggio nel caso in cui l'offerta concorrente di acquisto dell'azienda provenga da un terzo: con l'ulteriore conseguenza che questo terzo dovrà presumibilmente onerarsi dell'intero passivo derivante dai lavoratori subordinati.
Rimetto al lettore ogni considerazione sulla concreta riuscita dell'offerta concorrente.
Ulteriori difficoltà pratiche di attuazione dell'articolo 163 bis sorgono laddove esso prevede necessariamente la comparabilità delle offerte concorrenti: requisito che quasi mai si verifica nella pratica della vendita o dell'affitto d'azienda e che rischia, ancora una volta, di rendere scarsamente interessante la possibilità dei terzi di offrire in concorrenza.
Cenno particolare merita infine la previsione del già menzionato obbligo del debitore di modificare la proposta di concordato preventivo ed il piano in conformità all'esito della gara.
Tale norma pare priva di sanzione, salva la declaratoria di inammissibilità o di rigetto della domanda concordataria (da pronunciare ai sensi dell'articolo 173 ultimo comma o in sede di omologazione) nel caso in cui tale modifica non intervenga.
Si aprirebbe qui uno scenario già visto, in passato, in varie procedure concordatarie: a seguito della inammissibilità del ricorso per concordato preventivo, in mancanza di istanze di fallimento da parte del debitore o del pubblico ministero, seguirebbe il ritorno in bonis dell'imprenditore, con tutto quello che ne deriva e che è ben conosciuto dagli operatori del diritto (mancata soddisfazione dei creditori, spreco di tempo e di risorse pubbliche per l'avvio della procedura, ecc… ecc…, il tutto a fronte della restituzione dei beni al debitore).
Sul punto, mi domando che sorte potrebbe avere l'aggiudicazione provvisoria del nuovo offerente.
Se, forse, l'atto notarile di trasferimento intervenuto prima della dichiarazione di inammissibilità del concordato preventivo (e, dunque, della chiusura del concordato) rimane in piedi in quanto legittimamente ultimato nel corso della procedura, di sicuro l'aggiudicazione provvisoria del nuovo offerente rimarrebbe senza pratica attuazione, in considerazione della presumibile mancanza di volontà di procedere alla alienazione, da parte del debitore ormai ritornato nella piena ed incontrollata disponibilità del proprio patrimonio.
Può darsi che il nuovo articolo 163 bis serva come ulteriore materiale per sollevare la questione di costituzionalità degli articoli 173 e 186 della legge fallimentare, laddove questi non consentono al tribunale di pronunciare d'ufficio la dichiarazione di fallimento qualora sia assente l'istanza del pubblico ministero o di almeno un creditore: previsione che non solo è irragionevole di per sé, ma è anche in palese contrasto con la norma contenuta nella legge sulla composizione della crisi da sovraindebitamento (legge n° 3 del 2012), ove - nelle ipotesi previste dall'articolo 14 quater - è contenuta la previsione di conversione d'ufficio della procedura in quella di liquidazione del patrimonio, sostanzialmente equiparabile al fallimento.
Tutto quanto sopra descritto conserva fondamento a meno che non si ritenga applicabile in via analogica il nuovo articolo 185, terzo comma e seguenti, (anche) all'ipotesi del debitore che, in presenza di un offerente concorrente che divenga aggiudicatario, ometta o rifiuti di modificare piano e proposta concordatari «in conformità all'esito della gara».
Il nuovo articolo 185 prevede infatti che «il debitore è tenuto a compiere ogni atto necessario a dare esecuzione alla proposta di concordato presentata da uno o più creditori, qualora sia stata approvata e omologata».
Esso prevede inoltre che «nel caso in cui il commissario giudiziale rilevi che il debitore non sta provvedendo al compimento degli atti necessari a dare esecuzione alla suddetta proposta o ne sta ritardando il compimento, deve senza indugio riferirne al tribunale. Il tribunale, sentito il debitore, può attribuire al commissario giudiziale i poteri necessari a provvedere in luogo del debitore al compimento degli atti a questo richiesti».
Il sesto comma stabilisce infine quanto segue: «Fermo restando il disposto dell'articolo 173, il tribunale, sentiti in camera di consiglio il debitore e il commissario giudiziale, può revocare l'organo amministrativo, se si tratta di società, e nominare un amministratore giudiziario stabilendo la durata del suo incarico e attribuendogli il potere di compiere ogni atto necessario a dare esecuzione alla suddetta proposta, ivi inclusi, qualora tale proposta preveda un aumento del capitale sociale del debitore, la convocazione dell'assemblea straordinaria dei soci avente ad oggetto la delibera di tale aumento di capitale e l'esercizio del voto nella stessa».

L'articolo 185, tenuto conto della lettera della legge, è tuttavia dettato non per il caso di offerte concorrenti, ma per l'ipotesi di proposte concordatarie concorrenti.
A me pare però che i nuovi commi, essendo stati inseriti nell'articolo 185 che disciplina testualmente e genericamente (secondo la rubrica) l'«esecuzione del concordato», siano invocabili anche nel caso delle offerte concorrenti, quanto meno in via analogica.
L'alternativa a fronte dell'inerzia o del rifiuto del debitore è quella, come già detto, di ritenere il concordato preventivo inammissibile e non omologabile, con conseguente ritorno in bonis dell'imprenditore in caso di mancanza di istanze di fallimento: conclusione che appare, a tacer d'altro, in netta controtendenza con lo spirito della riforma fallimentare del 2015.
Da ultimo, mi preme osservare che grazie all'articolo 163 bis vi è oggi un fondamento positivo per affermare che gli atti di esecuzione di contratti preliminari pendenti, posti in essere dall'imprenditore in procedura (e, a maggior ragione, dal liquidatore del concordato preventivo e dal curatore fallimentare) costituiscono atti di espropriazione forzata.
L'orientamento più diffuso tra le corti di merito era infatti nel senso che il subentro del liquidatore (nel concordato preventivo) o del curatore (nel fallimento) in un contratto preliminare pendente non desse luogo ad una espropriazione forzata, ma ad una vendita ordinaria, con la conclusione che non era possibile cancellare le formalità gravanti sui beni alienati in virtù del contratto pendente.
Ne derivavano alcune criticità: prima fra tutte quella che imponeva al promittente acquirente di acquistare il bene al prezzo convenuto nel preliminare, ma con il mantenimento di tutte le iscrizioni ipotecarie (non cancellabili dal giudice delegato ai sensi dell'articolo 108).
Il tribunale di Reggio Emilia ha interpretato le norme in maniera diversa ed ha sempre ritenuto che anche le vendite in esecuzione di preliminari costituissero vendite forzate (in quanto caratterizzate dai requisiti sopra indicati) e pertanto ha proceduto alla cancellazione delle formalità che gravavano sui cespiti venduti, previa notifica ai creditori ipotecari iscritti (da parte dell'imprenditore in procedura, del liquidatore del concordato preventivo o del curatore fallimentare) di un decreto (emesso dal giudice delegato o dal tribunale) di autorizzazione alla vendita al prezzo indicato nel preliminare: atto che poteva essere impugnato dal creditore ipotecario ai sensi dell'articolo 26 e che gli consentiva di interloquire sulla congruità del prezzo e, più in generale, sulla convenienza dell'esecuzione del preliminare pendente.
Ora, l'articolo 163 bis espressamente dispone che «le disposizioni del presente articolo si applicano anche quando il debitore ha stipulato un contratto che comunque abbia la finalità del trasferimento non immediato dell'azienda, del ramo d'azienda o di specifici beni»: previsione nella quale rientra non solo il caso di contratti conclusi prima del deposito del ricorso e intenzionalmente posti a servizio della proposta concordataria, ma anche il caso di negozi giuridici risalenti nel tempo e pendenti al momento del deposito della domanda concordataria.
Rimane invece ancora oggi privo di disciplina legislativa espressa il problema della tutela del creditore ipotecario che, a seguito delle vendite effettuate nel corso del concordato preventivo (solitamente il problema si pone in quello con continuità), subisca la cancellazione della propria garanzia reale ai sensi dell'articolo 185.
Infatti, mentre nel concordato preventivo liquidatorio la vendita del cespite (effettuata in esecuzione di un contratto pendente, o in base ad un'offerta concorrente, o in base ad un atto di alienazione anticipato) genera un ricavo che confluisce nelle disponibilità liquide della procedura ed è pronto per essere distribuito in favore dei creditori privilegiati, nel concordato preventivo con continuità questo non si verifica, poiché - com'è noto - parte dei ricavi d'impresa sono nuovamente immessi dall'imprenditore nel ciclo produttivo.
Si tratta qui di trovare un contemperamento tra due opposte esigenze: quella dell'imprenditore che con l'alienazione del cespite vuole (presumibilmente) ottenere ulteriore liquidità da utilizzare nell'impresa e quella dei creditori ipotecari di ottenere il ricavato della vendita del bene oggetto di garanzia reale.
A me pare che la risposta la si debba trovare nel disposto dell'articolo 186 bis lettera c).
Questa norma dispone, infatti, che nel concordato preventivo con continuità il piano possa prevedere una moratoria fino ad un anno dall'omologazione per il pagamento dei creditori muniti di prelazione «salvo che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione».
È dunque evidente che in sede esecutiva del concordato preventivo con continuità il debitore può prevedere nel ricorso il pagamento dei privilegiati entro un anno dall'omologa, a meno che non proceda prima di tale tempo alla alienazione dei beni soggetti alla garanzia: nel qual caso il piano deve prevedere il loro pagamento contestuale o quasi contestuale del dovuto.
È di tutta evidenza che quello che è obbligatorio in sede di esecuzione del concordato preventivo è, a maggior ragione, obbligatorio nella fase anteriore all'omologa (fase che può consistere anche nella pendenza del termine ex articolo 161 sesto comma).
Ne deriva che il ricavato della vendita dei cespiti gravati da ipoteca, pegno o privilegio speciale debba essere in qualche modo accantonato e reso disponibile in favore dei creditori garantiti.


§2. Articolo 169 bis - Contratti pendenti

Mi sono sempre chiesto se l'introduzione dell'articolo 169 bis (aggiunto alla legge fallimentare dal decreto legge n° 83/2012, convertito nella legge 134/2012) avesse veramente un senso e tale perplessità è rimasta anche oggi, dopo la legge di conversione del decreto legge n° 83/2015.
Provo a spiegarmi.
Il concordato preventivo è una proposta avanzata dall'imprenditore insolvente ai propri creditori al fine di eliminare lo stato di insolvenza.
A tal fine, la legge gli impone due modalità operative - si potrebbe dire - sinallagmaticamente connesse: la ristrutturazione del passivo (alla quale procede nel modo più opportuno, salve le disposizioni imperative di legge) e la soddisfazione dei creditori.
In altre parole, l'imprenditore che intende uscire dalla crisi/insolvenza deve ristrutturare i propri debiti, ma, per procedere in tal senso, deve anche offrire ai propri creditori una soddisfazione, che, di regola, è diversa da quella originariamente dedotta in obbligazione.
L'articolo 160 stabilisce infatti che «l'imprenditore che si trova in stato di insolvenza può proporre ai creditori un concordato preventivo sulla base di un piano che può prevedere: (a) la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo, o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l'attribuzione ai creditori (…) di azioni, quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di debito; (b) l'attribuzione delle attività delle imprese interessate alla proposta di concordato ad un assuntore» le cui azioni «siano destinate ad essere attribuite ai creditori per effetto del concordato».
Dalla semplice lettura della norma si ricava un dato incontestabile: il debitore che propone il concordato, ristrutturando il passivo, può modificare il rapporto giuridico con il proprio creditore e attribuirgli qualcosa di diverso che non era dedotto nell'originaria obbligazione.
Può dunque assegnargli non solo una certa quantità di danaro minore di quella originaria, ma anche attribuirgli beni e cespiti diversi, purché tali attribuzioni possano essere considerate una "ragionevole soddisfazione".
Sarà poi il ceto creditorio, con il voto sulla proposta, a stabilire se la soddisfazione prospettata sia o meno adeguata.
La situazione giuridica di vantaggio nella quale si trova il debitore proponente è dunque di diritto potestativo.
La legge fallimentare gli consente, al fine di risanare la crisi, di modificare unilateralmente il rapporto giuridico obbligatorio assegnando alla controparte una prestazione che non era stata prevista nell'originario programma contrattuale.
Tale facoltà trova, a mio parere, un espresso fondamento nell'articolo 1173 del codice civile, il quale - com'è noto - prevede che le obbligazioni non derivano solo da contratto o da fatto illecito, ma anche «da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle secondo l'ordinamento giuridico»: ipotesi nella quale il concordato preventivo omologato rientra a pieno titolo.
Il rapporto giuridico, fissato dal creditore e dal debitore nella loro libertà negoziale, viene qui legittimamente modificato (in ragione dello stato di insolvenza nel quale versa) ad opera di una sola parte contrattuale, che - tuttavia - è onerata di offrire all'altra una soddisfazione con modalità e tempi ragionevoli.
Se tutto questo può essere realizzato con il ricorso per concordato preventivo (o, più correttamente, con l'omologa della proposta), viene da domandarsi a cosa serva la previsione di scioglimento dei rapporti pendenti prevista dall'articolo 169 bis.
È infatti evidente che l'imprenditore in crisi, anche prima dell'introduzione dell'articolo 169 bis, avrebbe potuto (anzi: avrebbe dovuto) prendere posizione nel ricorso concordatario non solo sui crediti ormai avulsi da qualsiasi rapporto negoziale in corso, ma su tutti i rapporti giuridici pendenti nel proprio patrimonio, al fine di prospettare alla controparte contrattuale la continuazione piena del rapporto stesso, ovvero la sua unilaterale modificazione con attribuzione al creditore di una controprestazione (bensì) satisfattoria, ma non prevista dall'originario programma contrattuale.
A questo punto possiamo ritornare alla domanda che mi sono posto all'inizio del presente paragrafo: che senso ha l'articolo 169 bis?
La norma ha, in effetti, un suo fondamento per ciò che concerne la previsione di sospensione dei rapporti pendenti.
Infatti, l'imprenditore che propone un ricorso c.d. in bianco, ai sensi dell'articolo 161 sesto comma, può non avere ancora ben delimitato il perimetro del passivo da ristrutturare e, nel corso delle verifiche dirette alla predisposizione della proposta e del piano a servizio di essa, è ragionevole che egli possa chiedere al tribunale di sospendere l'esecuzione del rapporto pendente.
Sospensione che è ovviamente strumentale alla predisposizione del concordato e che è destinata a venire meno, volta che l'imprenditore abbia definitivamente deciso quale sorte dare al rapporto pendente: risoluzione (con previsione di diversa soddisfazione del creditore), ovvero continuazione (con piena soddisfazione del creditore).
La norma in commento non ha invece alcun fondamento per ciò che concerne la previsione di scioglimento del rapporto pendente.
Lo scioglimento, a differenza della sospensione, è un atto che pone termine al rapporto in corso e, nel caso dell'articolo 169 bis, questa fine prematura del rapporto negoziale viene chiesta (e concessa) senza che alla controparte contrattuale venga nemmeno comunicato quale "ragionevole soddisfazione" potrebbe ricevere il suo credito.
Né tale lacuna potrebbe considerarsi colmata con la previsione di un «indennizzo» che il legislatore - con una coerenza sistematica tutt'altro che esemplare - definisce «equivalente al risarcimento del danno conseguente al mancato adempimento»: sia perché tale credito è espressamente destinato ad essere soddisfatto in moneta concordataria, sia perché la predetta contropartita non è certo equiparabile alla ragionevole soddisfazione che il debitore deve dare al proprio creditore ai sensi dell'articolo 160.
La norma tuttavia esiste e non rimane che prenderne atto, pur con tutte le criticità sopra evidenziate.
Occorre solo constatare che con la riforma del 2015, alle criticità iniziali ne sono state aggiunte altre.
Alle criticità iniziali (previsione dello scioglimento accanto alla sospensione; previsione di un termine massimo di sospensione di soli sessanta giorni prorogabili, non ragguagliato al termine concedibile ai sensi dell'articolo 161, sesto comma, ecc…) si è aggiunto l'obbligo per il tribunale o del giudice delegato di provvedere «sentito l'altro contraente».
Ora, se da una parte è vero che, tenuto conto del testo dell'articolo, l'obbligo di sentire la controparte può essere assolto anche senza la fissazione di un'udienza, è anche vero che l'obbligatoria audizione darà adito, presumibilmente, al deposito di memorie dal contenuto stravagante ed incoerente.
Mi domando infatti quali potranno mai essere la difese, le osservazioni, le deduzioni del contraente in bonis di fronte al diritto potestativo del debitore in procedura.
Se poi si aggiunge che tutte queste memorie andranno depositate in cancelleria su supporto cartaceo (non potendo avere, i terzi contraenti, accesso al Pct) si può agevolmente prefigurare quale sarà l'impatto della nuova disposizione di legge sulla semplificazione della procedura e sugli adempimenti di cancelleria.
Da ultimo, giova osservare che le modifiche dell'articolo 169 bis sono state dettate (come tutto il decreto legge 83) soprattutto nell'interesse del ceto bancario.
Anzitutto si è tentato di chiarire - e qui, a mio parere, opportunamente - che il perimetro dell'articolo 169 bis è esattamente quello dell'articolo 72 della legge fallimentare.
L'originario testo dell'articolo prevedeva che il tribunale o il giudice delegato autorizzasse l'imprenditore a sciogliersi dai «contratti in corso di esecuzione alla data di presentazione del ricorso».
Tale espressione era diversa da quella contenuta nell'articolo 72 (che, per l'appunto, si riferisce a contratti ancora ineseguiti o non compiutamente eseguiti da entrambe le parti) ed aveva indotto alcuni interpreti a ritenere che i negozi che potevano essere sciolti o sospesi ex articolo 169 bis non fossero solo quelli previsti dall'articolo 72 della legge fallimentare, ma anche quelli nei quali una parte avesse già totalmente eseguito la propria prestazione.
Il riferimento era in primo luogo ai contratti bancari di anticipazione dietro cessione di crediti.
Si era giunti pertanto ad affermare che, nonostante la banca avesse provveduto a notificare la cessione di credito al debitore ceduto (rendendola così opponibile al concordato preventivo, ex articoli 45 e 169), il tribunale potesse egualmente sciogliere i singoli contratti di cessione di credito, anche nel caso in cui la banca avesse già integralmente eseguito la propria prestazione, mettendo a disposizione del cliente la somma anticipata a fronte della cessione stessa.
Il nuovo testo della legge ricalca quasi completamente quello dell'articolo 72 e oggi la norma non fa più riferimento ai «contratti in corso di esecuzione», ma «ai contratti ancora ineseguiti o non compiutamente eseguiti alla data della presentazione del ricorso»: espressione - per l'appunto - mutuata dall'articolo 72.
Peraltro, se tale nuova formulazione può far propendere per una completa sovrapponibilità del campo di applicazione degli articoli 72 e 169 bis, deve osservarsi che nel testo della riforma manca (nell'articolo 169 bis) il riferimento ad "entrambe le parti" (contenuto invece nell'articolo 72).
Col che, se si vuole far entrare dalla finestra quello che probabilmente il legislatore della riforma ha voluto fa uscire dalla porta, si ha indubbiamente un appiglio testuale di non poco conto.
Appiglio che, tuttavia, potrebbe ulteriormente cedere se si considera che il legislatore del 2015 ha voluto avvantaggiare il ceto bancario anche con l'ultimo periodo del terzo comma della norma in commento, che in sostanza attribuisce all'indennizzo dell'altro contraente la qualifica di credito concorsuale, ma «… ferma restando la prededuzione del credito conseguente ad eventuali prestazioni eseguite legalmente e in conformità agli accordi o agli usi negoziali, dopo la pubblicazione della domanda ai sensi dell'articolo 161».
Come dire: se la prestazione della controparte è eseguita, almeno in parte, nel corso della procedura i crediti riferibili a tale parte vanno in prededuzione.


§3. Articolo 64. Atti a titolo gratuito

L'articolo 25 n° 2 della legge fallimentare nel testo anteriore al 16 luglio 2006 stabiliva che il giudice delegato «emette o provoca dalle competenti autorità i provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio».
Questi provvedimenti, quando emessi dal giudice delegato, erano (e sono) definiti "decreti di acquisizione".
La corte di cassazione, a fronte di un uso forse un po' troppo disinvolto del potere acquisitivo, cominciò - già con la sentenza a SU n° 2259/1984 - dare una interpretazione costituzionalmente orientata della norme ed a stabilire pertanto che il decreto di acquisizione in tanto poteva essere emesso, in quanto non vi fossero contestazioni da parte dei terzi sulla spettanza al fallimento dei beni acquisendi.
In caso contrario il decreto avrebbe inciso su diritti di terzi, senza l'instaurazione di un (previo) ordinario giudizio di cognizione: con la conseguenza che l'atto doveva considerarsi non ricorribile davanti alla cassazione (ex articolo 111 della Costituzione), ma abnorme ed impugnabile in ogni tempo con l'azione di nullità.
La novella del 2006 si fece carico di adeguare il testo della legge all'interpretazione giurisprudenziale e aggiunse all'articolo 25 n° 2 la frase «ad esclusione di quelli che incidono su diritti di terzi che rivendichino un proprio diritto incompatibile con l'acquisizione».
L'articolo 64, nel testo modificato dalla riforma del 2015, stabilisce che «i beni oggetto degli atti di cui al primo comma sono acquisiti al patrimonio del fallimento mediante trascrizione della sentenza dichiarativa di fallimento. Nel caso di cui al presente articolo ogni interessato può proporre reclamo avverso la trascrizione a norma dell'articolo 36».
Ognuno può vedere il parallelismo con l'articolo 25 n° 2 nel testo anteriore alla riforma del 2006.
In sostanza, oggi - a fronte di un atto a titolo gratuito compiuto dal fallito nei due anni anteriori al fallimento - il curatore lo può apprendere anche senza decreto ex articolo 25 n° 2, ma direttamente mediante la trascrizione della sentenza dichiarativa di fallimento.
Segnalo tre criticità.
In primo luogo, mentre nel caso dell'articolo 25 n° 2 il decreto era rivolto all'acquisizione di beni appartenenti al fallito e che si trovavano nel possesso o nella detenzione di terzi (che non rivendicavano diritti incompatibili con l'acquisizione), qui assistiamo ad una vera e propria apprensione di beni ormai passati al patrimonio del terzo, sebbene in virtù di un atto a titolo gratuito.
Tale acquisizione avviene senza il minimo controllo da parte dell'autorità giudiziaria, contrariamente all'ipotesi dell'articolo 25 n° 2 (dove, perlomeno, è previsto una preliminare delibazione da parte del giudice delegato).
Si ponga mente all'esempio più banale che può immaginarsi: il debitore, un mese prima della dichiarazione di fallimento, dona al proprio figlio un immobile e l'atto notarile viene trascritto prima dell'iscrizione della sentenza presso il registro delle imprese.
Qui il bene che si va ad acquisire è sicuramente passato dal patrimonio del debitore a quello del terzo.
La discrasia è sotto gli occhi di tutti: mentre l'articolo 25 n° 2 fa divieto al giudice delegato di emettere un decreto di acquisizione, in quanto sussistono diritti di terzi incompatibili con l'apprensione alla massa del cespite, l'articolo 64, secondo comma, consente al curatore di apprendere tali beni con la sola trascrizione della sentenza di fallimento.
In secondo luogo, l'articolo 64 è concretamente applicabile solo ai beni per i quali è possibile procedere a trascrizione e cioè ai beni mobili registrati ed agli immobili.
Infine, non solo l'iniziativa giudiziaria contro l'atto del curatore viene ribaltata sul terzo (analogamente a quanto avviene nel nuovo articolo 2929 bis del codice civile), ma l'unico rimedio che viene concesso a quest'ultimo per la tutela del proprio diritto è un ricorso endofallimentare (a differenza del terzo acquirente nel caso dell'articolo 2929 bis, che almeno può proporre le opposizioni previste dagli articoli 615 e seguenti del codice di procedura civile) da presentare entro otto giorni dalla conoscenza dell'atto (trascrizione).


















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