1) Crisi "tipiche" vs. Crisi "atipica"
Purtroppo, ancora oggi la crisi dell'impresa costituisce un tema
à la page, in grado di catturare l'attenzione degli operatori
economici e giuridici.
Se il legislatore, ormai da anni, ha riconosciuto nell'art. 160
c. 1° l. fall. la dimensione giuridica di questo fenomeno
economico, come condizione oggettiva per l'accesso agli
istituti del concordato preventivo e dell'accordo di
ristrutturazione dei debiti, ancora sembra sussistano margini di
incertezza circa la sua incidenza sulle regole della diligente
gestione delle imprese esercitate in forma societaria.
Già si è scritto circa le modalità di conformazione della
gestione alle esigenze imposte dal deposito di una domanda
c.d. protettiva (2), ora, invece, in una sorta di "prequel",
interessa verificare come la crisi, evento connaturale all'agire
imprenditoriale, sin dal suo manifestarsi all'interno delle stanze
di governo dell'impresa (e, pertanto, a prescindere dalla
pubblica emersione ed evidenza della crisi stessa), sia in grado
di modificare le regole di azione cui i gestori di una società di
capitali devono attenersi.
Se è pur vero che la nozione giuridica di "stato di crisi", oggi
presupposto dall'art. 160 c. 1° l. fall., sfugge ai pur autorevoli
tentativi di una precisa definizione della fattispecie, resta che
chi partecipa alla gestione dell'impresa, se non è del tutto
sprovveduto (3), è in grado di percepire, più o meno
tempestivamente (spesso a seconda della struttura
organizzativa dell'impresa stessa e della sua capacità di
monitoraggio dell'andamento dell'attività), che le cose non
vanno più come un tempo e che, pertanto, si è superata la
soglia oltre la quale l'impresa si trova in uno "stato di crisi".
Che questa poi dipenda da uno sbilancio patrimoniale, da
uno squilibrio finanziario, da una perduta redditività o da una
combinazione di queste cause (ciò che avviene normalmente)
poco importa: si tratta ora di capire se e come il gestore debba
modificare i criteri di conduzione dell'impresa ai quali si è
ispirato sino al giorno prima dell'acquisita consapevolezza
della crisi.
Innanzitutto, la risposta alla questione sollevata è (sempre
relativamente) semplice se la crisi ha una sua tipicità giuridica.
Se la crisi è il frutto di uno choc ovvero è stata percepita
tardivamente (a prescindere da eventuali responsabilità, in tal
caso), questa può tradursi immediatamente in uno stato
d'insolvenza ex art. 5 l. fall., ciò che non lascia dubbi sul fatto
che i gestori si trovino dinanzi ad una secca alternativa: o
instare per il fallimento in proprio del debitore o accedere ad
uno strumento di composizione della crisi che presupponga
siffatto stato (sicuramente comprensivo anche dello stato
d'insolvenza ex art. 160 u.c. l. fall.): concordato preventivo o
accordo di ristrutturazione dei debiti.
La scelta della soluzione, tra quelle comunque testé esposte e
che comunque s'impongono, costituisce poi sempre un atto di
gestione, in quanto tale sindacabile ex post solo in coerenza
alla c.d. Business judgment rule e, dunque, i) se costituisce il
frutto di un procedimento di adozione della decisione non
adeguatamente istruito ovvero ii) se la scelta è manifestamente
irrazionale cioè a dirsi, nel caso di specie, inevitabilmente
destinata all'insuccesso (4).
Parimenti, lo squilibrio patrimoniale che incida sul capitale
sociale e superi le soglie previste dagli artt. 2447 e 2482-ter
c.c. non evidenzia problemi di disciplina, in quanto impone ai
gestori la convocazione dell'assemblea dei soci e, in mancanza
degli "opportuni provvedimenti" previsti dagli artt. ult. cit. e
dall'art. 182-sexies l. fall., l'apertura di un procedimento di
liquidazione.
Ancora una volta, peraltro, pur in mancanza di un vero e
proprio stato d'insolvenza, ritengo che una situazione
patrimoniale che evidenzi una perdita incidente su più di un
terzo del capitale sociale, considerata ipso facto red flag per
l'ordinamento societario, possa essere qualificata dai gestori
come sintomatica di uno stato di crisi (5) e consenta quindi loro
l'accesso ad un percorso di ristrutturazione del debito mediato
dalla procedura di concordato preventivo o dalla disciplina di
cui all'art. 182-bis l. fall. (6), con gli effetti previsti dall'art.
182-sexies cit.
Il problema che interessa affrontare nella presente sede,
invece, riguarda una crisi "atipica", ovvero non specialmente
già disciplinata dal legislatore.
E' certo, infatti, che la percezione dell'emersione della crisi
da parte degli organi sociali possa (e, anzi, debba, di norma)
essere anteriore alla sua decadenza in vero e proprio stato
d'insolvenza ovvero ad una sua incidenza sul patrimonio netto
tale da incidere sul minimo legale del capitale sociale nei
termini previsti dagli artt. 2447 e 2482-ter c.c.
In questo caso, infatti, la disciplina posta dal legislatore per
affrontare le crisi "tipiche" non aiuta e si tratta, dunque, di
stabilire se i gestori possano proseguire imperterriti in una
conduzione dell'impresa che, lasciata inalterata, proseguirà
probabilmente sino a scontrarsi contro il muro dell'insolvenza
o dello scioglimento della società, ovvero, al contrario,
debbano, ben prima, adottare diverse regole di azione, la cui
violazione li renda altresì responsabili nei confronti della
società stessa e dei suoi creditori.
Il dubbio proposto, dunque, si articola in due sotto - quesiti:
i) se esistano norme o principi dell'ordinamento che
impongano agli amministratori di modificare i criteri di
gestione dell'impresa in presenza di una crisi atipica; ii) in caso
di risposta positiva, quali siano le regole di gestione cui gli
organi sociali debbano conformarsi.
2) La gestione conservativa come principio generale della
c.d. twilight zone: la necessità di precisazioni
Il tema non è certo nuovo nel panorama dottrinale, le cui
riflessioni sono state stimolate dalla persistente crisi economica
che ancor'oggi interessa, seppure in maniera non omogenea, il
tessuto imprenditoriale nazionale.
La riconosciuta esigenza di anticipare il trigger di una
risposta degli organi sociali alla crisi incipiente e,
conseguentemente, il suo più efficiente trattamento, anche in
funzione della conservazione del maggior valore dell'impresa
stessa, ha portato ad una linea di pensiero piuttosto condivisa,
che porta al centro degli interessi "sociali" perseguiti dagli
amministratori i creditori della società amministrata: dal
momento in cui la crisi, non ancora insolvenza, sia tuttavia già
in grado di mettere a rischio, seppure anche solo
prospetticamente, la loro aspettativa di integrale
soddisfacimento, la gestione deve essere indirizzata al
perseguimento di siffatto loro interesse, ciò che si deve tradurre
in una condotta "conservativa".
Nella letteratura più "strutturata", questa conclusione è
mediata da una particolare interpretazione dell'art. 2484 n. 2
c.c., per la quale la perdita di continuità aziendale costituirebbe
una causa di scioglimento per impossibilità di conseguimento
dell'oggetto sociale, con conseguente applicazione ipso jure
dell'art. 2486 c.c. e, al fine, dell'obbligo per gli amministratori
di adottare un criterio conservativo della gestione.
Quest'ultima suggestione esegetica mi è già parsa
discutibile, sia perché la causa di scioglimento prevista dal n. 2
dell'art. 2484 c.c. sembra fare riferimento ad un "difetto" della
programmazione dell'attività economica esplicitata dallo
statuto (infatti rimediabile tramite sua modifica), piuttosto che
ad un "difetto" delle concrete modalità di esecuzione del
programma statutario, sia perché la libertà di iniziativa
economica prevista dall'art. 41 Cost. dovrebbe portare
comunque ad una lettura restrittiva della norma, specie allorché
il patrimonio netto resti positivo e, dunque, il rischio d'impresa
tendenzialmente ancora allocato in capo ai soci.
In generale, tuttavia, l'affermazione che la crisi d'impresa
imponga una sua gestione conservativa, allorché i creditori
sociali iniziano a condividere con i soci il rischio conseguente
alla stessa, richiede alcune precisazioni.
Innanzitutto, ricondurre la necessità di modifica dei criteri
gestionali alla perdita di continuità aziendale ovvero alla
traslazione del rischio (anche solo in parte) dai soci ai creditori
sociali può significare, in realtà, tornare alla nota disciplina
delle crisi "tipiche", già sopra evocata.
Da una lato, infatti, la perdita di continuità aziendale,
qualunque ne sia la causa, incide innanzitutto sulla
valorizzazione dei cespiti dell'attivo patrimoniale, per la quale
non sarà più possibile tenere conto ex art. 2423-bis n. 1 c.c.
della "prospettiva della continuazione dell'attività".
Ne deriva la normale emersione di minusvalenze, riguardanti
in particolare le immobilizzazioni immateriali e le rimanenze,
che incidono pesantemente sull'equilibrio patrimoniale
dell'impresa, spesso conducendo la società allo scioglimento
per perdita del capitale sociale ex art. 2484 n. 4 c.c., senza la
necessità, dunque, di forzare l'interpretazione del n. 2 dell'art.
ult. cit. al fine di provocare l'applicazione del criterio
gestionale imposto dall'art. 2486 c.c.
Da un altro lato, invece, sembra corretto ritenere che la
prospettiva del rischio di insoddisfazione integrale e tempestiva
dei creditori, allo stato dell'organizzazione dei fattori di
produzione dell'impresa, sia già stato d'insolvenza, specie se di
questa nozione si accolga una concezione dinamica, che
consenta di attualizzare l'aspettativa di un'inevitabile (ma
futura) incapacità di regolare adempimento (7).
Allora, però, la risposta corretta a questa crisi, in realtà già
qualificata, non è la gestione conservativa dell'impresa ma,
come sopra riferito, il necessario ricorso ad un tipico istituto
previsto dall'ordinamento concorsuale per il trattamento dello
stato d'insolvenza dell'imprenditore.
D'altra parte, allorché si opti (per qualunque motivo) per
l'adozione di un criterio conservativo della gestione non
appena il sole dell'impresa inizi a calare, resta da specificare
cosa s'intenda per "gestione conservativa", specie considerata
l'ambiguità dell'aggettivazione.
Non convince punto, innanzitutto, la traduzione del concetto
nell'obbligo di evitare l'assunzione di un nuovo rischio,
considerato che l'attività d'impresa è ontologicamente
rischiosa e siffatto obbligo, dunque, dovrebbe comportare
sempre e comunque la cessazione di qualsiasi attività, ciò che
non è neppure necessariamente conseguente allo scioglimento
della società.
Ma anche far corrispondere la gestione conservativa ad
un'attività di "ordinaria amministrazione", con tutti i dubbi che
derivano dal riferire tale concetto all'attività d'impresa, lascia
un margine di insoddisfazione, se l'ordinaria amministrazione
deve corrispondere a conservazione della formula aziendale,
con il divieto di slanci innovativi volti alla rimodulazione
dell'organizzazione d'impresa.
Va considerata, infatti, la possibilità (forse, meglio, la
probabilità) che quella formula aziendale che si vuole
conservare sia anch'essa (o solo essa) la causa della crisi e
l'origine delle perdite nelle quali, di norma, la crisi si
manifesta.
Sarebbe, pertanto, decisamente poco ragionevole imporre
agli amministratori di continuare imperterriti a seguire una
strada che ha già portato alla crisi e non potrebbe che
alimentarne le conseguenze deleterie.
Forse è più convincente, al fine, ritenere che quando si deve
iniziare a "conservare", il traguardo di riferimento non sia
l'organizzazione imprenditoriale ma il patrimonio sociale.
Così facendosi, tuttavia, non si fa che dare applicazione
all'at. 2486 c.c., che di siffatto patrimonio costituisce il
presidio ma la cui applicazione presuppone l'avvenuto
scioglimento della società.
Né la regola sembra così facilmente estensibile "a monte" di
una causa di scioglimento, visto che costituisce una vistosa
deroga al criterio "incrementativo" (piuttosto che conservativo)
del patrimonio sociale imposto alla gestione delle società
dall'art. 2247 c.c., vera e propria ragione (se non "causa") del
vincolo di destinazione imposto al patrimonio anche in danno
dei soci.
Il tema di come affrontare, dunque, una crisi "atipica" non
sembra esaurito e, per provare a rispondere alle perplessità
testé evidenziate, si vuole di seguito proporre un approccio al
problema che guardi, in generale e ancor prima della crisi, a
come la gestione di un'impresa, specie in quanto riferita ad una
società di capitali, deve sempre (e, dunque, anche prima della
percezione interna della crisi) fare i conti con i creditori sociali.
3) L'art. 2394 c.c. come covenant legale: in generale
Il dato normativo che consente siffatta conclusione è offerto
dall'art. 2394 c.c. che, come noto, prevede una responsabilità
diretta degli amministratori di S.p.A. nei confronti dei creditori
sociali nel caso di "inosservanza degli obblighi inerenti alla
conservazione dell'integrità del patrimonio sociale".
Detta norma, per chi scrive, non costituisce soltanto una
regola di legittimazione (dei creditori sociali) all'azione di
responsabilità ma offre altresì una chiara indicazione della
preesistenza (rispetto all'azione) di una vera e propria regola di
azione degli amministratori, volta, per l'appunto, alla
"conservazione dell'integrità del patrimonio sociale", regola
che va a comporre il set dei principi di corretta
amministrazione evocati, tra l'altro, dall'art. 2403 c.c.
Il dovere degli amministratori di conservare il patrimonio
sociale (8) trova innanzitutto espressione in un ben preciso
criterio gestionale, che prescinde dallo stato di crisi della
società e che, per l'appunto, impone di considerare nella
gestione gli interessi dei creditori sociali, senza che questa,
tuttavia, sia piegata al loro conseguimento.
S'intende dire, in particolare, che il patrimonio netto
costituisce un limite del rischio razionalmente ex ante
accettabile: pur se possa corrispondere all'interesse dei soci (e,
quindi, all'interesse "sociale"), un'operazione particolarmente
rischiosa, dalla quale possano attendersi grandi guadagni ma
anche grandi perdite, cessa di essere coperta dalla Business
judgment rule, quanto meno dal lato della responsabilità degli
amministratori verso i creditori sociali, se le perdite possibili
siano in grado erodere totalmente il patrimonio netto della
società.
Dall'art. 2394 c.c. e dai principi di corretta amministrazione
si desume dunque in primis un dovere di conservazione del
patrimonio netto, che certo potrà subire le normali conseguenze
(anche negative) dell'attività d'impresa ma non potrà essere
deliberatamente messo in gioco nella sua totalità, pur
nell'ambito di una scelta corrispondente all'assunzione di un
rischio economicamente razionale.
Il dovere espresso dall'art. 2394 c.c., cioè, si pone come
contrappeso rispetto alla responsabilità limitata dei soci ed al
corrispondente incentivo all'azzardo morale.
Siffatta affermazione, peraltro, si trascina ulteriori
considerazioni che, più in generale, attengono al rapporto tra
struttura finanziaria e gestione dell'impresa.
Se si condivide la traduzione del dovere di conservazione
dell'integrità del patrimonio sociale in divieto di assunzione di
un rischio che ex ante metta nel conto la possibilità di perdita
integrale del patrimonio netto, si conviene anche nella
conclusione che, allora, i creditori sociali sono in grado di
condizionare la gestione dell'impresa sempre e comunque,
anche a prescindere dalla sua crisi.
Ovvero, l'art. 2394 c.c., come regola di azione, opera come
un vero e proprio covenant legale, che impone agli
amministratori limiti nell'assunzione delle decisioni gestorie.
Ciò non significa, si badi, che la gestione debba essere
innanzitutto indirizzata al perseguimento degli interessi dei
creditori, prima che a quello dei soci, ovvero che la "diligenza"
prevista dall'art. 2392 c.c. significhi sempre e comunque
"prudenza".
L'art. 2247 c.c., come scritto, impone agli amministratori di
puntare all'incremento del patrimonio sociale, solo a seguito
del quale sarà possibile generare gli utili da distribuire tra i
soci.
La prevalenza degli interessi dei creditori sociali e, con essa,
la mera conservazione del patrimonio sociale, è imposta agli
amministratori come criterio gestionale solo a seguito dello
scioglimento della società, ai sensi dell'art. 2486 c.c., non
prima.
Con la regola sopra descritta, invece, s'intende stabilire un
nesso tra struttura finanziaria dell'impresa e gestione, tale per
cui la seconda debba essere adeguata alla prima.
Il ricorso alla leva finanziaria, la scelta di
sottocapitalizzazione della società sono scelte degli
amministratori e dei soci che hanno un "costo" gestionale
implicito nella limitazione del rischio che può essere
legittimamente assunto.
Ciò non confligge, peraltro, con la libertà di iniziativa
economica prevista dall'art. 41 Cost.: nessuno obbliga i soci di
una società di capitali a dotarla di un capitale sociale incongruo
né i suoi amministratori sono costretti ad indebitarla.
La struttura finanziaria di un'impresa gestita da una società
di capitali è il frutto di libere scelte di soci ed amministratori,
ma se queste scelte sono orientate all'eccessivo ricorso a mezzi
di terzi, ciò non può non avere ricadute sulla (più limitata)
libertà di manovra consentita nella gestione quanto
all'assunzione del rischio.
Anche nelle società di capitali, come negli Stati sovrani,
esiste un trade off tra debito e libertà: il ricorso al primo
significa sacrificio della seconda.
4) Segue: nella crisi
Una seconda manifestazione del dovere di conservazione del
patrimonio sociale riguarda invece il momento della crisi
dell'impresa.
In particolare, la crisi che qui interessa è quella che si
manifesta nella emersione di perdite di esercizio costanti e
ripetute, che lascino ragionevolmente presumere la loro futura
reiterazione.
Si assume, cioè, una progressiva erosione del patrimonio
netto, ancora positivo e, addirittura, ancora superiore al capitale
sociale (9).
A prescindere dal fatto se siffatta sequenza di esercizi in
perdita corrisponda anche a cessazione della continuità
aziendale oppure no (10), il dovere di conservazione del
patrimonio sociale non consente agli amministratori di assistere
impotenti alla sua dispersione, pur se questa non costituisce il
frutto di operazioni azzardate ma, più semplicemente, la
conseguenza, attribuibile ad n fattori, della inadeguatezza
dell'impresa rispetto al mercato.
Nel caso di specie, l'aspettativa dei creditori sociali per una
tempestiva ed integrale soddisfazione delle loro rispettive
ragioni non è (ancora) messa a repentaglio ma non per questo
l'inerzia degli amministratori è un comportamento lecito, anche
se avallato dai soci.
Dovere di conservazione del patrimonio sociale, inteso come
principio di corretta amministrazione che prescinde dagli
interessi in gioco, significa qui dovere di tempestiva reazione
ad una situazione che ancora non è degenerata nell'insolvenza
e che è possibile che, all'esterno dell'impresa (e a prescindere
da ciò che espongono i bilanci), sia sostanzialmente
asintomatica.
In questa situazione di crisi "atipica" ed anche precoce,
rispetto alla situazioni tipicamente presupposte dal legislatore
come causa di attivazione della disciplina della crisi prevista
dal codice civile o dalla legge fallimentare, l'art. 2394 c.c.
consente di intravedere già un dovere degli amministratori che,
tuttavia, non corrisponde alla gestione "conservativa" della
twilight zone ma, al contrario, impone loro una decisa rottura
con il passato imprenditoriale, mediante l'adozione di scelte di
gestione anche radicalmente innovative e funzionali a rimettere
in carreggiata l'impresa stessa.
A tal fine, saranno ben possibili operazioni straordinarie, con
l'assunzione dei relativi costi, finalizzate, ad esempio, alla
ridefinizione del perimetro dell'organizzazione, in una logica
ben poco "conservativa" della passata formula aziendale.
Nel caso immaginato, di crisi reddituale che ancora lasci alla
società un patrimonio netto positivo ed una capacità di regolare
adempimento, ciò che si deve conservare non è
l'organizzazione d'impresa ma il patrimonio sociale e, per
giungere a questo obiettivo, la prima può legittimamente essere
stravolta, mediante una diversa modulazione della struttura
finanziaria e patrimoniale o della dinamica dei costi.
Si tratta, dunque, di una "conservazione" diversa da quella
prevista dall'art. 2486 c.c., ai sensi del quale gli amministratori
della società disciolta, pur dovendo aspirare alla conservazione
del patrimonio, non possono avventurarsi lungo percorsi di
ristrutturazione dell'impresa ma devono limitarsi alla gestione
del presente, per poi passare la mano delle scelte riguardanti la
gestione della liquidazione ai soci, ex art. 2487 c. 1° c.c., e ai
liquidatori, ex art. 2489 c.c.
E se siffatta conservazione della formula aziendale, nel
tempo richiesto per la nomina dei liquidatori, sarà in grado di
generare soltanto perdite non compensabili dall'aspettativa di
realizzazione di una plusvalenza dalla cessione dell'azienda in
esercizio, gli amministratori, al fine della conservazione del
patrimonio sociale, dovranno prendere in considerazione la
cessazione tout court di ogni attività d'impresa.
Dunque, il dovere di conservazione del patrimonio durante
societate ed espresso dall'art. 2394 c.c. si traduce in regole di
azione degli amministratori radicalmente diverse rispetto a
quelle espresse dall'art. 2486 c.c.: dal punto di vista
dell'organizzazione aziendale, si tratta di imporre
l'innovazione rispetto alla conservazione, pur sempre, in
entrambi i casi, avendosi come parametro di riferimento il
patrimonio sociale.
Peraltro, l'attribuzione agli amministratori di un vero e
proprio dovere di reazione in presenza di una crisi "atipica",
che si manifesti in reiterate perdite di esercizio, comporta
anche una decisa anticipazione del tempo di trattamento della
crisi, con le note aspettative di una sua migliore e più
soddisfacente soluzione.
Non occorre attendere che le aspettative dei creditori siano
ridotte al lumicino o che il capitale sociale sia sceso sotto al
livello di guardia perché gli amministratori di una società di
capitali siano tenuti ad un comportamento reattivo, sulla base
di un obbligo il cui inadempimento genera responsabilità, nei
confronti della società e dei suoi creditori.
La violazione di tale principio di corretta amministrazione
consente altresì, in caso di azione di responsabilità promossa in
sede concorsuale, la retrodatazione, a monte della perdita del
capitale sociale, del dies a quo della generazione del danno
risarcibile, pur con tutti i problemi che attengono al nesso di
causalità e alla quantificazione del danno (11).
Resta da chiedersi, infine, se la reazione degli amministratori
ad una siffatta crisi "atipica" possa, o debba, essere pianificata
all'interno di uno degli istituti di composizione della crisi
d'impresa previsti dalla legge fallimentare.
In primis, non sembra potersi dubitare del fatto che, anche se
"atipica", la crisi descritta (perdite costanti, in presenza di un
patrimonio netto positivo e senza allarme dei creditori) rientri
nello "stato di crisi" di cui al comma 1° dell'art. 160 l. fall. e,
quindi, la programmazione della sua soluzione potrebbe in
astratto trovare sede nell'ambito di un concordato preventivo o
di un accordo di ristrutturazione dei debiti.
Tuttavia, si ricorda che uno dei presupposti di fatto da cui si
muove consiste nel mantenimento di normali rapporti con i
creditori sociali che, dall'esterno, non percepiscono segnali di
difficoltà dell'impresa e continuano ad essere tempestivamente
ed integralmente soddisfatti.
Ebbene, in tali condizioni ha poco senso ricorrere agli istituti
testé ricordati per procedere ad una rimodulazione della
struttura organizzativa o finanziaria dell'impresa, sia perché,
magari, è sufficiente dismettere, ad esempio, un ramo
d'azienda non core per acquisire la liquidità necessaria a
ridurre il debito e, quindi, gli oneri finanziari, sia, e soprattutto,
perché la pubblicità imposta dal ricorso al concordato
preventivo o all'accordo ex art. 182-bis l. fall. è comunque
deleteria nei rapporti con i creditori e, più in generale, con il
mondo degli stakeholders.
Finché la crisi resta confinata nelle stanze del governo
dell'impresa, manifestarla all'esterno comporterebbe
inevitabilmente un'immediata degenerazione della situazione,
con una vera e propria eterogenesi dei fini rispetto a quanto
impone il dovere di conservazione del patrimonio sociale.
Se, quindi, nel caso di specie la soluzione della crisi deve
essere affrontata sulla base di una rigorosa riservatezza
dell'intervento ovvero, comunque, dei motivi dello stesso, è
immaginabile procedere alla reazione mediante il ricorso ad un
altro istituto, che escluda un obbligo di pubblicità, quale il
piano attestato di risanamento evocato e (poco) disciplinato
dall'art. 67 c. 3°, lett. d), l. fall.
Con questo, sarà possibile incidere sia sul lato del debito,
mediante una sua riprogrammazione collocata nel piano
attestato, sia sul lato dell'organizzazione (12), con il
compimento delle operazioni straordinarie in esecuzione del
piano attestato, agevolando la formazione di accordi del
debitore con i terzi chiamati a partecipare al turnaround
programmato per il ripristino della redditività mediante
l'attribuzione del bonus dell'esonero da revocatoria,
rendendosi quindi utile alla riduzione dei costi di transazione e,
in ultima istanza, ad agevolare una reazione dei gestori alla
crisi che, per il carattere di innovazione che può recare con sé,
è verosimilmente più rischiosa (in termini di alea bilaterale)
della conservazione dell'esistente (13).
1) Si tratta della rielaborazione (aggiornata anche alla luce del D.L. n. 83/2015) di una relazione tenuta in occasione del convegno "Crisi di impresa e concordato: teoria e prassi a confronto", tenutosi a Vicenza il 12 giugno 2015 sotto l'egida dell'Osservatorio Triveneto di Diritto Fallimentare e Società, relazione che trae spunto dalle riflessioni già svolte dall'autore ne La governance dell'impresa in fase di ristrutturazione, nel Fallimento, 2015, p. 253, e che tiene conto della successiva lettura di M. FABIANI, Fondamento e azione per la responsabilità degli amministratori di s.p.a. verso i creditori sociali nella crisi d'impresa, in Riv. soc., 2015, p. 272. A questi testi, oltre che a M. FABIANI, L'azione di responsabilità dei creditori sociali e le altre azioni sostitutive, Giuffrè, Milano, 2015, si rinvia per ogni riferimento dottrinale e giurisprudenziale.
2) Cfr. La governance dell'impresa in fase di ristrutturazione, cit.
3) Ciò che non può escludersi in termini assoluti, in un sistema che non richiede ex lege professionalità alcuna neppure agli amministratori di S.p.A. (se non in casi eccezionali delle società di diritto comune - cfr. art. 2409 c. 3° c.c. - ed in settori speciali dell'ordinamento societario).
4) dubito fortemente, dunque, sulla base dei presupposti esposti nel testo, della possibilità di un sindacato giudiziario in merito alla scelta del debitore di proporre istanza di fallimento in proprio, anche se non si tratti della scelta più conveniente per i creditori. peraltro, oggi, alla luce del novellato art. 163 l. fall., in presenza di una pur astratta possibilità di proposte concorrenti al rialzo, il concordato preventivo potrebbe essere ex ante sempre più conveniente per i creditori dello stesso fallimento, ciò che, ab absurdo, conferma la convinzione della non sindacabilità dell'istanza di fallimento in proprio.
5) né ritengo che la qualificazione dello sbilancio patrimoniale come stato di crisi sia sindacabile da parte del tribunale chiamato a valutare la sussistenza dei presupposto di cui al comma 1° dell'art. 160 l. fall.: appartiene agli interna corporis della società stabilire se e quanto lo sbilancio abbia altresì incidenza sulla futura gestione dell'impresa e, pertanto, se possa o meno essere l'anticamera di un vero e proprio stato d'insolvenza.
6) A conforto dell'affermazione per cui lo squilibrio patrimoniale che determina una perdita superiore al terzo del capitale sociale, riducendolo al contempo sotto al minimo legale, è sempre "stato di crisi" ex art. 160 c. 1° l. fall., si segnala che l'art. 182-sexies l. fall., con il suo richiamo degli artt. 2446, commi 2° e 3°, e 2482-bis, commi 4°, 5° e 6°, del codice civile, presuppone la possibilità di deposito di una domanda c.d. protettiva anche soltanto in presenza di una perdita qualificata che lasci il capitale sociale al di sopra del suo minimo legale.
7) Cfr. D. GALLETTI, La ripartizione del rischio di insolvenza, Bologna, 2006, p. 191 ss.
8) I principi di corretta amministrazione, peraltro, valgono a prescindere dal tipo societario, sì che il dovere di protezione del patrimonio sociale vige, ad esempio, anche nella s.r.l., a prescindere dall'opinione in tema di estensibilità a questo tipo dell'azione di responsabilità ex art. 2394 c.c., e nell'esercizio di attività di direzione e coordinamento di società ex art. 2497 c.c.
9) L'integrità del capitale sociale, ai fini del ragionamento esposto nel testo, è peraltro una possibilità, non una necessità.
10) Il "documento n. 570" del CNDCEC in materia di continuità aziendale individua, tra gli indicatori finanziari sintomatici della perdita di continuità, "bilanci storici o prospettici che mostrano cash flow negativi" e "consistenti perdite operative o significative perdite di valore delle attività che generano cash flow", riconoscendo un'innegabile liaison tra perdite di esercizio e continuità aziendale.
11) Cfr. di recente Cass. civ., se. unite, 6 maggio 2015, n. 9100, ove pure si ripropone la possibilità, in ogni caso, di una valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c.
12) Tale flessibilità operativa non può riconoscersi, invece, alla nuova convenzione di moratoria prevista dall'art. 182-septies l. fall., introdotto con il D.L. n. 83/2015, la quale, pur se non destinata ad essere pubblicata nel registro delle imprese, è funzionale solo ad operazioni di ristrutturazione del debito finanziario, in un contesto nel quale, peraltro, quanto meno il credito professionale del sistema bancario è già in stato di allerta.
13) Sul concetto giuridico di "rischio", cfr. M. MAUGERI, Note in tema di doveri degli amministratori nel governo del rischio di impresa (non bancaria), nella Rivista telematica di ODC, anno II, 2014, p. 6 ss.