«L’inferno è solamente una questione temporale / A un certo punto arriva, punto e basta / A un certo punto han chiuso l’ingresso principale / E hanno detto avete perso il posto / È vero il mio lavoro è sempre stato infame / Ma l’ho chiamato sempre il mio lavoro».
Sono versi di Non ho che te, canzone di Luciano Ligabue di una decina di anni fa, forse non tra le migliori, musicalmente parlando, dello straordinario repertorio della rockstar reggiana, ma certamente tra quelle di contenuto più intenso, coinvolgente, toccante. Un operaio che, «a un certo punto», trova serrato il cancello della ditta per cui lavorava e precipita in un inferno che, in breve, diventa «il posto che frequenti», il «buio sotto questo sole», «le luci quasi tutte spente» – ove non contano più i prestiti bancari, le mobilitazioni sindacali, le prospettive pensionistiche – e che lo spinge persino a interrogarsi inquieto se la propria donna sappia ancora cosa fare «di un uomo che non ha un lavoro».
Si tratteggiano così in taglienti pennellate quasi impressionistiche (molto meglio di quanto avrebbero saputo fare interi e noiosi trattati di diritto e di sociologia del lavoro) l’inferno della crisi d’impresa quando s’abbatte sui lavoratori e lo smarrimento psicologico e relazionale di chi perde, in rapido volgere e non per colpa sua, quello che aveva «chiamato sempre il mio lavoro»; ed è drammaticamente efficace l’enfasi dell’aggettivo possessivo, che compensa l’”infamità” delle mansioni (come si dice, un task work), evidentemente faticose, ripetitive e poco gratificanti. Certo, si è lontani dal compiacimento orgoglioso, ergofilo (e un po’ ingenuo, in verità) di Tino Faussone, il protagonista de La chiave a stella di Primo Levi, che amava il proprio lavoro di montatore di gru tanto da ravvisarvi «la miglior approssimazione concreta alla felicità sulla terra»; i tempi sono decisamente cambiati, ma quel “mio” è ancora avido di significato, dice ancora molto, è un urlato e protervo “atto occupativo”, per così dire, della “quota di proprietà”, del “dividendo” sull’azienda datoriale che il lavoratore rivendica dopo avervi vissuto e operato, magari a lungo, quale componente inisolabile dal suo contesto socio-economico e di “comunità”, in cui s’inserisce (s’inseriva) costitutivamente e funzionalmente ciò che era stato «chiamato sempre il mio lavoro».