Il diritto contro l'economia: commento a una recente sentenza della cassazione
Pubblicato il 09/05/12 02:00 [Articolo 600]






Una recente sentenza della Cassazione contiene alcune definizioni di carattere economico-finanziario gravemente carenti, che., se da un lato non sono indispensabili ai fini della decisione presa, dall'altro rischiano di alterare tutta la giurisprudenza collegata, data l'autorevolezza della Corte. Tra le gravi definizioni espresse:
i) si toglie significato e concretezza al prezzo c.d. "mark to maket",cancellando di fatto tutta la legislazione internazionale sugli standard di bilancio;
ii) si limita il danno patrimoniale al caso di riduzione delle attività trascurando l'ampia casistica del gonfiamento dei passivi;
iii) si confonde il profilo della redditività con quello della valorizzazione, negando il danno patrimoniale in presenza di una redditività positiva.
Con questo tipo di "cultura economica", accanto al giudizio di legittimità diventa necessario un vaglio della legittimità economica del giudizio.

Si può cassare una sentenza della Cassazione?
Certo la Suprema Corte può rivedere, come già in passato, sue pregresse sentenze con il pronunciamento di nuove decisioni, magari a Sezioni unite e con diverso relatore.
Resta il fatto che la sentenza n. 47421 del 21 dicembre 2011 da parte della Cassazione Penale, Sezione II, contiene, nel corso delle motivazioni del giudizio, alcune affermazioni di natura squisitamente economica che non trovano riscontro né teorico né pratico nell'ambito della disciplina finanziaria loro propria.
Trattandosi peraltro di affermazioni del tutto non cruciali ai fini delle decisioni assunte dalla Corte, la validità di queste non viene minimamente toccata dalle considerazioni critiche che coinvolgono quelle stesse affermazioni.
Come noto, la sentenza in esame dichiara inammissibili i ricorsi di due Comuni e del PM contro un Tribunale del riesame che ha accolto una richiesta di dissequestro di beni di una Banca per oltre 17 milioni di euro, un valore commisurato ai contratti derivati sottoscritti dalla Banca coi medesimi Comuni.
Come in quasi tutte le tipologie del caso, la Banca aveva proposto ai Comuni una ristrutturazione del debito attraverso contratti swap di tasso che, secondo i Comuni e il PM, comportavano un apprezzamento di gran lunga superiore all'effettivo up-front riconosciuto agli Enti locali in sede di stipula.
Secondo il PM citato dalla Corte:
"il mark to market è il valore del contratto ad una certa data, ed è pari al valore attuale del differenziale che le parti si scambieranno fino alla scadenza della struttura".
Inoltre,
"se il mark to market è negativo per una delle parti, lo stesso risulta correlativamente positivo per l'altra"
e
"l'attualizzazione dei differenziali attesi, calcolati sulla base dei predetti tassi, non ha più un carattere probabilistico, ma assume carattere di attualità".

Le tre affermazioni, in punto di finanza, sono del tutto condivisibili, sebbene con opportune qualificazioni.
Intendendo per "mark to market" la valorizzazione al mercato di un contratto, esso ne rappresenta il prezzo o valore equo o fair price. "Marcare al mercato" è infatti l'espressione che indica il processo per cui si valorizza un contratto alle condizioni di mercato del momento.
Naturalmente se un contratto ha caratteristiche non standard, queste dovranno essere incluse nel processo di valorizzazione dando luogo a prezzi che si discostano dalle quotazioni direttamente osservabili sui mercati nella misura in cui le caratteristiche del contratto in esame si discostano dalle caratteristiche (standard) dei contratti quotati.
Volendo fare un paragone col diritto, si potrebbe parlare di "mark to Code" nel caso di un giudice che dovesse valutare il responsabile di un delitto. Il Codice consentirà al giudice di stabilire che per quel delitto si ha una pena massima di (es.) 5 anni mentre l'esame delle circostanze specifiche e generiche, attenuanti e aggravanti, permetterà al giudice di comminare una pena di (es.) 3 anni e 6 mesi.
Nel caso dei contratti derivati, due specificità generalmente riconosciute attengono da un lato alla particolare ingegnerizzazione, taylorizzazione "su misura" e commercializzazione al dettaglio del prodotto finanziario e dall'altro allo specifico rischio di controparte che viene a sussistere nel caso dei due particolari contraenti.
Nel caso dei contratti standard (plain vanilla) i due aspetti sono superati da un lato dalla standardizzazione dei prodotti e dall'altro dal perfetto bilanciamento dei rischi di controparte tipico del mercato interbancario all'ingrosso.
Alla luce di queste precisazioni, si parla a volte di midprice per indicare la valorizzazione "all'ingrosso" (prezzo mid) e di fair value per indicare il valor finale dopo i menzionati aggiustamenti.
Il risultato finale conferma il principio basilare del pricing finanziario come "valore atteso scontato", vale a dire, usando l'espressione riportata in sentenza, come "valore attuale del differenziale che le parti si scambieranno fino alla scadenza" del contratto.
Parimenti valida l'affermazione secondo cui "se il mark to market è negativo per una delle parti, lo stesso risulta correlativamente positivo per l'altra".
Si tratta infatti di contratti "a somma zero", nel senso che il mio debito come emittente rappresenta un credito equivalente per il possessore del titolo così come la sottoscrizione di un contratto a parti separate e contrapposte rappresenta, in generale, un impegno reciproco e simmetrico a incassi e pagamenti secondo precise scadenze e condizioni.
Infine, trattandosi precisamente di valori attuali, "l'attualizzazione dei differenziali attesi non ha più un carattere probabilistico, ma assume carattere di attualità".
Se il processo di valorizzazione (oggi diremmo il processo di pricing) è rappresentato, dopo alcuni secoli di teoria economica, dal valor atteso scontato:
ove
P(t) è il prezzo dello strumento finanziario
Êt [H(T)] indica la media o valore atteso dei possibili risultati a scadenza del prodotto
(1+R) qualifica il fattore di sconto ad un tasso di interesse R
non si faccia ingannare il giudice di merito o di legittimità dalla presenza di un'aspettativa, sia pur "oggettiva" o risk-adjusted. Il risultato, P(t), ha una validità pratica e una pregnanza contabile riconosciuta a livello internazionale dagli standard adottati da tempo da tutti i paesi sviluppati e rappresenta, anzi, un vincolo di correttezza patrimoniale e bilancistica recepito dalle migliori legislazioni moderne, inclusa quella europea.
Su punto si rinvia alle puntuali indicazioni fornite da Paletta (2012) http://www.dirittobancario.it/rivista/derivati/il-mark-market-degli-strumenti­finanziari-derivati
La debolezza delle considerazioni economiche svolte dalla Corte Suprema si manifesta nell'esame del reato di truffa, "reato istantaneo che si perfeziona nel momento in cui alla realizzazione della condotta tipica da parte dell'autore abbia fatto seguito la deminutio patrimonii del soggetto passivo".
Per i giudici di Cassazione "nell'ipotesi di truffa contrattuale il reato si consuma non già quando il soggetto assume, per effetto di artifici o raggiri, l'obbligazione della datio di un bene economico, ma nel momento in cui si realizza l'effettivo conseguimento del bene da parte dell'agente e la definitiva perdita dello stesso da parte del raggirato".
Questo principio, applicato a un titolo di credito, confina la truffa al momento dell'acquisizione da parte del truffatore della relativa valuta poiché solo così si concreta il vantaggio patrimoniale dell'agente e diviene definitiva la lesione patrimoniale del truffato.
Sembra sfuggire del tutto al collegio giudicante la dimensione patrimoniale come saldo tra attività e passività di modo che una deminutio patrimonii può egualmente aversi sia attraverso una riduzione truffaldina degli attivi sia attraverso un aumento truffaldino delle passività.
Nel primo caso si pensi a un contratto per cui un truffatore (così valutabile per l'atto prodotto) ottiene dal truffato titoli di valore (fair value) 100 pagandoli 40.
Di fatto, il patrimonio del truffato passa da 100 a 40.

Lo stato patrimoniale del truffato è illustrato in Fig. 1.

Ma si pensi anche al caso di un contratto per cui il truffatore fa sottoscrivere al truffato obbligazioni di fair value 80 acquisendole per 20. Anche in questo caso il patrimonio del truffato passa da 100 a 40.
Lo stato patrimoniale del truffato è illustrato in Fig. 2.

Il caso, citato dal relatore, di truffa per "vendita a prezzo vile" delle azioni di una S.p.a. da parte dei soci di minoranza è un esempio del primo tipo ma non c'è ragione (quanto meno economico-finanziaria) per trattare in diverso modo il secondo tipo, peraltro assai più vicino alle tipologie di contratto sottoscritte dagli Enti locali in sede di ristrutturazione del debito.
Sarebbe interessante, tra l'altro, chiedere al giudice di Cassazione un approfondimento su quel "prezzo delle azioni" rispetto al quale l'effettiva vendita è stata valutata "vile" (Cass., Sez. 2^, 20 maggio 2011). Si avvedrebbe il giudice che tale prezzo, verosimilmente relativo S.p.a. non quotata, altro non è che il mark to market o fair value di quel titolo di capitale, calcolato, secondo le corrette metodologie economico-finanziarie, come valore attuale dei flussi futuri attesi generati dalla società in parola.
In mancanza di tale approfondimento, il giudice pronuncia una definizione tanto economicamente inconsistente quanto giuridicamente gravosa e verosimilmente destinata ai più ampi successi di referenza.

Il mark to market:
"non esprime affatto un valore concreto ed attuale, ma esclusivamente una proiezione finanziaria basata sul valore teorico di mercato in caso di risoluzione anticipata" del contratto,
trovando prova di ciò nel fatto che esso
"è influenzato da una serie di fattori ed è quindi sistematicamente aggiustato in funzione dell'andamento dei mercati finanziari, dovendosi poi attrarre nell'ambito dei relativi parametri di determinazione anche l'up to front (sic) erogato e l'utile per la banca".

Perché il mark to market dovrebbe riguardare solo il caso di risoluzione anticipata del contratto?
Perché dovrebbe meravigliare che il mark to market è influenzato dall'andamento dei mercati finanziari?
Perché specificare l'ovvia considerazione che il mark to market è determinato anche dall'up front e dall'utile (aggiungerei "normale") per la banca?
Alla confusione in tema di attività e passività la sentenza aggiunge, nella parte finale, analogo fraintendimento in tema di stato patrimoniale e conto economico.
Osserva il giudice che "addirittura" i contratti in questione hanno generato per i Comuni dei differenziali positivi, a cui vanno aggiunte le "consistenti" somme incassate come up front, con conseguente venire meno dell'ipotetico danno, "allo stato coerentemente non ravvisato né ravvisabile".
Sembra sfuggire al giudice la fondamentale considerazione che il profilo del prezzo e il profilo del profitto sono tra loro distinti e largamente indipendenti, almeno in linea di principio.
Se acquisto alla pari un titolo obbligazionario a 10 anni con 5% di cedola annua ho una redditività (escludendo ogni ipotesi di fallimento) del 5% all'anno.
Se lo stesso titolo viene sopravvalutato del 30%, i.e. venduto al prezzo gonfiato di 130, la logica della sentenza sembra dedurre "la sostanziale convenienza della operazione finanziaria" dato il risultato "incontrovertibile" che una redditività positiva di 1.71% all'anno resta comunque acquisita all'investitore.
Solo sopravvalutazioni del 50% e oltre, producendo rendimenti negativi, sarebbero oggetto di censura e solo i super-truffati, dunque, oggetto di protezione giuridica.
In altri termini, un pricing scorretto potrebbe solo ridurre e non cambiare di segno la redditività di un'operazione, rimanendo ciò non di meno, scorretto.
Inoltre, in presenza di contratti aleatori, un pricing anche gravemente sbilanciato potrebbe comunque associarsi a flussi futuri positivi per l'acquirente.
Questi ultimi attengono alla redditività dell'operazione, di cui il prezzo di acquisto è solo una componente.
In ogni caso va rilevato che se il prezzo fosse stato più favorevole, anche la redditività ne avrebbe beneficiato (vuoi in termini di maggior guadagno, vuoi in termini di minore perdita) e per ricavare tale risultato non è affatto necessario "procedere ad una disamina a posteriori" e attendere che il contratto giunga a scadenza potendosi senz'altro attribuire a una valorizzazione sfavorevole in sede patrimoniale un effetto diretto altrettanto negativo in sede reddituale.
Nella realtà dei casi si nota, in genere, che un errato pricing dei contratti a sfavore dell'Ente locale non solo ha determinato un mancato incasso in sede di sottoscrizione ma ha anche alterato la valutazione di convenienza dell'intera operazione di ristrutturazione dell'indebitamento, valutazione che, come insegna la teoria finanziaria e con essa l'approccio Consob-Banca d'Italia recepito nella Bozza di Regolamento in materia (http://www.dt.tesoro.it/export/sites/sitodt/modules/documenti_it/regolamentazione_bancaria_finanziaria/consultazioni_pubbliche/Derivati_enti_locali_-_regolamento_ex_articolo_62_d.l.pdf), non può che essere ex ante e probabilistica e non certo ex post (dopo 30 anni?) e deterministica.


















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