Monetizzazione del rischio, gioco e scommessa e contratti derivati
Pubblicato il 13/01/16 02:00 [Articolo 587]






Sommario: 1. Premessa. - 2. La disciplina normativa dei derivati. - 2.1 Monetizzazione del rischio: un primo criterio distintivo - 2.2. Negoziazione e titolarità del rischio: elementi scindibili?!. - 3. Le interpretazioni dottrinali. - 4. Gli indirizzi giurisprudenziali - 5. Conclusioni.



1. Premessa

Il presente lavoro ha ad oggetto il dibattito concernente il rapporto intercorrente fra la fattispecie "contratti derivati" e la fattispecie "gioco e scommessa" come indicato in epigrafe. Una vexata quaestio che ab illo tempore coinvolge la dottrina e la giurisprudenza: si tratta di fattispecie non comunicanti, dovendosi in tale caso trarre la conclusione obbligata che i contratti derivati non possano soggiacere alla disciplina che la legge detta per la fattispecie di gioco e scommessa, oppure si tratta, au contraire, di fattispecie, almeno potenzialmente, sovrapponibili con l'opposta conseguenza che taluni dei contratti derivati, nello specifico quelli c.d. meramente speculativi, siano qualificabili come "gioco e scommessa" con tutte le correlate conseguenze di legge, in primis l'applicabilità della eccezione di non ripetizione di cui all'art. 1933 c.c.
Il tema de qua verrà trattato muovendo, innanzitutto, dall'esame del tessuto normativo, per poi volgersi all'esame degli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali formatisi sul punto; da ultimo si concluderà con alcune considerazioni critiche allo scopo di addivenire ad una ricostruzione sistematica dei due istituti e ad una risoluzione di quella vexata quaestio.
2. La disciplina normativa dei derivati

Le norme che più rilevano nella sede de qua sono essenzialmente due: da un lato, la norma che definisce la fattispecie "strumenti finanziari derivati", art. 1, co. 3, d. lgs. n. 58 del 24 febbraio 1998 o TUB, recentemente modificata mezzo direttiva MiFID (2004/39/CE); dall'altro lato, la norma che, con riferimento agli strumenti finanziari derivati, stipulati "nell'ambito della prestazione dei servizi e attività di investimento", dispone expressis verbis la disapplicazione della norma di cui all'art. 1933 c.c. che nega efficacia di "legge fra le parti" ai contratti di gioco e scommessa, art. 23, 5 co., t.u.f.
Orbene, dall'analisi della precitata normativa emerge come il legislatore ha avvertito la necessità di sottrarre tutti "gli strumenti finanziari derivati", stipulati "nell'ambito della prestazione dei servizi e attività di investimento", al regime di gioco e scommessa, dunque per facta concludendi sorge il seguente quesito: quali sono i caratteri comuni degli strumenti finanziari derivati che hanno indotto il legislatore a richiamare, per renderla inapplicabile a tale fattispecie, la disciplina di "gioco e scommessa"?
Due sono le potenziali caratteristiche essenziali degli "strumenti finanziari derivati":
a) Oggetto del contratto è la negoziazione di un rischio o, meglio ancora, la monetizzazione di un rischio. Esempio: dati due rischi di diversa natura, quali, da una parte, il rischio connesso ad un tasso di interesse fisso e, dall'altra parte, il rischio connesso ad un tasso di interesse variabile, le parti decidono di effettuare un exchange dei rispettivi rischi, come avviene nella maggior parte degli swaps1. Altro caso: dato un certo rischio, le parti assumono prospettive diametralmente opposte, cioè agli antipodi, come avviene nei futures o nei weather derivates, dove in relazione all'andamento del PIL o di un indice climatico, si assiste a delle obbligazioni di pagamento perfettamente simmetriche in quanto l'obbligo di pagamento verserà su A se il PIL cresce, paga B se il PIL decresce.
b) Il rischio, la cui monetizzazione è oggetto del derivato come indicato nel punto a), può essere estraneo alla sfera giuridica dei contraenti, ben potendosi infatti ammettere nel mondo degli "strumenti finanziari derivati" una scissione tra negoziazione e titolarità del rischio2. Esempio: il derivato con cui un certo soggetto A trasferisce alla controparte B il rischio di ribasso del titolo X non presuppone che, al momento della stipula, A sia titolare del bene X, e quindi del rischio del relativo deprezzamento.


2.1 Monetizzazione del rischio: un primo criterio distintivo

La monetizzazione del rischio nel derivato si differenzia icto oculi dalla monetizzazione del rischio in gioco e scommessa, la differenza de qua insiste sul fatto che nel primo caso si tratta di monetizzazione di tipo mercantile del rischio, mentre nel secondo caso si tratta, au contraire, di una monetizzazione del rischio non mercantile; nel primo caso, il rischio è prezzato essendo oggetto di una valutazione di mercato, mentre nel secondo caso, non vale quanto appena detto, semmai l'opposto. Non può, cioè, parlarsi di rischio prezzato dal momento che il rischio medesimo viene ad essere assunto a parametro esterno per la determinazione di una obbligazione pecuniaria, la cui quantificazione rifugge in toto dall'apprezzamento di mercato di quel rischio3.
Volendo trasporre quanto ora esposto in un esempio pratico, è utile raffrontare la fattispecie del "derivato" consistente in un'opzione di vendita a prezzo prefissato del titolo Y ad un certo tempo data e la fattispecie della scommessa fra A e B circa l'andamento del titolo Y entro lo stesso periodo. Nel primo caso, il rischio dell'abbassamento del titolo Y nel periodo di riferimento costituisce l'object della negoziazione da parte dei contraenti e il conflitto di interessi circa il prezzo dell'opzione il "prezzo" dell'opzione. Nel secondo caso, una volta assunto come parametro della scommessa l'andamento del titolo Y in un dato periodo di tempo, le parti sono assolutamente libere di determinare "la posta in palio": le parti possono aver deciso di scommettere in un senso o nell'altro secondo valutazioni circa l'andamento prospettico di quel titolo, ma, trattandosi di scommessa, la c.d. posta messa in palio non è certamente razionalmente correlata al rischio assunto a parametro. Ciò che caratterizza il gioco e scommessa è dunque il gap che sussiste tra rischio, da un lato, e posta messa in palio, dall'altro lato. Riformulando, la monetizzazione del rischio che ricorre nel contesto di gioco e scommessa è sempre arbitraria, dal punto di vista della struttura, e non può perciò esprimere un prezzo di mercato.
Sotto il profilo della monetizzazione del rischio, dunque, i derivati, contrariamente a gioco e scommessa, "producono" veri e propri prezzi di mercato relativamente ai rischi oggetto di negoziazione: il rischio non è un semplice parametro esterno per l'attribuzione di una posta in palio arbitrariamente eo irrazionalmente pattuita fra le parti, bensì il frutto di una ponderata e razionale contrattazione di mercato, giacché chi si assume il rischio ha interesse alla sua massima "valorizzazione" per innalzare il c.d. "premio", mentre la controparte ha interesse esattamente contrario. Accogliendosi l'impostazione ora illustrata, alla luce della presunta diversità strutturale delle due fattispecie, monetizzazione mercantile del rischio nei derivati contro monetizzazione non mercantile del rischio in gioco e scommessa, l'art. 1933 c.c. risulterebbe inapplicabile ex ante risultante altresì superflua l'immunità dall'eccezione di gioco prevista dall'art. 23. 5 co., t.u.f.


2.2 Negoziazione e titolarità del rischio: elementi scindibili?

La distinzione tra gioco e scommessa, da un lato, e derivati, dall'altro lato, è evidente allorquando il derivato stesso è stipulato dal titolare del rischio sottostante, c.d. derivato di copertura in quanto, riprendendo le fila di quanto esposto sopra: a) non rappresentando un mero parametro esterno per l'attribuzione di una posta concordata in modo arbitrario inter partes, in qualsivoglia contratto derivato, il rischio può definirsi come "prezzato" in quanto frutto di una fisiologica contrattazione fra parti contro-interessate; b) il rischio, sempre nel caso del c.d. derivato di copertura, non è artificialmente creato come nel caso, all'opposto, del gioco e della scommessa, ma preesiste nella sfera giuridica del contraente che ambisce alla protezione, della quale si serve al preciso fine della sua traslazione a titolo oneroso. Semplificando quanto illustrato, quel che connatura gioco e scommessa è una creazione artificiosa del rischio, mentre nel caso del c.d. derivato di copertura il rischio non è creato ad hoc, ma preesiste ex ante nella sfera giuridica di uno dei contraenti.
Di artificiale creazione del rischio, come in tema di gioco e scommessa, può invece parlarsi con riferimento ai cc.dd. derivati speculativi, ove un contraente ottiene dall'altro la "protezione" rispetto a un rischio che di fatto non ha: se Tizio non è titolare di titoli Telecom, Tizio non può certamente definirsi esposto al rischio di perdita del valore del titolo Telecom, ma se Tizio, ciò nonostante, compra un'opzione put su un certo numero di titoli Telecom, egli, di fatto, "finge" di avere un rischio che, preme sottolineare, non ha. Il rischio emerge in tutta la sua natura artificiosa dal momento che esso non verrebbe ad esistere, e le parti non verrebbero ad essere esposte ad esso, se non venisse ex ante stipulato il contratto4.
Permane tuttavia quella peculiare e nevralgica differenza fra la monetizzazione non mercantile del rischio che è propria del gioco e scommessa e monetizzazione mercantile che, viceversa, è propria dei derivati cc.dd. speculativi, differenza che priverebbe, a prima vista, di valenza la fin qui evidenziata identità fra le due fattispecie che si stanno analizzando (rectius: gioco e scommessa e derivato c.d. speculativo). Si noti infatti che, laddove l'opzione put su azioni Telecom sia comprata da chi non possiede azioni Telecom e non avrebbe, dunque, necessità di alcuna copertura, il rischio del deprezzamento del titolo Telecom non assurge a mero parametro esterno per la determinazione del vincitore di una posta in palio arbitrariamente determinata, ma è de facto il frutto di una precisa valutazione di mercato.
La possibilità, eventuale, che il rischio possa essere oggetto di un derivato a prescindere dalla sua titolarità è una circostanza che ineluttabilmente si riflette sulla formazione del prezzo della protezione: se la protezione stessa è richiesta solamente dai titolari del rischio, la "domanda" del bene "protezione" presenterà dei confini ben delimitati; nel caso, invece, della protezione richiesta da chi non è titolare del rischio, quella domanda di "protezione" sarà così ampia da non poter essere circoscritta entro alcun confine. Se la domanda di derivati può essere scissa, come si sta ipotizzando, dal bisogno di protezione, chiunque può chiedere "protezione" e per giunta in modo illimitato, svilendosi così la c.d. "legge della domanda e dell'offerta" che conduce alla formazione di prezzi "razionali" di equilibrio, ovvero una garanzia di tendenziale efficiente allocazione delle risorse. Trasponendo quanto ora esposto in un esempio pratico, in ambito assicurativo, due sono le situazioni che vengono a profilarsi: a) se la domanda di protezione è legata al bisogno effettivo, la domanda di "assicurazione" di una res non potrà che essere limitata alla quantità data di res esposte al rischio (es. furto, incendio, smarrimento, perimento, ecc.); il prezzo di una simile assicurazione viene ad esprimere l'equilibrio di mercato fra il valore del sacrificio economico che i proprietari di quella res ritengono conveniente sopportare per elevare le proprie condizioni patrimoniali, portarle cioè ad un livello superiore. Il prezzo di equilibrio acconsente a che quel rischio dato venga allocato in capo al soggetto in grado di sostenerlo con minori costi, con beneficio dell'intera collettività realizzandosi, dunque, l'equazione sopra richiamata "migliore allocazione del rischio" = "più efficiente allocazione delle risorse". Altrettanto non potrà dirsi nell'ipotesi in cui la protezione risulti sganciata dal bisogno effettivo, perché in tal caso la domanda di assicurazione di quel bene potrà essere presentata da chiunque, proprietario e non di quella res, in modo illimitato ed in base a mutevoli umori speculativi. In codesto scenario caotico, il prezzo di equilibrio non può che risultare distorto in quanto diretta conseguenza di una domanda artificialmente gonfiata per via del precitato accesso sul mercato di un numero indefinito, potenzialmente illimitato, di utenti: i titolari effettivi del rischio, cioè i proprietari della res assicurata, si troverebbero a dover rinunciare ad un'assicurazione che avrebbero stipulato in presenza di una domanda "normale", ma che a causa della domanda artificialmente gonfiata, è divenuta talmente onerosa da non rispecchiare più quell'equazione "migliore allocazione del rischio" = "più efficiente allocazione delle risorse".
Quanto ora detto, con i debiti accorgimenti, vale anche per quella particolare attività lato sensu assicurativa che le banche possono prestare a fronte del rischio di insolvenza mediante la prestazione di garanzie (fideiussioni)5. La "vendita di protezione", cioè la prestazione di garanzia fideiussoria, è soggetta ad un regime lato sensu vincolistico, come nel caso dei servizi di copertura da un rischio. La prestazione di garanzie, la cui offerta nei confronti del pubblico è riservata ex lege alle banche, costituisce un impiego, ma le banche non possono procedere ad impieghi se non nei limii precisi di un rapporto istituito ex lege fra patrimonio netto e impieghi. Può sostenersi che i ratios patrimoniali imposti imperativamente alle banche costituiscono mutatis mutandis l'equivalente del principio delle riserve tecniche imposto alle assicurazioni: in ambo le fattispecie, l'ordinamento si sincera che l'offerta di protezione avvenga razionalmente e secondo confacenti paradigmi di mercato e non, dunque, irrazionalmente e "sotto costo".
Icto oculi, l'offerta di protezione da rischi proveniente da assicurazioni e banche è soggetto a regole imperative funzionali ad assicurare la razionalità dei prezzi offerti, al contrario, l'offerta di protezione da rischi connessa all'offerta di derivati ne risulta svincolata, sotto un duplice profilo: A) l'offerta di derivati non è riservata a banche e assicurazioni, essendo estesa anche a qualsivoglia impresa di investimento; B) mancano ad oggi, con riferimento al business consistente nell'offerta dei derivati, norme prudenziali che, in analogia al principio di riserve tecniche imposto alle assicurazioni o con il principio di adeguatezza patrimoniale imposto alle banche, assicurano la razionalità mercantile dell'offerta di protezione mediante derivati.
Tirando le somme, per facta concludendi:
a) Neanche i derivati cd. speculativi possono essere equiparati a gioco e scommessa: in questi ultimi, il rischio è solo il parametro esterno per la determinazione del vincitore di una posta che strutturalmente non è correlata al rischio stesso, non potendosi dunque parlare di pricing del rischio. Nel derivato, speculativo e non, il rischio è frutto di una negoziazione diretta a produrre un prezzo.
b) Ammettendosi la negoziabilità apparentemente mercantile di un certo rischio da parte di chi non ne è titolare, necessariamente si ammette altresì la presenza di un mercato apparente giacché legato ad: b1) una domanda di protezione che essendo dettata da umori speculativi, e non da un bisogno effettivo, è potenzialmente illimitata; b2) ad un'offerta lasciata alla mercé di umori speculativi.
Alla luce delle considerazioni spese sin qui, è lecito asserire che l'equiparazione fra derivati e gioco e scommessa è errata sia per i derivati c.d. di copertura sia per i derivati c.d. speculativi. Con riferimento a quest'ultima categoria di derivati, si è sopra visto come gli stessi creino prezzi strutturalmente distorti, in quanto espressione di una certamente non efficiente allocazione delle risorse, fautori di una allocazione irrazionale e distruttiva delle risorse medesime.
Conformemente a quanto sinora illustrato, deve ritenersi che la norma che dispone l'immunità dall'eccezione di gioco per i derivati (art. 23, 5 co., t.u.f.) sia effettivamente meramente dichiarativa, se non superflua, e non invece dotata di autonoma forza precettiva6. La circostanza che la precitata norma affermi che i derivati non siano soggetti all'eccezione di gioco non può valere ad esentare l'interprete dal verificare se, taluni di questi derivati siano o meno, in base ai principi generali dell'ordinamento, validi in quanto sorretti da causa meritevole di tutela; se l'esito di tale verifica, come avviene per i derivati speculativi, conduce alla non meritevolezza di tutela di tali contratti, allora non potrà considerarsi la generica esenzione dall'eccezione di gioco come una generale sanzione di validità, sempre e comunque, di tutti i derivati, ivi inclusi quelli speculativi.
Quest'ultimi, dunque non sono pertanto riconducibili a gioco e scommessa in quanto sono da considerare, ad avviso di chi scrive, come contratti del tutto privi di causa e inevitabilmente nulli.


3. Le interpretazioni dottrinali

In dottrina si registrano quattro diversi orientamenti, circostanza che vincola l'interprete a muoversi in un quadro estremamente contrastato.
Per alcuni Autori7, i derivati puramente speculativi sarebbero de facto equiparabili a delle scommesse. La finalità speculativa, anziché essere ricondotta nell'area dei motivi del negozio, inciderebbe sul piano della funzione economico-sociale e, dunque, sulla causa. Laddove i suddetti derivati fossero stipulati al di fuori di una effettiva preesistenza del rischio in capo ai contraenti, si assisterebbe ad una "artificiale creazione del rischio" che giustificherebbe la perfetta equiparazione fra il derivato c.d. speculativo e la scommessa, discendendone la inesigibilità della protezione giuridica.
Per altri Autori, i derivati puramente speculativi sarebbero equiparabili alle scommesse, ma "eccezionalmente" sottratti alla disciplina dell'eccezione di gioco grazie alla speciale disposizione di legge e nei limiti stessi della disposizione di legge medesima. Sotto il vigore dell'art. 23, commi 1 e 4, l. sim. N. 1/1991, in accoglimento a tale impostazione, si sarebbe dovuto disapplicare l'eccezione di gioco e scommessa per i derivati trattati su mercati regolamentati a seguito di autorizzazione Consob, mantenendo altresì l'inesigibilità della protezione giuridica per i derivati speculativi trattati fuori borsa8. Sotto, invece, il vigore del nuovo art. 23 t.u.f., l'accoglimento della tesi ora esposta, condurrebbe alla disapplicazione dell'eccezione di gioco ai soli casi dei derivati "stipulati nell'ambito di servizi o attività di investimento"9.
Altra dottrina sostiene che i derivati puramente speculativi sarebbero null'altro che scommesse, "né più serie, né più razionali, né meno razionali", di ogni altra scommessa, ma essi sarebbero comunque sempre meritevoli di tutela giuridica, "non soltanto perché utili alla liquidità dei mercati, bensì per la ragione più profonda che oggi i contratti che rispondono a modelli anglosassoni non passano la dogana se meritevoli, ma sono meritevoli … in linea di principio, perché una dogana non c'è". È stato sostenuto, in aggiunta, che "in linea di principio la riconducibilità all'elenco (art. 1 t.u.f.) comporterebbe la non contrarietà all'ordine pubblico, qui da intendersi innanzitutto come integrità dei mercati finanziari, ma pure come stabilità dei sistemi economici globalizzati"10.
Secondo, infine, un quarto ed ultimo orientamento, i derivati puramente speculativi sarebbero sempre validi e muniti di causa in quanto riconducibili al genus di contratti commutativi pienamente leciti11, e non al genus gioco e scommessa. La "causa dell'accordo realizzato mediante la stipula di un derivato consisterebbe nel fatto stesso dello scambio dei reciproci impegni, nella reciproca disponibilità all'assunzione di una quota dell'altrui rischio, indipendentemente da ogni sterile indagine circa la reale sussistenza del medesimo". La tesi dello "scambio in sé" è sostenuta nel quadro di una rivalutazione, come causa perfettamente lecita, della c.d. causa speculativa: "la causa speculativa, siccome contrapposta a quella ludica, può e deve essere riconosciuta come tale rivolgendosi comunque al mondo del commercio, divenendo essa stessa atto di commercio e con ciò prescindendo circa l'intimo e ulteriore fine che la animi. Essa è, in definitiva, immanente alla stessa realtà economica, in quanto tale, realtà a cui i contraenti sono comunque soggetti in via generale, ancorché possano non esserlo, immediatamente e concretamente, nel momento specifico della singola stipulazione"12. Si segnala, in tema di rivalutazione della "speculazione" come anima del commercio, una vetusta dottrina degli anni '30 del secolo scorso che affermava:" Nel gioco di mera sorte, nel gioco d'azzardo è preponderante l'elemento dell'alea, del rischio, della cieca sorte. La speculazione di borsa, invece, pur nella incertezza degli eventi, opera rispetto a questi prevedendone e calcolandone dal più al meno le vicende. Non si ha per chi guardi all'elemento intenzionale l'intento riprovevole, caratteristica del gioco proibito, di far dipendere da una mera sorte e da un'attività improduttiva il guadagno o la perdita. Nel gioco, infatti, inteso nel senso di cui all'art. 1802 c.c. (codice 1865), la sorte equivale a caso fortuito, cioè evento indipendente da leggi di causalità, perché detta causa è ignota all'uomo, che non sa arrivarvi con i metodi del raziocinio e della logica comune"13.


4. Gli indirizzi giurisprudenziali

Una prima presa di posizione della giurisprudenza sui derivati speculativi è testimoniata da due sentenze milanesi, rispettivamente del 24 novembre 1993 e del 26 maggio 1994, afferenti, la prima, a domestic swap e, la seconda, a interest rate swap. Le precitate sentenze, giova precisare, sono state emesse sotto il vigore della ormai abrogata legge sim, ai sensi della quale si stabiliva l'inapplicabilità dell'eccezione di gioco ai "contratti uniformi a termine su strumenti finanziari collegati a valori mobiliari quotati nei mercati regolamentati, tassi di interesse e valute, ivi compresi quelli aventi ad oggetto indici su tali valori mobiliari, tassi di intesse e valute" che fossero negoziati "nell'ambito di borse valori" sulla base di apposita autorizzazione dell'Autorità di vigilanza. La giurisprudenza richiamata in epigrafe, sul presupposto di una equiparazione a gioco e scommessa, nega l'azionabilità delle pretese contrattuali: "il contatto in esame non corrisponde obiettivamente ed in concreto ad una causa che giustifichi la piena tutela delle ragioni di credito, dovendosi piuttosto qualificare come ipotesi di "scommessa" non azionabile ex art. 1933 c.c. Invero le parti si sono assoggettate all'alea delle variazioni del tasso degli interessi non per la necessità di coprire effettivi rischi di impresa, ma solo per collegare l'attribuzione di un vantaggio patrimoniale (lucro) alla sorte (all'alea del corso degli interessi). È appena il caso di sottolineare, poi, come la conclusione non contrasti con l'orientamento dottrinale favorevole a riconoscere piena tutela al contratto di swap, considerato che il giudizio espresso in questa sede non esclude la configurabilità di contratti di swap che… assolvano una funzione di sicurezza e garanzia economica, perché collegati con effettivi rapporti obbligatori sottostanti.".
Il Trib. di Milano, 11 maggio 1995 apre una breccia nel precitato orientamento giurisprudenziale, argomentando che l'immunità dei derivati dall'eccezione di gioco muoverebbe dall'implicito riconoscimento di una "causa" meritevole di tutela: la piena tutela dei derivati avrebbe dovuto ritenersi riferibile non solo ai contratti negoziali su borse valori a seguito di autorizzazione della Autorità di Vigilanza, ma anche indiscriminatamente a beneficio di qualsivoglia contratto derivato anche trattato fuori borsa. A questo nuovo orientamento, sposato già da Cons. Stato, 10 maggio 1994, n. 525, si adegua anche il Trib. Milano, 20 febbraio 1997, il quale precisò "l'intento di speculazione appartiene alla sfera interna dei motivi che nulla hanno a che vedere con la causa del negozio in senso tecnico-giuridico.".
Di segno nettamente contrario alle pronunce soprarichiamate, sono le decisioni arbitrali di Coll. Arb. 20 marzo 1996 e del Coll. Arb. 19 luglio 1997. Secondo la prima, "l'applicabilità dell'eccezione di gioco e scommessa trova dei limiti non tanto nella misura più o meno accentuata della aleatorietà, quanto piuttosto nella complessa funzione causale realizzata dal contratto. Tale funzione, nel caso del contratto di swap, è diretta realizzare una finalità ritenuta meritevole di tutela da parte dell'ordinamento giuridico …. L'eccezione di gioco o scommessa non è quindi invocabile per qui contratti che, come lo swap, utilizzano l'alea per perseguire e realizzare funzioni ed esigenze economiche complesse ed articolate (quale la neutralizzazione del rischio valutario e finanziario), ma sicuramente meritevoli di tutela.".
Più netta la seconda delle due pronunce arbitrali citate: "tra contratti derivati e i contratti di gioco e scommessa esiste una differenza incolmabile: è ben diverso lo scopo di chi intende migliorare i risultati di operazioni sostanzialmente di scambio e concorrere alla formazione di nuova ricchezza per equilibrare differenze da chi si affida alla mera alea per lucrare speculativamente e cioè rimettendosi alla mera sorte, partecipando a giochi di azzardo di scommesse.".
Un ritorno all'orientamento assunto dalla giurisprudenza milanese si ha con la pronuncia del Trib. di Torino, 10 aprile 1998: " non avrebbe senso che, debitamente disciplinata l'attività delle società di intermediazione mobiliare, questa medesima attività avente ad oggetto tipologie negoziali riconosciute dal legislatore come perfettamente legittime, possa rimanere vulnerata da chi, eccependo quanto previsto dall'art. 1933 c.c., voglia "scaricare" ogni rischio, connesso all'attività dei mercati mobiliari, sulla controparte negoziale che pretenda l'esecuzione di quanto direttamente deriva dall'esecuzione del contratto.".
Stessa argomentazione è condivisa da App. Milano, 26 gennaio 1999: "l'eccezione di gioco trova applicazione solo quando il contratto soddisfa esclusivamente l'interesse a conseguire un guadagno per mero effetto di un'attività di tipo ludico o puramente aleatoria: qualora invece il contratto realizzi anche interessi ritenuti dall'ordinamento meritevoli di tutela, i diritti di credito che ne derivano possono essere fatti valere in giudizio … Può quindi ritenersi che il contratto a termine su valute, concluso da un soggetto abilitato all'esercizio dell'attività bancaria e di intermediazione mobiliare, rientra nell'ambito dell'attività tutelata dall'ordinamento e vale ad escluderla da quel giudizio di scarsa meritevolezza che è sotteso alla disciplina riservata al gioco e scommessa".
Intervengono, poi, il Trib. Torino, 27 gennaio 2000 e Trib. Milano, 3 aprile 2004. Secondo, rispettivamente, la prima pronuncia: "il contratto di domestic currency swap … quand'anche stipulato a scopo meramente speculativo non può essere ritenuto nullo per mancanza di causa, in quanto è aleatorio per volontà delle parti", mentre in base alla seconda sentenza: "non possono essere ritenuti contratti improntati a finalità meramente speculative e non possono comunque essere sottoposti alla previsione di cui all'art. 1933 c.c. i contratti di swap conclusi tra un intermediario finanziario abilitato (nella specie una banca) e una società di capitali, particolarmente esposta nei confronti del sistema creditizio, operante sui mercati internazionali e dunque sensibile sia alle possibili variazioni dei tassi di interesse, sia alle fluttuazioni dei cambi delle valute".
La giurisprudenza muta nuovamente orientamento con le sentenze Trib. Lanciano 2005 e Trib. Bergamo, 4 maggio 2006. Entrambe le decisioni negano protezione giuridica a derivati "se stipulati con fini puramente speculativi, al di fuori di detta funzione legata all'attività imprenditoriale" sul presupposto della loro "assimilabilità alla scommessa".
Di segno diametralmente opposto, il Trib. Milano 9 febbraio 2012 che ha espresso l'avviso della liceità della causa dei derivati anche meramente speculativi ("la funzione di copertura perseguita dalla parte della conclusione del contratto rappresenta … una importante chiave di lettura dello strumento derivato, al fine di valutare la coerenza del derivato con la situazione di rischio sottostante, ma essa non incide sulla causa giuridica, che è lecita anche per i derivati speculativi"), e il Trib. Monza, 14 giugno 2012 che ha negato la tutela ad un derivato speculativo in virtù della non ricorrenza di una causa lecita: "la non rispondenza delle condizioni economiche contrattuali alla funzione di copertura del rischio negli stessi enunciata ne comporta la nullità per difetto di causa (art. 1418, 2 co. c.c.), da intendersi quale sintesi degli interessi concretamente perseguiti dalla negoziazione". Del medesimo avviso è il Trib. Lucera, 26 aprile 2012: "i contratti derivati, stante il loro carattere di atipicità, possono essere accettati dall'ordinamento solo se sono meritevoli di tutela e… solo il fatto che essi perseguano un obiettivo di riduzione dei rischi fa affermare la loro meritevolezza di tutela ed impedisce di ritenerli privi di causa".
Meritevole di attenzione è, inoltre, la sentenza di App. Milano, 18 settembre 2013 che, per un verso, propende per la qualificazione dei derivati come "scommesse", ma, per altro verso, afferma l'inapplicabilità dell'eccezione di gioco, sul presupposto che i derivati costituirebbero scommessa legalmente autorizzata, orientamento al quale si adegua il Trib. Torino, 17 gennaio 2014, nella pronuncia in rassegna, fornisce la sua definizione del derivato swap (il contratto derivato, nella fattispecie, era stato negoziato da una semplice persona fisica in connessione ad un mutuo stipulato per l'acquisto della prima casa), descrivendolo come "un contratto nominato ma atipico in quanto privo di disciplina legislativa (ovvero solo socialmente tipico), a termine, consensuale, oneroso e aleatorio" la cui funzione economica consiste "nella copertura di un rischio mediante un contratto aleatorio con la finalità di depotenziare le incertezze connesse ai costi dei finanziamenti oppure, in assenza di un rischio da cui cautelarsi, in una sorta di scommessa che due operatori contraggono in ordine all'andamento futuro dei tassi d'interesse". Una chiosa è, però, d'obbligo: per i giudici milanesi, la mancanza nel derivato swap del requisito della consapevolezza sull'alea assunta produce una nullità del negozio per carenza genetica di "causa", a prescindere dal fatto che si tratti di un derivato speculativo o di copertura, per il Tribunale di Torino è invece decisivo compiere un'accurata indagine volta ad individuare la "causa concreta" ossia il risultato economico voluto dalle parti14.
Per il consesso torinese, "la causa quale elemento essenziale del contratto non deve essere intesa come mera ed astratta funzione economico sociale del negozio bensì come sintesi degli interessi reali che il contratto è diretto a realizzare e cioè come funzione individuale del singolo, specifico contratto, a prescindere dal singolo stereotipo contrattuale astratto".
Seguendo tale filone di ragionamento, il Tribunale di Torino, con la pronuncia in esame, è pervenuto a dichiarare nullo lo swap per carenza di una "causa concreta" nel contratto, motivando sul fatto che la presunta funzione di copertura del prodotto, alla luce delle possibili previsioni sull'andamento dei tassi, era stata congegnata dalla banca sulla base di uno scenario (quello del possibile rialzo dei tassi) "non concretamente realizzabile".
Coeva alla pronuncia testé citata è la più risalente giurisprudenza milanese, così Tribunale di Milano, 23.6.2014, n. 8332: "è sufficiente ricordare come una eventuale finalità speculativa non privi in alcun modo il contratto in derivati di una causa lecita.  Con tali contratti, infatti, il cliente e la banca si impegnano ciascuno a pagare all'altro, a scadenze periodiche definite, un importo calcolato applicando dati parametri (diversamente prestabiliti per ciascun contraente) a un medesimo valore di base (c.d. nozionale); a ciascuna scadenza i due importi si compensano e ne deriverà un differenziale a carico dell'uno, e correlativamente a favore dell'altro, o viceversa. Nei contratti in derivati la causa deve quindi individuarsi nell'alea accettata dalle parti in relazione allo scambio di due rischi connessi, che, assunti dai due contraenti, derivano dalla vicendevole entità degli importi che matureranno a carico di ciascuno, e quindi dei differenziali che potranno risultare a carico o a favore di ciascuno (ciascuno assume il rischio che il proprio parametro vari in termini a sé sfavorevoli, e favorevoli alla controparte, e che quindi risulti a suo carico il differenziale, e non già a suo favore).  La componente aleatoria è quindi intrinseca alla natura del derivato, che può ritenersi una "scommessa" legalmente autorizzata a fronte di un interesse meritevole di disciplina, tanto che all'art. 23 TUF si dice (al comma 5) che "agli strumenti finanziari derivati… non si applica l'art. 1933 del codice civile" (norma secondo cui "non compete azione per pagamento di giuoco o scommessa, anche se …non proibiti"); il richiamo all'art.1933 c.c., sia pure al fine della sua non operatività, conforta circa la natura aleatoria (in termini di scommessa) ascrivibile a tali contratti, dovendosi ulteriormente precisare come tale componente aleatoria debba ritenersi caratterizzare parimenti sia il derivato di copertura, sia il derivato speculativo, tipologie entrambe contemplate nell'ordinamento finanziario: all'art. 28 n. 3 Delib. Consob 11522/98, infatti, si parla di "operazioni in strumenti derivati …disposte per finalità diverse da quelle di copertura" (per le operazioni speculative è previsto l'obbligo dell'intermediario di informare l'investitore se la perdita superi una data soglia)". Di seguito, pur con specifico riferimento all'aspetto aleatorio, il Tribunale di Milano, 22.12.2014, n. 15269: "… In proposito si osserva innanzitutto che tutti gli strumenti finanziari derivati sono contratti intrinsecamente aleatori, tanto che il legislatore si è preoccupato di escludere l'applicabilità in tali ipotesi della disciplina del gioco e della scommessa (v. art. 23, comma 5, TUF). Ne consegue che la presenza dell'alea è non solo necessaria, ma anche intrinseca, di modo che solo ove essa sia del tutto esclusa in via oggettiva, ovvero sussista solo in caso di scenari economici assolutamente inverosimili, è possibile pronunciare la nullità del contratto per carenza di tale elemento essenziale". .
Conforme a tale orientamento, la risalente pronuncia del Trib. Milano, 16 giugno 2015: "La componente aleatoria è intrinseca alla natura del derivato, il quale può definirsi una "scommessa" legalmente autorizzata a fronte di un interesse meritevole di tutela, la quale caratterizza sia il derivato con finalità di copertura sia quello con finalità speculative."


5. Conclusioni

Tirando le fila, le tesi prospettate tanto in dottrina quanto in giurisprudenza sembrano concentrarsi talora sull'oggetto del contratto, talaltra sulla sua causa.
Un primo filone interpretativo invita a concentrare l'attenzione sull'oggetto del contratto15 e, in particolare, sulla rispondenza di quest'ultimo ai requisiti di cui all'art. 1346 c.c. Non essendo possibile affermare che il derivato ha oggetto determinato, la questione si riduce a valutare se l'oggetto medesimo possa essere definito determinabile, il che parrebbe da escludere. In particolare, se il contratto non contiene l'indicazione del metodo probabilistico utilizzato per la determinazione del mark to market, il contratto è nullo per indeterminabilità dell'oggetto. Come si può, infatti, affermare che l'oggetto è determinabile, se al momento della stipulazione non si conoscono i parametri in base ai quali la stima verrà effettuata in futuro?
Un secondo orientamento focalizza l'attenzione sulla causa del contratto, intesa o come causa concreta16, o come causa tipica17, che taluno ritiene di dover sottoporre ad un giudizio di meritevolezza a norma dell'art. 1321 c.c.18.
Sembra possibile concordare con chi ritiene che, dal punto di vista della qualificazione, se anche al contratto di swap non si applica l'art. 1933 c.c., esso è senz'altro una scommessa, cioè un contratto mediante il quale le parti creano due alee reciproche, scommettendo l'uno contro l'altro19. Conseguentemente, la causa tipica dei contratti in esame sembra identificabile in quella che i romani chiamavano causa ioci e che, oggi, si trova citata come causa speculativa.
Taluno ritiene che un contratto così ricostruito non sia degno di tutela da parte dell'ordinamento giuridico, perché privo di utilità sociale20.La critica non pare condivisibile. Il fatto che l'art. 23 TUF escluda l'applicabilità dell'art. 1933 c.c. "agli strumenti finanziari derivati nonché a quelli analoghi" significa che a tali contratti non si applica la regola della inesigibilità dell'adempimento dell'obbligazione, ma ciò non esclude che il contratto sia una scommessa, caratterizzata dalla creazione bilaterale di alee reciproche. Anzi, la norma sembra suggerire una siffatta qualificazione del negozio, perché, altrimenti, non ci sarebbe stato motivo di escludere l'applicazione dell'art. 1933. Ancora, il fatto che il legislatore riconosca e disciplini i derivati finanziari sembra suggerire che non si tratti di scommesse meramente tollerate, bensì vere e proprie scommesse autorizzate, riconducibili alla definizione contenuta nell'art. 1935 c.c.21.
Quanto alla distinzione tra causa di copertura e causa speculativa, richiamata da svariate norme di legge nonché da dottrina e giurisprudenza, si nutre qualche perplessità circa la reale configurabilità del c.d. derivato di copertura, quantomeno con riferimento agli strumenti OTC. Ammettiamo che, in taluni casi, l'investitore stipuli mosso da finalità di copertura, convinto di acquistare uno strumento atto a proteggerlo da un rischio esistente. La questione è se il derivato sia effettivamente idoneo a realizzare la finalità economica per il conseguimento della quale è stato stipulato. Se il derivato non è idoneo, e la copertura è qualificabile come causa e non come mero motivo, il contratto è nullo per difetto di causa. Quand'anche, poi, si relegasse lo scopo di copertura e mero motivo, anche a voler tacere dell'ulteriore problema connesso a tale ultima interpretazione, e cioè quale sia, allora, la causa del derivato, il contratto sarebbe senz'altro annullabile per vizio della volontà.
Ora, se ogni contratto di swap è speculativo, realizza un operazione economica assimilabile alla scommessa legalizzata, a norma dell'art. 1935 c.c., posto che il legislatore europeo e quello nazionale, disciplinando l'attività e non il contratto, implicitamente sembrano dare per scontata la negoziabilità del prodotto, ed è dotato di causa tipica identificabile nella causa ioci, non resta che domandarsi se l'operazione economica posta in essere dagli stipulanti possa ritenersi meritevole di tutela da parte dell'ordinamento giuridico. E' stato teorizzato che lo swap sia lecito solo fintanto che costituisca scommessa razionale, in cui, cioè, i contraenti, al momento della stipulazione, abbiano raggiunto un accordo sulla misura dell'alea contrattuale, calcolata secondo criteri scientificamente riconosciuti e oggettivamente condivisi22. L'accordo deve riguardare tanto la quantità delle alee, cioè il mark to market, quanto, soprattutto, la qualità delle stesse e, quindi, gli scenari probabilistici, perché è attraverso questi ultimi che si determina l'alea. Così, in primo luogo, l'investitore ha chiaro il valore del contratto al momento della sua sottoscrizione e, in secondo luogo, grazie all'indicazione dello scenario probabilistico espresso in termini percentuali, egli può comprendere il grado di incertezza dei guadagni e delle perdite che potranno conseguirgli dalla conclusione del contratto. Per la stessa ragione si afferma che debbano essere indicati nel contratto i costi impliciti, cioè la remunerazione spettante all'intermediario. Infatti, ciò consente di determinare con maggiore chiarezza l'alea contrattuale, eliminando l'incertezza circa le spese determinabili ex ante. Inoltre, l'obbligatorietà dell'indicazione dei costi impliciti avrebbe l'effetto di orientare la condotta dell'intermediario nel momento in cui consiglia l'investitore. In particolare, se la remunerazione dell'intermediario dovesse essere esplicitata nei prodotti OTC così come avviene per gli strumenti finanziari ordinari, questi perderebbe parte del profitto economico che lo incentiva a raccomandare i primi rispetto ai secondi23.
In conclusione, non si vede perché due soggetti, entrambi debitamente informati e razionali, non possano scommettere su rischi già esistenti ma che non corrono personalmente e financo creare rischi nuovi al solo scopo di speculare su di essi, guadagnando dall'avveramento di un rischio che non li riguarda o rovinandosi per il mancato avveramento dello stesso. In altre parole, dal punto di vista strettamente civilistico, di esame astratto di un contratto atipico, non sembra possibile negare la validità del derivato finanziario fintanto che sia garantita la consapevolezza, da parte dell'investitore, di partecipare ad una scommessa e non ad una operazione di copertura o di ristrutturazione dei debiti d'impresa sicura e garantita.
A parere di chi scrive, alla luce di quanto esposto, risulta evidente come l'assenza di una disciplina certa sembra non giovare a nessuno: non agli intermediari finanziari, esposti ad azioni giudiziali sempre più frequenti e dagli esiti incerti; non agli investitori, che devono necessariamente affidarsi a - e fidarsi di - consulenti che sono anche controparti contrattuali dello stesso investitore che informano e consigliano e non ricevono tutela né al momento della stipulazione né, ex post, sotto il profilo rimediale; non, infine, al mercato ed alla società nel suo complesso, non essendo garantita la certezza nella circolazione dei prodotti finanziari e, per altro verso, essendo questi ultimi potenziale fonte di un contenzioso diffuso non auspicabile, alla luce della situazione già non felice in cui versa il sistema giudiziario italiano. Prevale l'esigenza di sollecitare l'attenzione del legislatore e del regolatore sulla natura di questi contratti, più che sulle sole regole di condotta, al fine di disciplinare a priori i criteri di validità degli stessi e garantire, così, certezza nella circolazione dei prodotti finanziari de qua. Infatti, se l'animo sensibile sente l'esigenza di tutelare l'investitore sprovveduto, o quello che ha mal riposto la propria fiducia nel consulente avventato, d'altro canto è innegabile che la certezza nella prassi economica e giuridica sia fondamentale.
L'interrogativo che sorge spontaneo, non tanto sul piano dell'analisi di diritto privato quanto in un'ottica di politica economica, è se sia opportuno che questi strumenti, che di fatto incorporano una scommessa né più e né meno di una puntata ai cavalli o di una giocata alla slot machine, possano circolare, per quanto out of market, al pari di qualunque altro strumento finanziario. La domanda, in altre parole, è se, visto l'impatto, oggi innegabile, che i derivati hanno sul mercato, non sia opportuno regolamentarne l'utilizzo al pari di quanto - maldestramente, bisogna ammetterlo - avviene nel campo del gioco d'azzardo.
Forse, più che tentare di proteggere lo scommettitore da se stesso (il che è impossibile, oltre che non necessario alla luce del principio di autonomia negoziale), non sarebbe il caso di difendere l'economia reale dallo scommettitore?



Riferimenti Bibliografici

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8) Ex multis, Corte d'Appello di Trento, sentenza n. 141/2013; Tribunale di Bari, ordinanza del 15.7.2010.
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7) contra Di Raimo, 2014, 61
8) Maffeis, 2014, 21.
9) App. Milano, sent. 18 settembre 2013 e Trib. Torino, sent. 17 gennaio 2014, Trib. Milano, 13 febbraio 2014.


















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