Ci si è sempre interrogati circa la natura delle società a partecipazione pubblica, l’utilità di procedere con una classificazione finalizzata a valutare il loro inserimento in sfere esclusivamente privatistiche o pubblicistiche (o addirittura miste) nonché sull’interesse da esse perseguito.
La risposta a tali quesiti richiede consapevolezza della complessità dell’incarico, dovendo di volta in volta verificare la sottoposizione a regole, procedimenti, controlli e sanzioni tipiche delle persone giuridiche private o degli enti pubblici, senza rinunciare preventivamente alla possibile sovrapposizione di interessi pubblici e privati; detta sovrapposizione ha determinato la difficoltà di ottenere soluzioni ampiamente condivise dovute alle peculiarità del diritto disciplinante i rapporti privatistici e del diritto disciplinante i rapporti tra privati e amministrazioni pubbliche[1].
In particolare, occorre tenere a mente che pubblico e privato costituiscono termini di riferimento convenzionale di corpi normativi originariamente concepiti per disciplinare, rispettivamente, la sfera pubblica e l’autonomia dei privati; di conseguenza il loro isolamento può avvenire unicamente ove si intenda avviare uno studio compartimentale e parcellizzato dell’ordinamento (rappresentando finalità e ambito di applicazione delle singole disposizioni esaminate). Laddove però si intenda valutare detti corpi normativi in una visione dinamica e sistemica, tale compito non appare del tutto semplice considerato che il fenomeno amministrativo è ormai retto da combinazioni variamente articolate di norme pubbliche e civilistiche. Spetterebbe dunque alla giurisprudenza – con l’ausilio del D. Lgs. n. 175/2016 (“TUSP”) – tracciare il confine delle discipline pubblicistiche specificando le definizioni ellittiche, le enumerazioni esemplificatrici e le mere presupposizioni del legislatore, con il risultato ultimo che le sovrapposizioni, gli intrecci e gli innesti delle discipline in esame condurrebbero alla continua ricostruzione di istituti a geometria variabile[2].
Tuttavia, nonostante la dommatica sia ancora incline a delimitare i confini delle discipline in esame, la prassi e le esigenze organizzative dell’impresa hanno favorito la tendenza all’utilizzo di schemi privatistici da parte della Pubblica Amministrazione, essendo le figure organizzative di diritto comune ampiamente presenti nell’organizzazione pubblica[3]. Invero, proprio il ricorso al modello organizzativo della società a partecipazione pubblica ha evidenziato la vulnerabilità della storica dicotomia tra statuale e commerciale, da un lato, nonché tra finalità pubbliche e finalità lucrative, da altro lato[4].
Ancor prima della nascita del Codice Civile era nutrito il dibattito sul regime giuridico delle società a partecipazione pubblica. Mentre da un lato già si affermava che detta tipologia di società disvelasse un travestimento in forma privata di un’impresa sostanzialmente pubblica[5], è poi maturata l’idea di una “società di capitali-ente pubblico” vocata al diretto perseguimento di interessi statuali e dunque solo apparentemente commerciali[6]. Tale ambizione è stata però decisamente e prontamente attenuata dall’orientamento delle Sezioni Unite propenso a negare la sussumibilità di un soggetto concepito e regolato per un determinato scopo in un genus differente[7].
Con l’avvento del Codice Civile il legislatore ha aperto all’utilizzo dello schema privatistico, riconducendo l’azionariato pubblico al diritto privato commerciale e alle relative logiche, per cui, al netto di possibili differenti previsioni legislative, le società a partecipazione pubblica sarebbero soggette alla medesima disciplina delle società a partecipazione privata. Forse stimolato da un precedente orientamento dottrinale[8], il pensiero del codificatore era enucleabile già nella Relazione al Codice Civile del Ministro Guardasigilli n. 998, laddove emergeva la volontà dello Stato di assoggettarsi alla disciplina delle società per azioni al fine di beneficiare di una maggiore snellezza di forme (oltre che di «nuove possibilità realizzatrici»); peraltro, l’esercizio di poteri privatistici da parte del socio pubblico non destava scalpore in quanto, seppur pervasivi, detti poteri erano in ogni caso circoscritti entro i paletti del diritto societario comune e dunque non si presentavano fattivamente differenti da quelli esercitabili da qualsiasi altro socio di controllo di carattere privatistico[9]. Fermo quanto suesposto, alla luce della normativa codicistica, vi è che la sottoposizione della società pubblica alla disciplina privatistica poggia necessariamente su ulteriori elementi: a) innanzitutto, rileva la volontà di regolare specificamente tali società con esigue previsioni normative ad hoc, sottoponendole, per i restanti profili, alla disciplina delle società di capitali[10]; invero, la scelta del legislatore di far indossare alle società a partecipazione pubblica l’abito delle società di capitali non preclude l’applicazione di norme e istituti pubblicistici sì da far perdere di significato tale scelta legislativa la quale, invece, deve intendersi funzionale a individuare la disciplina residualmente applicabile alla società a partecipazione pubblica[11]; b) in secondo luogo, rileva la scelta della Pubblica Amministrazione di acquisire partecipazioni in società private, scelta che denota la sua volontà di assoggettarsi alla forma giuridica prescelta[12]; c) infine, rilevano una serie di interventi normativi (di carattere amministrativo e non) i quali hanno predicato l’appartenenza al diritto privato proprio delle società a partecipazione pubblica[13].
A mio avviso, il quesito circa la possibile sottoposizione delle società a partecipazione pubblica alla disciplina delle società di diritto privato (e specificamente alle società per azioni) deve ormai ritenersi privo di utilità considerata la pacifica risposta affermativa. Invero, se da un lato, ora come allora, la Pubblica Amministrazione ha inteso perseguire un interesse pubblico (v. infra) anche acquisendo interessenze private, da altro lato, tale intenzione si è tradotta nella volontà di utilizzare concretamente uno schema privatistico che comporta inevitabilmente l’applicazione della disciplina di diritto comune[14]. Tale scelta è ascrivibile alla necessità della Pubblica Amministrazione di agire – nello svolgimento di alcune delle sue attività – utilizzando schemi di diritto maggiormente adeguati a una gestione più snella ed efficiente[15]: economicità ed efficacia sono dunque due principi cardine dell’attività amministrativa, rappresentando un corollario del principio di buona amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione. Pertanto, essendo l’azione amministrativa assai complessa nonché (già ex sé) appesantita dal rispetto delle regole disciplinanti la cosa pubblica, è sorta l’esigenza di “esternalizzare” alcune attività, ponendole oltre l’apparato burocratico mediante l’intervento della normativa tipica delle società di capitali: in tal modo, vengono utilizzati moduli organizzativi di diritto comune (presumibilmente più efficienti), così consentendo all’amministrazione di beneficiare dei vantaggi della contrattazione privatistica[16].
Se così non fosse, d’altro canto, nel caso in cui le compagini sociali private fossero chiamate a soggiacere a schemi regolatori extra-privatistici, esse incontrerebbero non poche difficoltà ad associarsi alla Pubblica Amministrazione al fine di esercitare un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili. In virtù di ciò, è proprio la Pubblica Amministrazione che, conscia della diversità di posizioni di contraenti (e soci), è acceduta in un ambiente contrattuale in cui non era solita esprimersi, ma nel quale ben presto si è adeguata consapevole delle caratteristiche del contesto, delle controparti e degli interessi perseguibili.
L’attività interpretativa volta a tracciare una (eventuale) linea di demarcazione tra gli interessi perseguibili deve essere condotta tenendo preliminarmente in considerazione che l’interesse pubblico può essere perseguito mediante l’utilizzo degli schemi privatistici nella loro essenzialità, evitando di sprofondare integralmente nel diritto dei privati[17] pur servendosi di esso.
Pur dovendosi prendere atto della (talvolta inevitabile) commistione tra interesse pubblico e “interessi dei privati”, il regime giuridico delle società a partecipazione pubblica non necessiterebbe dell’attribuzione di una specifica natura o qualità, essendo opportuno ricostruirlo, invece, con un approccio sostanzialistico ed interdisciplinare[18]; in altre parole, non bisogna restare ostaggio di ancestrali dicotomie (tra pubblico e privato) ma si dovrebbe valutare l’interesse perseguito accettando, a monte e senza preconcetti, la convergenza (e integrazione teleologica) di corpi normativi differenti.
La scelta della forma societaria per l’esercizio di attività pubbliche deriva dalla necessità di conciliare la funzione teleologica delle società (ossia lo scopo di lucro[19]) con l’interesse pubblico che si intende perseguire. Tale scelta non deve tradursi nella volontà di classificare le società pubbliche alla stregua di società “speciali” anche perché, invertendo le prospettive, la società per azioni non muta la sua natura di soggetto di diritto privato per il sol fatto che la Pubblica Amministrazione possegga tutto o parte delle partecipazioni azionarie[20]. La prova di ciò è offerta dall’art. 2, comma 3, del TUSP il quale prevede chiaramente che, salvo espresse deroghe in esso previste, alle società a partecipazione pubblica si applicano le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato[21].
Tanto premesso, non può negarsi che la finalità lucrativa contribuisca notevolmente a configurare la società a partecipazione pubblica come ente privatistico ai sensi dell’art. 2247 c.c.; anche perché, ove si volesse condividere la tesi per cui l’ente pubblico sia costituzionalmente vocato a perseguire l’interesse pubblico-generale, sarebbe arduo continuare a definire “pubblico” un soggetto assegnatario di uno scopo strettamente egoistico, quale la massimizzazione dei profitti suoi e della compagine sociale cui appartiene[22]. A tal riguardo è stato da taluno rilevato che lo scopo lucrativo – modernamente inteso come distribuzione di dividendi e come capacità di creare valore per tutti i soci – richiede necessariamente la propria massimizzazione, divenendo difficilmente compatibile con lo scopo pubblicistico, inteso come ricerca del bene comune[23]; di conseguenza, o la Pubblica Amministrazione dovrebbe rinunciare alla ricerca del massimo lucro (così privilegiando inevitabilmente la componente pubblicistica, ricevendo dalla società utilità proporzionalmente maggiori rispetto alla compagine sociale[24]), oppure dovrebbe perseguire interessi privati dei soci (ma, in tal caso, si potrebbe dubitare che l’interesse pubblico possa trovare campo).
Ritengo che nel prendere atto del tradizionale antagonismo tra interesse pubblico e interesse privato, il dissidio possa essere superato ritenendo che la società a partecipazione pubblica deve persegue un interesse “composto” che integra (e soddisfa) anche quello dei soci[25] – nel nostro caso, il socio Pubblica Amministrazione – a percepire gli utili derivanti dall’esercizio dell’attività sociale (benché gli interessi dei soci pubblici non sempre si connotino in termini di omogeneità[26])[27].
Provando a dare un ordine alla soluzione proposta, a mio avviso la genesi dell’iniziativa imprenditoriale del socio pubblico presuppone il soddisfacimento del primordiale interesse pubblico se sol si considera che i) la scelta delle amministrazioni pubbliche di costituire società o acquisire e/o mantenere partecipazioni societarie è ancorata all’espletamento di attività societaria avente a oggetto la produzione di beni e servizi strettamente necessari per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali (art. 4, comma 1, TUSP)[28] e che ii) le attività societarie espletabili sono, in buona sostanza, quelle afferenti alla produzione di servizi di interesse generale e di servizi o beni a essi strumentali[29].
Benché si ritenga che l’interesse pubblico possa persistere durante l’esecuzione del contratto di società (recte, fino a quando l’amministrazione mantiene la partecipazione) in virtù dell’attribuzione del potere di nomina diretta e revoca degli amministratori della società[30], è proprio con riguardo al modo in cui l’attività sociale si esprime che, a mio avviso, diviene rilevante l’interesse sociale (e del socio pubblico). In effetti, dovendo l’azione gestoria i) conformarsi al rispetto dei principi di corretta amministrazione societaria, ii) rispettare le regole dettate dalla concorrenza[31] e iii) orientarsi anche al perseguimento di lucro (in maniera tanto più evidente in caso di presenza di soci privati nella compagine sociale), gli amministratori sono chiamati a prendere atto dei diversi interessi coesistenti di cui sono portatori – a monte (soci) e a valle (collettività) – i vari stakeholders[32], per poi ricercare la loro massimizzazione esprimendo un momento gestorio che li sintetizza[33]. Del resto, benché l’interesse che muove l’amministrazione ad utilizzare lo strumento societario sia quello di soddisfare un bisogno della collettività di cui esso risulta essere espressione mediante lo svolgimento di un’attività che il mercato non riuscirebbe a garantire (per lo meno) alle medesime condizioni, vi è che la legge riconosce senza dubbio agli amministratori di società pubbliche, nel pieno del loro potere discrezionale, la possibilità di prendere in considerazione l’interessi degli azionisti (art. 6 TUSP)[34]. E tra tali azionisti rientra senz’altro il socio pubblico il quale merita, come gli altri, di ricercare quel fine lucrativo strumentale al raggiungimento degli obiettivi di efficienza, economicità e qualità del servizio prodotto nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche, sì che la società pubblica possa mantenere un equilibrio economico idoneo a consentire il corretto adempimento delle obbligazioni assunte.
In definitiva, non essendo utile individuare una gerarchia tra gli interessi coinvolti, può ritenersi che la società pubblica “nasce” (recte, viene costituita) e “muore” (recte, viene cessata) per soddisfare, in positivo o in negativo, l’interesse pubblico, ma si esprime anche attraverso la soddisfazione dell’interesse sociale (nonché del socio pubblico) sugellando l’integrazione di corpi normativi (pubblicistico e privatistico) concepiti per regolare fattispecie e tipi diversi tra loro. Rinvengo, dunque, nell’espressione dell’attività sociale della società pubblica un “rapporto di servizio” tra l’interesse sociale e quello pubblico, laddove la ricerca del primo è servente rispetto alla soddisfazione del secondo: da qui l’affermazione dell’interesse “composto” perseguibile dalla società pubblica.
[1] L. Salvato, I requisiti di ammissione delle società pubbliche alle procedure concorsuali, in Dir. fall., 2010, I, 603.
[2] G. Napolitano, Pubblico e privato nel diritto amministrativo; Milano, 2003, 235 e 241; nello stesso senso L. Mannori – B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, Bari, 2006, 470 e ss.
[3] V. Cerulli Irelli, Diritto privato dell’amministrazione pubblica, Torino, 2009, 2, il quale evidenzia che «Accanto ad enti ed organizzazione pubbliche, operano persone giuridiche private di varie specie…talché possiamo parlare di un diritto privato dell’organizzazione pubblica». È ampia la bibliografia sul tema: si veda, tra i rimi, G. Berti, Introduzione, in (a cura di G. Berti) Pubblica amministrazione e modelli privatistici, Bologna, 1993, 14, il quale osservava che «l’uso di moduli privatistici nell’organizzazione pubblica costituisce una pratica che ha accompagnato sempre la vita della pubblica amministrazione», anche se «molto di più sul piano dell’attività e degli strumenti giuridici ad essa relativi» che «sul piano organizzativo»; sul ricorso massiccio ad istituti tradizionalmente propri dell’iniziativa privata si vedano anche: M. Clarich, Privatizzazioni e trasformazioni in atto nell’organizzazione amministrativa italiana, in Dir. amm., 1995, 519 e ss.; G. Di Gaspare, Organizzazione amministrativa, in D. disc. pubbl, 1995, X, 513 e ss.; C. Franchini, L’organizzazione, in (a cura di S. Cassese) Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo generale, 2000, I, 270 e ss.; F. Santonastaso, Riorganizzazione della pubblica amministrazione e istituti di diritto privato, in Contr. impr., 2010, p. 237 e ss.; M. Renna, Le società per azioni in mano pubblica. Il caso delle s.p.a. derivanti dalla trasformazione di enti pubblici economici ed aziende autonome statali, Torino, 1997, p. 24 e ss.; F. De Leonardis, Soggettività privata e azione amministrativa. Cura dell’interesse generale e autonomia privata nei nuovi modelli di amministrazione, Padova, 2000, 100 e ss.; A. Pioggia, La competenza amministrativa. L’organizzazione amministrativa fra specialità pubblicistica e diritto privato, 2001, 179 e ss.
[4] B. Sordi, Origine e itinerari scientifici della nozione di “ente pubblico” nell’esperienza italiana, in (a cura di V. Cerulli Irelli – G. Morbidelli) Ente pubblico ed enti pubblici, Torino, 1994, 13 e ss.
[5] R. Ravà, L’azionariato dello Stato e degli enti pubblici, in Riv. dir. comm., 1933, I, 324 e ss. il quale afferma, in particolare, che «l’autorità pubblica, nel ricorrere a forme giuridiche offertole dal diritto privato, le ha adottate, più che altrove, nella loro integrità, senza modificarle e spesso deformarle».
[6] Si veda Cons. Stato, sez. IV, n. 33 del 19 gennaio 1938, in (a cura di G. Pasquini – A. Sandulli) Le grandi decisioni del Consiglio di Stato, Milano, 2001, 235 e ss. resa in tema di qualificazione della allora società anonima AGIP, dove, al fine della affermazione della giurisdizione amministrativa, si dice che: «… se alla A.G.I.P: si volesse contestare la qualifica di Ente pubblico, perché essa si presenta sotto la forma di un’anonima commerciale, basterebbe opporre la notorietà del fatto, che tale forma fu data, unicamente, per ragioni di opportunità contingente e che, del resto, è comune ad altre imprese, - create dallo Stato o con il suo concorso, - senza che questa esteriorità influisca sulla sostanza e sugli scopi loro, diretti in linea principale all’incremento e conseguimento di finalità di generale interesse e che, appunto per essere tali, lo Stato, quale Ente originario e sovrano, ha, non solo il diritto, ma altresì l’obbligo di controllare». Segue poi l’opinione del giudice amministrativo circa la possibilità di dubitare della natura pubblica della società, possibilità «per di più inopportuna, perché in aperto contrasto con le direttive del Regime, intese ad assicurare, in ogni campo, quella autarchia per cui l’A.G.I.P. fu costituita e che, con la lavorazione delle materie prime, con la messa in valore di riserve petrolifere e con le ricerche, essa encomiabilmente persegue, non solo nell’interesse economico generale, ma altresì per la difesa Nazionale» (239-240). Insomma, la società a partecipazione pubblica si atteggerebbe quale soggetto di diritto pubblico avendo finalità pubblicistiche.
[7] Si tratta della sentenza pronunciata dalla Cassazione a Sezioni Unite n. 1337 del 26 aprile 1940, in Foro.it, 1941, I, 199 e ss. secondo la quale «Un Ente che nasce, vive e del quale sia prevista la fine secondo le regole proprie delle società anonime non rientra nella categoria delle persone giuridiche pubbliche, quando non si dimostri che specifici elementi investono e modificano la sua intima struttura».
[8] R. Ravà, op. cit., 340 secondo il quale l’ente pubblico doveva rinunciare alla aprioristica posizione di supremazia ascrivibile alla sua qualità di persona giuridica pubblica. Più in particolare, l’Autore affermava che «…si deve riconoscere che l’ente pubblico nel divenire fondatore e azionista di una società anonima nella forma ora accennata ha voluto spogliarsi, per ragioni varie, di quella posizione di supremazia indubbiamente inerente alla sua qualità di persona giuridica pubblica, ma che tuttavia non esclude delle sue manifestazioni iure privatorum. È quindi avvenuto che in un campo a priori pubblicistico, quale è quello dell’intervento degli enti pubblici in materia economica, è stato adottato integralmente un istituto di diritto privato. In questo senso, quindi, ammesso che, senza possibilità di dubbio, vi è stata interferenza tra diritto pubblico e diritto privato, deve riconoscersi che è stato il diritto pubblico ad essere influenzato dal diritto privato anzi che questo da quello pubblico. La compenetrazione verificatasi tra i due rami del diritto è avvenuta in direzione contraria alla più generale tendenza…»».
[9] Si veda F. Goisis, La natura delle società a partecipazione pubblica alla luce della più recente legislazione di contenimento della spesa pubblica, in www.rivistacortedeiconti.it/Fascicolo/F.Goisis.-Relazione-10.05.13.pdf.
[10] Si tratta delle disposizioni normative di cui agli artt. 2449 e ss. c.c., rispetto ai quali è stato osservato che il legislatore ha dedicato poche norme al pur rilevante tema dell’azionariato pubblico non per la scarsa considerazione legislative del fenomeno, ma, al contrario, per il precipuo obiettivo di assoggettare la società a partecipazione pubblica – salvo l’efficacia delle norme testé indicate – alla medesima disciplina delle società per azioni (disciplina che, come quelle dell’impresa, è diritto comune ad operatori pubblici e privati)(v. F. Galgano, Le società per azioni, in (diretto da F. Galgano) Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, VII, Padova, 1988, 454). Sulla stessa lunghezza d’onda si vedano M.S. Giannini, Le imprese pubbliche in Italia, in Riv. soc., 1958, 266 e ss. e, nella recente letteratura, C. Ibba, Le società a partecipazione pubblica: tipologia e discipline, in (a cura di F. Guerrera) Le società pubbliche, Torino, 2001, 5 e ss. secondo il quale «Come sappiamo, sia il codice civile del 1942, sia la riforma societaria del 2003 hanno dedicato alle società a partecipazione pubblica solo poche norme […] Lungi dall’essere casuale, la «leggerezza» della disciplina – anche questo è noto – è frutto di una precisa scelta di politica legislativa, volta a equiparare il trattamento delle iniziative economiche pubbliche e di quelle private, assoggettando anche le prime, in caso di adozione della forma societaria, al diritto societario comune». Sul tema si segnala anche F. Fimmanò, Il fallimento delle “società pubbliche”, in Crisi d’Impresa e Fallimento, in www.ilcaso.it, 10, secondo la cui opinione le poche norme dedicate specificamente alla società a partecipazione pubblica non consentirebbero di configurarla come un’entità sociale isolata e dotata di una peculiare natura giuridica. Anche M.T. Cirenei, Le società a partecipazione pubblica, in (diretto da G.E. Colombo – G.B. Portale) Trattato delle società per azioni, VIII, Torino, 1992, 10, osserva che le uniche norme disciplinanti la società pubblica denotano la scelta del legislatore di rinunciare a dettare una disciplina organica sulle partecipazioni pubbliche, ciò denotando la volontà del legislatore medesimo ad assoggettare le società partecipate al diritto comune piuttosto che ad una normativa speciale.
[11] C. Ibba, La tipologia delle privatizzazioni, in (a cura di V. Buonocore e G. Racugno) Privatizzazioni e regioni, Milano, 2003, 485 e ss.
[12] A queste conclusioni giunge la giurisprudenza di legittimità: cfr. Cass., Sez. Un., n. 26806 del 19 dicembre 2009, in Giur. comm., 2011, II, 306 e ss. Si precisa, tuttavia, che tale tesi comporterebbe che la posizione dell’ente pubblico all’interno della società sia unicamente quella di socio di maggioranza e che soltanto in tale veste esso potrà influire sul funzionamento della stessa, avvalendosi non già di poteri pubblicistici, ma dei soli strumenti previsti dal diritto societario: in questi termini, Cass. Sez. Un. n. 7799 del 15 aprile 2005, in Soc., 2006, 870; nello stesso senso, Cass., Sez. Un. n. 392 dell’11 gennaio 2011, in Giur. comm., 2012, II, 114; Cass. Sez. Un., n. 7447 del 20 marzo 2008, in www.dejure.it; Cass. Sez. Un. n. 8454 del 26 agosto 1998, in www.dejure.it; Cass., Sez. Un. n. 4991 del 6 maggio 1995, n. 4991, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1995, 1056. Stando così le cose, se quindi è vero che la società a partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto privato solo per il rapporto di dipendenza con l’ente pubblico, è altresì vero che a quest’ultimo non sarà consentito «incidere unilateralmente […] sull’attività della società mediante l’esercizio di poteri autoritativi e discrezionali, non prevedendo la legge alcuna apprezzabile deviazione, rispetto alla comune disciplina privatistica delle società»: in questi termini Cass. Sez. Un. n. 4217 del 20 febbraio 2013, in www.dejure.it; in tal senso, ancor più di recente, Cass., Sez. Un. n. 10299 del 3 maggio 2013, in Soc., 2013, 975.
[13] Si vedano: i) art. 1, comma 2, lett. c), D. Lgs. 8 aprile 2013, n. 39, che definisce quali “enti di diritto privato in controllo pubblico”, «le società e gli altri enti di diritto privato che esercitano funzioni amministrative, attività di produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici, sottoposti a controllo ai sensi dell’articolo 2359 c.c. da parte di amministrazioni pubbliche, oppure gli enti nei quali siano riconosciuti alle pubbliche amministrazioni, anche in assenza di una partecipazione azionaria, poteri di nomina dei vertici o dei componenti degli organi»; ii) art. 4, co. 13, D.L. 6 luglio 2012, n. 95 (c.d. spending review, convertito in l. 7 agosto 2012, n. 135), che, in materia di società a partecipazione pubblica, detta una norma di generale rinvio alla disciplina codicistica delle società di capitali, precisando che «Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina dettata dal codice civile in materia di società di capitali»; iii) art. 6, comma 19 e art. 14, comma 32, D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (convertito in l. 30 luglio 2010, n. 122); iv) art. 1, comma 734, L. 27 dicembre 2006, n. 296, con successiva norma di interpretazione autentica con tenuta in art. 3, comma 32-bis, L. 24 dicembre 2007, n. 244. Sia consentito il rinvio a E. Codazzi, La società in mano pubblica e fallimento: alcune considerazioni sulla disciplina applicabile tra diritto dell’impresa e diritto delle società, in www.orizzontideldirittocommerciale.it, 13 e ss., la quale osserva che «in base al quadro delineato, emerge in modo evidente che il legislatore, anche quando abbia inteso valorizzare determinate esigenze di carattere pubblicistico, lo abbia fatto pur sempre nel rispetto degli obiettivi e delle finalità dell’attività di impresa, senza stravolgere gli istituti societari tipici piegandoli ad interessi extrasociali».
[14] Ciò confermerebbe l’assunto per cui l’utilizzo dello strumento privatistico societario ad opera della Pubblica Amministrazione e la connessa incidenza sulla causa concreta del contratto devono espletarsi mediante il rispetto delle norme inderogabili dell’organizzazione societaria, pena la «mancanza di tenuta non solo del modello, ma dell’attività», v. D.U. Santosuosso, I sistemi di amministrazione e controllo delle società partecipate da enti pubblici, in Aa.Vv., Le società a partecipazione pubblica, Milano, 2010, 135. Secondo l’Autore, inoltre, il rispetto di tale condizione consentirebbe di contemperare gli interessi pubblici istituzionali di cui lo Stato è portatore anche allorquando si avvale di strumenti privatistici con le istanze di concorrenzialità del mercato e di efficienza della gestione sottese all’esercizio dell’impresa in forma di società
[15] Così consacrando i propositi rappresentati con la Relazione al Codice Civile del Ministro Guardasigilli n. 998 (v. supra).
[16] R. Guarino, La “causa pubblica” alla luce del testo unico 175 del 2016, in (a cura di F. Fimmanò – A. Catricalà) Le società pubbliche, I, 2016, 282 e ss. Con una tanto brillante quanto diretta affermazione, l’Autore precisa che in tal modo «L’amministrazione si affaccia al mondo del privato (in particolare, al mondo imprenditoriale) per coglierne i caratteri dell’efficienza e fa proprie le forme di organizzazione societaria» e che – a ben vedere - «Le esternalizzazioni non risolvono sempre i problemi dell’amministrazione ed un’applicazione diffusa e generalizzata può risultare non proficua in settori che necessitano di una gestione tradizionale interna».
[17] G. Oppo, Diritto privato e interessi pubblici, in Scritti giuridici, IV, Padova, 2000, 50, il quale avverte che un uso normativamente distorto degli istituti svilirebbe il diritto pubblico ed il diritto privato e persino «attenua le garanzie, suscita questioni di legittimità costituzionale e nuoce alla coerenza e al prestigio dell’ordinamento». Sul tema si veda anche N. Irti, Economia di mercato e interesse pubblico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2000, 444 il quale evidenzia che «ciò che era possibile entro l’abito dell’ente pubblico, non è più possibile nella forma di società per azioni. La quale… non è una semplice forma, riempibile di qualsiasi contenuto e piegabile a qualsiasi, speciale o eccezionale, disciplina».
[18] Così anche G. Terracciano, La natura giuridica delle società a partecipazione pubblica e dei consorzi per la gestione dei servizi pubblici locali, in (a cura di F. Fimmanò) Le società pubbliche. Ordinamento, crisi ed insolvenza, Milano, 2011, 95.
[19] Si distingue, tradizionalmente, il lucro oggettivo (indicante la finalità di produzione di un utile da parte di una società e che può essere definito come la tendenza da parte della società a produrre utili mediante l’insieme di tutte le attività rientranti nell’oggetto sociale, cfr. F. Branca, Le società di persone, Napoli, 2003, 35) dal lucro soggettivo (indicante la finalità di divisione di un utile tra i soci).
[20] Si vedano sul punto le sentenze della Suprema Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n.17287 del 2006 e n. 7700 del 2005.
[21] Negli anni anteriori al Testo Unico, tuttavia, non sono mancate le posizioni dottrinali che ritenevano doveroso effettuare una biforcazione: società partecipate “di mercato”, le quali sarebbero state assoggettate integralmente alla disciplina delle società per azioni, salvo deroghe normative e società “semi-amministrazioni”, per le quali il legislatore avrebbe dovuto avere maggiore discrezionalità nel dettare la disciplina applicabile in deroga a quella comune (cfr. L. Torchia, La responsabilità amministrativa per le società in partecipazione pubblica, in Giorn. dir. amm., 2009, 791). Tesi, questa, che tuttavia non è stata in grado di consentire al giudice la facile individuazione del gruppo cui, caso per caso, deve ritenersi appartenente la società partecipata nelle varie controversie, essendo gli indici rivelatori della pubblicità piuttosto incerti; senza tralasciare che detta bipartizione potrebbe dare adito a forzature di sistema come ad esempio, quella di considerare la società pubblica assoggettata totalmente allo statuto pubblicistico, v. S. Del Gatto, Le società pubbliche e le norme di diritto privato, in Giorn. dir. amm., 5/2014, 498, la quale ritiene preferibile, in assenza di norme derogative, propendere per l’applicabilità alle società in mano pubblica della disciplina civilistica e giuscommercialista (precisando, inoltre, che l’esenzione dal fallimento è limitata ai soli enti pubblici).
[22] N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Roma, 2003, 162 il quale rileva un vero e proprio «contrasto ontologico» tra fine di lucro e pubblicità. G. Cottino, Partecipazione pubblica all’impresa privata ed interesse sociale, in Arch. giur., 1965, spec. 71 ss., che propose di ricostruire l’interesse sociale come aperto al perseguimento, anche concorrente, di una pluralità di scopi. Il medesimo Autore, in particolare, osservò come occorresse distinguere le società a seconda che la partecipazione pubblica fosse totalitaria ovvero soltanto di controllo, rilevando come, nella prima ipotesi, «i fini perseguiti sono pubblici e non privati» e, nella seconda ipotesi, risultasse necessario realizzare «un compromesso tra gruppi eterogenei di interessi».
[23] F. Goisis, La natura delle società a partecipazione pubblica alla luce della più recente legislazione di contenimento della spesa pubblica, in www.rivistacortedeiconti.it/Fascicolo/F.Goisis.-Relazione-10.05.13.pdf, il quale peraltro rileva che lo scopo di lucro consentirebbe alle società a partecipazione pubblica di non costituire una mera affermazione formale, bensì di essere il frutto di una consapevole scelta teleologica, inderogabilmente imposta dal legislatore.
[24] M.T. Cirenei, Le società a partecipazione pubblica, in (diretto da G.E. Colombo – G.B. Portale) Trattato delle società per azioni, VIII, Torino, 1992, 3 e ss. e 103 e ss. Inoltre, in tempi non sospetti autorevole dottrina ha affermato che l’interesse pubblico deve essere inteso come interesse extrasociale di alcuni soci destinato a soccombere di fronte all’interesse sociale, v. A. Asquini, I battelli del reno, in Riv. soc., 1959, 618 e ss.; T. Ascarelli, Tipologia delle società per azioni e disciplina giuridica, in Riv. soc., 1959, 995 e ss. Contra, S. D’Albergo, Le partecipazioni statali, Milano, 1960, 2012 secondo il quale nelle società pubbliche l’interesse sociale è quello del socio di maggioranza, mentre il socio di minoranza nella stipulazione del contratto sociale accetta preventivamente di concorrere allo svolgimento di attività economica gestita dal socio di maggioranza e secondo criteri che non sono quelli tipici della società che si va a costituire. Su una lunghezza d’onda intermedia si veda C. Angelici, Interesse sociale e business judgment rule, in Riv. dir. comm., 2012, I, 573 e ss., secondo il quale l’interesse sociale non può essere concepito in modo unitario, dovendosi prendere atto di una pluralità di “interessi sociali” tutti allo stesso modo rilevanti, e rispetto ai quali ogni scelta gestionale e sociale presuppone un continuo bilanciamento, senza che nessuno possa assumere una posizione di preminenza.
[25] Autorevole dottrina ha offerto un’interpretazione dell’interesse sociale come un interesse comune «in senso oggettivo ed astratto» o come interesse del socio medio o come interesse dei soci nell’ambito della collaborazione tra gli stessi, ma sempre nel rispetto dell’obbligo di non recare danno alla società nel perseguimento di un interesse extrasociale (v. P. G. Jaeger, L’interesse sociale, Milano, 1963, 178 ss.).
[26] In effetti, il differente animus che spinge un soggetto ad acquisire una partecipazione sociale potrebbe essere diverso per i soci per i quali l’esercizio del diritto di voto sottende il soddisfacimento di un interesse strettamente imprenditoriale, cui si contrappongono i soci per i quali l’investimento effettuato sottende il soddisfacimento di un interesse finanziario finalizzato ad assicurare loro una prevista remunerazione. Contrapposizione, questa, che potrebbe rendere ardua l’identificazione dell’interesse del socio uti socius, proprio per l’assenza di un unico e identico riferimento soggettivo (cfr. B. Libonati, Scritti Giuridici: Impresa e società. Concorrenza e mercato. Gruppi. Bilanci e contabilità, I, Milano, 2013, 471 e ss. il quale afferma specificamente che «la formula che l’interesse sociale è l’interesse del socio come socio è utile a circoscrivere l’obiettivo che dovrebbe essere proprio ad ogni socio e la missione che si affida agli amministratori, e per identificare concettualmente i confini entro i quali i soci e gli amministratori possono/devono muoversi: ma la scelta dell’azione da seguire non trova nella figura indicata conformazione precisa, sicché si perviene pur sempre a un giudizio di valore sottoposto a variabili numerose»). Tale tesi è astrattamente idonea a mettere a nudo certamente un nervo scoperto della questione ma, ad opinione di chi scrive, non dovrebbe pregiudicare la possibilità di perseguire genuinamente un interesse sociale a prescindere dalle diverse esigenze degli stakeholders in quanto essi, pur con diverse sfumature, intendono soddisfare un loro personale interesse uti singuli e ogni singolo interesse può, senza troppi patemi d’animo, astrattamente conciliarsi con quello delle altre compagini azionarie. Peraltro, in entrambi i casi l’interesse uti socius è individuabile e le diverse conseguenze che ne possono derivare attengono al risultato atteso da ciascuno ma non alla gestione societaria in senso stretto (senza tralasciare la circostanza che la compagine imprenditoriale è di gran lunga prevalente, in genere, sulla compagine finanziaria).
[27] Tale tesi potrebbe costituire, a mio avviso, un possibile sviluppo della ricostruzione dell’interesse sociale aperto al perseguimento di una pluralità di scopi (v. G. Cottino, Partecipazione pubblica all’impresa privata ed interesse sociale, in Arch. giur., 1965, spec. 71 ss., il quale, in particolare, ha osservato la necessità di distinguere la società con partecipazione pubblica totalitaria (per la quale «i fini perseguiti sono pubblici e non privati») dalla società a controllo pubblico (per la quale si necessita di «un compromesso tra gruppi eterogenei di interessi»).
[28] A tal riguardo la giurisprudenza ha affermato che l’art. 4, commi 1 e 2, del TUSP, che regolamenta la costituzione e l’acquisto di partecipazioni (anche minoritarie) di società pubbliche, attiene non solo alla materia dell’ordinamento civile, ma è anche portatore di profili di coordinamento finanziario e tutela del buon andamento della pubblica amministrazione, stabilendo specifici vincoli ai quali le amministrazioni pubbliche devono attenersi (Corte Cost., 28 luglio 2022, n. 201, in One legale).
[29] Attività che sono dettagliatamente previste dall’art. 4, comma 2, TUSP. Peraltro, tutto l’iter che sfocia nella scelta di costituire, acquisire e mantenere partecipazioni societarie è sottoposto prima a forme di consultazione pubblica e poi sottoposto al controllo della Corte dei Conti e dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ciò rendendo trasparenti e sindacabili le scelte compiute dall’amministrazione pubblica.
[30] Così A. Maltoni, Società a partecipazione pubblica e perseguimento di interessi pubblici, in Diritto dell’Economia, 2019, 2, 204, secondo il quale gli stessi amministratori sarebbero chiamati a vigilare affinché sia mantenuta la connotazione pubblicistica dell’attività sociale.
[31] In tal senso rileva l’art. 14, comma 5, del TUSP il quale, in linea di principio, vieta alle amministrazioni locali socie di soccorrere finanziariamente la società pubblica che presenti perdite di esercizio per tre esercizi consecutivi o che abbia utilizzato riserve disponibili per ripianare perdite anche infrannuali, salvo che un’azione di supporto finanziario sia contestualizzata in un piano di risanamento approvato dall’Autorità di regolazione di settore (se esistente) e comunicato alla Corte dei Conti; così come la stessa disposizione consente il soccorso finanziario laddove si intenda salvaguardare la continuità nella prestazione di servizi di pubblico interesse a fronte di gravi pericoli per la sicurezza pubblica, l’ordine pubblico e la sanità, previa adozione di decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Ebbene, in ambo i casi, entra in scena l’interesse pubblico che orienta tali azioni e che si sovrappone – senza escluderlo – all’interesse sociale.
[32] Una possibile (quasi involontaria) declinazione di convivenza di interessi è stata offerta dalla giurisprudenza di merito la quale, pur premettendo che la ratio della partecipazione pubblica sia da individuarsi nella tutela di interessi non meramente - ed egoisticamente – privati, è giunta ad affermare che il socio pubblico è comunque chiamato ad agire nel rispetto dei principi di ragionevolezza e di correttezza a tutela dei diversificati interessi coinvolti, senza potersi rinvenire aprioristicamente un netto distacco, avulso da responsabilità, tra l’ente-socio e la società, sulla quale, di fatto, esercita un potere di indirizzo e di controllo (Trib. Palermo, 28 aprile 2021, in ilsocietario.it)
[33] Ritengo che a tesi dell’interesse “composto” della società pubblica possa adagiarsi su quanto già affermato da C. Angelici, Le società per azioni. Principi e problemi, I, Milano, 2012, 101, il quale rileva l’inutilità di trovare un’unica nozione di interesse, preferendo invece individuare sia le soluzioni mediane utili a dirimere gli eventuali conflitti sia gli strumenti decisionali mediante i quali perseguire tale obiettivo. La questione assume gli stessi contorni in molti ordinamenti stranieri tra cui: i) quello francese, laddove «l’intérêt social est aujourd’hui fortement trés procedimentalisée» per cui la «qualitè des procédures decisionnellés devrait-elle jouer un rôle important non sur l’intérêt social, mais sur la décision prise par la société qui, grâce à l’devrait correspondre à cette impératif», cfr. D. Poracchia – D. Martin, Regard sur l’intérêt social, in Rev. Sociétés, 2012, 475 e ss.; idem in ii) quello spagnolo, v. J. Sànchez Calero Guilarte, El interés social y los varios intereses presentes en la sociedad anònima cotizada, in Rev. Derecho mercantil, 2002, 1653 e ss.
[34] G. Guizzi, in (a cura di G. Guizzi) La governance delle società pubbliche nel D. Lgs. n. 175/2016, Milano, 2017, 10