Tipicità dei diritti reali e autonomia negoziale con particolare riferimento ai diritti edificatori nonché alle perequazioni e compensazioni urbanistiche
Pubblicato il 08/09/22 09:00 [Articolo 1956]






In un momento storico in cui l'autonomia negoziale vive il periodo di sua massima esaltazione, appare quanto mai importante individuare con esattezza i suoi limiti.

Il primo limite all'autonomia negoziale è rappresentato dalla natura del diritto, quindi dalla disponibilità o indisponibilità dello stesso.

Invero, l'autonomia negoziale ha ampio spazio quando i diritti sono disponibili, meno spazio, invece, nell'ambito del diritto di famiglia ed ancora meno spazio nell'ambito del diritto delle successioni.

Inoltre, l'autonomia negoziale deve necessariamente rispettare ulteriori due requisiti: quello della liceità e quello della meritevolezza degli interessi.

I limiti all'autonomia negoziale si presentano particolarmente problematici con riferimento ai diritti reali.

Come noto, i diritti reali sono dei diritti che un soggetto esercita sulla res e che non fanno sorgere rapporti obbligatori.

Essi sono tradizionalmente suddivisi in due macro aree:

- i diritti reali in re propria (diritto di proprietà);

- i diritti reali in re aliena, che presuppongono la sussistenza del diritto di proprietà di un terzo ed insistono su una cosa altrui, perché il bene oggetto di pretesa è di un terzo (basti pensare ai diritti reali di godimento oppure ai diritti reali di garanzia).

A margine di questa classificazione, i diritti reali, ancorché in re propria ed in re aliena, appartengono comunque allo stesso genus, quello di diritti reali, i cui requisiti comuni sono:

- l'assolutezza: si parla di assolutezza per evidenziare il dovere dei soggetti terzi di astenersi dall'ostacolare oppure turbare l'esercizio del diritto da parte del suo titolare;

- la immediatezza: trattasi di un requisito che evidenzia lo stretto rapporto intercorrente tra il titolare del diritto e il bene che ne forma oggetto; trattasi di un rapporto tale da non necessitare alcuna intermediazione di un soggetto terzo (diversamente dei diritti obbligatori in cui la soddisfazione del credito chiede necessariamente l'adempimento di un altro soggetto);

- la inerenza: la possibilità che viene riconosciuta di conservare e di far valere il proprio diritto in capo a tutti i successivi acquirenti del bene.

Tanto premesso, è ora il caso di rilevare che il rapporto tra autonomia negoziale e diritti reali è sempre stato ostico, perché il mondo dei diritti reali è governato da due principi fondamentali: il principio di tipicità e il principio del numerus clausus.

La tipicità e il numerus clausus dei diritti reali tradizionalmente sono considerati principi fondamentali di questo settore, ispirato ad una logica antitetica rispetto a quella che informa il legislatore nell'ambito contrattuale (art.1322 c.c.).

Invero, mentre nell'ambito contrattuale lo spazio lasciato all'autonomia negoziale è quanto mai esteso, salvi i predetti limiti, in tema di diritti reali, invece, è tendenzialmente preclusa la possibilità ai privati di introdurre limitazioni ai diritti reali che non siano stati previamente espressamente previsti dal legislatore.

E tuttavia i due principi vanno tenuti ben distinti.

Infatti, mentre il principio del numerus clausus preclude ai privati la possibilità di costituire in via negoziale nuove figure di diritti reali, la tipicità costituisce un limite che le parti incontrano nella determinazione del contenuto del diritto reale tipico[1].

Dunque, mentre il principio del numerus clausus riguarda essenzialmente la fonte dei diritti reali; il principio di tipicità, invece, attiene non alla fonte, quanto piuttosto al contenuto, quindi alla disciplina.

Il principio di tipicità e il principio del numerus clausus non nascono nel diritto moderno ma risalgono al diritto romano, nell'ambito del quale la proprietà fondiaria rappresentava la maggiore fonte di ricchezza.

Questo aspetto comportava, come logica conseguenza, uno sfavore del legislatore nei confronti di qualsivoglia estrinsecazione dell'autonomia negoziale che potesse tradursi in una limitazione della proprietà stessa o comunque in una minaccia della stessa.

Ciò nonostante, negli ultimi decenni, si è assistito, da un lato, alla nascita di diverse figure caratterizzate dalla sicura presenza di alcuni elementi di realità (basti pensare, a titolo esemplificativo, alla multiproprietà oppure al supercondominio o ancora alle cosiddette servitù reciproche); dall'altra, si è assistito alla espansione di vincoli contrattuali in grado di incidere sulla libera gestione o sulla destinazione dei beni (mediante per esempio il ricorso a negozi fiduciari, oppure negozi di destinazione), sconosciuti fino a qualche anno fa all'ordinamento giuridico italiano.

Proprio queste figure hanno avuto un merito importante: quello di rinvigorire nuovamente il dibattito dottrinale e giurisprudenziale in tema di diritti reali, dibattito incentrato sulla individuazione dei principi generali della materia.

Del resto, con l'avvento, nel nostro ordinamento, della Costituzione repubblicana si è assistito ad una vera e propria rivoluzione, dal momento che, da una proprietà sacra e inviolabile[2] si è passati ad una proprietà funzionale o funzionalizzata.

Questa concezione funzionale del diritto di proprietà implica dei limiti al diritto stesso, laddove questo sia giustificato dall'esigenza di tutelare interessi collettivi o anche interessi privati, a condizione che però questi interessi di privati rivestano una rilevanza anche dal punto di vista sociale.

Il diritto reale di proprietà diventa così un diritto funzionale, che inizia a concepirsi come espressione della solidarietà umana applicata alle cose[3], in quanto permette l'estensione ad altre persone o ad altri fondi delle utilità che caratterizzano una cosa.

La rivoluzione è veramente copernicana perché con l'avvento della Costituzione repubblicana, e quindi con il passaggio da uno stato liberale ad uno stato sociale, il diritto reale, da elemento che veniva visto come ostativo del pieno esplicarsi della libertà individuale, diventa uno strumento che inizia piano piano a realizzare l'uguaglianza sostanziale, trovando un riferimento costituzionale nell'articolo 2 Cost..

Muovendo da tali premesse, è agevole comprendere come il principio di tipicità e il principio del numerus clausus siano diventati principi anacronistici e, forse, superati.

L' orientamento che ha ammesso fino a un certo momento storico la possibilità per l'autonomia negoziale di intervenire anche nella materia dei diritti reali si fonda sull'inesistenza nell'ordinamento giuridico italiano di una norma che espressamente vieti la creazione di diritti reali atipici.

Dovrebbe, quindi, trovare applicazione l'art. 1322 c.c., che farebbe riferimento sia ai contratti aventi effetti obbligatori, sia ai contratti ad effetti reali.

A mente di tale impostazione, le ragioni storiche tradizionalmente sottese ai principi di tipicità e numerus clausus dei diritti reali sarebbero tramontate con la nascita della Costituzione italiana, la quale anzi promuoverebbe una piena esplicazione dell'autonomia privata anche in materia di diritti reali.

Tale lettura del rapporto tra autonomia negoziale e diritti reali è una lettura sicuramente suggestiva e apparentemente corretta e coerente con i principi ordinamentali, ma questa interpretazione non è stata unanimemente condivisa da parte della dottrina e della giurisprudenza, che hanno continuato, invece, per un lungo periodo di anni, a ritenere il principio di tipicità e quello del numerus clausus un limite invalicabile per la autonomia negoziale[4].

Si confutano tutte le argomentazioni addotte dai sostenitori della tesi dell'ammissibilità di questi diritti reali atipici, perché non risponderebbe al vero l'affermazione secondo cui tali principi non sarebbero previsti da alcuna norma.

Invero, nel nostro ordinamento giuridico, l'art. 832 c.c. afferma che i limiti al diritto di proprietà devono essere stabiliti dall'ordinamento giuridico.

E proprio in questa espressione si ritrova l'essenza di questo divieto che preclude la costituzione di diritti reali diversi da quelli disciplinati.

Peraltro, anche se l'art. 832 c.c. si riferisce soltanto al diritto di proprietà, va detto che tale disposizione normativa assume senz'altro una valenza paradigmatica per tutti quanti gli altri diritti, essendo il diritto di proprietà il padre di tutti i diritti reali.

Ma non solo.

Invero, la predicata lettura lata dell'art. 1322 c.c. è stata sconfessata in una pluralità di arresti giurisprudenziali da parte della Corte di Cassazione[5], la quale ha ribadito che il principio di atipicità contrattuale consente soltanto la creazione di vincoli obbligatori atipici, nuovi, diversi rispetto a quelli previsti dal legislatore, ma non anche reali.

Pertanto, se l'art. 1322 c.c. opera solo in ambito contrattuale, ciò significa, ragionando a contrario, che la mancanza di una norma di questo tenore nel settore dei diritti reali è indice inequivocabile della vigenza di questi principi di tipicità e numerus clausus.

L'orientamento oggi dominante è concorde nell'affermare che i principi di tipicità e numerus clausus non sono rilevanti ex se, ma sono rilevanti perché nascondono l'esigenza di favorire la corretta circolazione e commerciabilità dei beni, quindi la ricchezza immobiliare in genere e ciò per esigenze di certezza del diritto e di tutela dei soggetti terzi.

Infatti, i potenziali acquirenti non sarebbero in grado di accertare l'esistenza di eventuali pesi sul bene che intendono comprare e quindi non sarebbero in grado di valutare correttamente i rischi dell'operazione.

Ad analoghe conclusioni è possibile pervenire con riferimento ai creditori, che non sarebbero in grado di valutare se le garanzie che richiedono possono assicurare in modo adeguato le loro pretese[6].

In altri termini, la creazione di diritti reali atipici sarebbe impedita proprio dalla trascrizione e quindi dall'art. 2643 c.c..

I diritti reali, invero, configurano diritti che devono essere trascritti proprio nell'ottica di soddisfare queste esigenze di certezza dei traffici giuridici di circolazione [7].

Non così secondo un'altra prospettiva ermeneutica, la quale, invece, ritiene che vi possa essere spazio per l'autonomia negoziale anche nell'ambito dei diritti reali, non ritenendo la proprietà come sacra e inviolabile, ma come un istituto avente oggi un valore funzionale. La proprietà oggi ha una rilevanza sociale. L'art. 832 c.c. si ritiene essere riferito solo ed esclusivamente al diritto di proprietà, e non anche ai diritti reali in genere. E anche se esiste l'art. 1322 esso viene dettato soltanto rispetto ai rapporti obbligatori, e quindi, nel silenzio del legislatore, nulla vieta di poter ammettere la atipicità anche nel mondo della realità.

Così tratteggiate le due impostazioni ermeneutiche, va detto che l'atteggiamento della dottrina e della giurisprudenza maggioritaria allo stato è un atteggiamento di chiusura nei confronti dei diritti reali atipici.

Tale esito interpretativo, tuttavia, non comporta una preclusione assoluta a qualsiasi forma di estrinsecazione dell'autonomia negoziale nel regno dei diritti reali, potendosi intravedere la possibilità di ammettere manifestazioni di autonomia negoziale nell'ambito dei diritti reali, a condizione che venga rispettato il cd. zoccolo duro degli stessi, ovvero i caratteri di fondo[8].

Ne consegue che ruolo fondamentale sarà quello del Giudice, perché è compito dell'interprete verificare il rispetto del contenuto tipico dei diritti reali: deve essere proprio il Giudice a capire se questi limiti sono stati superati oppure no dai contraenti nell'esercizio della loro autonomia negoziale, dovendo risolvere questo conflitto tutte le volte in cui si trovi ad una figura particolarmente eccentrica, o sui generis, o ad un tipo particolare di diritto reale che si allontana dagli schemi tipici.

Tuttavia, la tendenza del legislatore è sempre quella di ricondurre ogni diritto reale eccentrico, atipico, alla matrice, al genus, alla species di un diritto reale tipico: si parla in dottrina a questo riguardo del fenomeno della cosiddetta "tipizzazione forzosa dei diritti reali atipici"[9], come accade anche nell'ambito di rapporti obbligatori e dei contratti.

La tematica dei diritti reali atipici ha intercettato anche quella dei diritti edificatori, ovvero diritti che conferiscono ad un soggetto uno ius ad aedificandum, cioè la facoltà di edificare su un determinato suolo.

Si tratta di diritti ibridi, multilivello, trasversali ed eterogenei, perché a cavallo tra il diritto civile e il diritto amministrativo e, segnatamente, tra l'urbanistica e il diritto civile.

Per quanto attiene al profilo dell'urbanistica, viene in rilievo tutta la disciplina del governo del territorio e, in particolare, tutte le norme, sia statali che regionali, dettate con riferimento a quelli che sono strumenti perequativi, compensativi ed incentivanti.

E proprio questi strumenti perequativi, compensativi e incentivanti rappresentano i presupposti del riconoscimento in capo ai privati di diritti edificatori.

Sotto il profilo civilistico, invece, la norma più importante è rappresentata all'art. 2643 n. 2-bis c.c., che dispone l'obbligo di rendere pubblici, col mezzo della trascrizione, anche i contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti edificatori, comunque denominati, previsti da normative statali o regionali ovvero da strumenti di pianificazione territoriale.

La norma è l'unica disposizione del codice civile che fa riferimento ai diritti edificatori e anche se non ne fornisce una definizione certamente riconosce meritevolezza e diritto di cittadinanza ai diritti edificatori, essendo l'intento del legislatore solo quello di garantirne certezza nella circolazione.

Il punctum pruriens è capire se i diritti edificatori siano più vicini ai diritti reali (e quindi se siano diritti reali tipici o atipici) o se, invece, possano essere annoverati nel genus dei diritti obbligatori.

Un indice di riferimento è sicuramente l'art. 2643 n. 2-bis c.c., secondo cui i contratti aventi ad oggetto questi particolari diritti devono essere trascritti.

Ebbene, muovendo da tale riferimento legislativo, in un primo momento, la dottrina ha qualificato i diritti edificatori come diritti reali.

Tuttavia, la qualificazione è stata oggetto di critiche e dibattiti, tanto è vero che si è reso necessario l'intervento delle S.U. civili, che si sono pronunciate sulla natura dei diritti edificatori e, in particolare, su quelli nascenti da una convenzione compensativa.

Con la sentenza n. 23902 del 2020, le S.U. hanno ricondotto la categoria dei diritti edificatori a posizioni giuridiche qualificate che la pubblica amministrazione riconosce al privato a fronte di alcune imposizioni o anche di vincoli assoluti di inedificabilità sui suoli ovvero della loro cessione pattizia.

Quindi i diritti edificatori sono dei diritti che nascono dalle convenzioni.

Del resto, è sempre più frequente, da parte della pubblica amministrazione, il ricorso al soddisfacimento dell'interesse pubblico non più attraverso la strada unilaterale della emanazione del provvedimento amministrativo, autoritativo, autoritario, unilaterale, imperativo, esecutivo ed esecutorio (le caratteristiche del provvedimento amministrativo), quanto piuttosto attraverso modalità cogestite, consensuali, bilaterali tra privato e PA, nell'ottica di una leale collaborazione tra P.A. e privato/amministrato, anche in virtù del principio di buona fede che governa l'attuale diritto amministrativo.

Aliis verbis, si può affermare che la PA spesso non agisce più ricorrendo alla emanazione di provvedimenti unilaterali, quanto piuttosto ricorrendo alla strada bilaterale, consensuale, attraverso cioè la stipula di una convenzione.

Ebbene, tali convenzioni possono essere di diverse species:

- perequative;

- compensative;

- incentivanti.

Le convenzioni perequative si propongono come obiettivo principale quello di superare la disparità di trattamento derivante dal sistema della zonizzazione, ovvero di un particolare modus operandi della P.A. che si traduce nell'adottare uno strumento, utilizzato appunto nell'ambito dell'urbanistica, che consiste nel suddividere il territorio di ciascun comune in aree omogenee secondo determinate caratteristiche.

Con le convenzioni compensative, la finalità non è perequativa, quindi non è una finalità volta raggiungere un equilibrio fra le varie zone o un equilibrio fra le posizioni, bensì quella di compensare.

Quindi, nel caso di convenzioni compensative questi diritti edificatori vengono riconosciuti a titolo di indennizzo a fronte di una cessione gratuita da parte del privato a favore della P.A..

Infine, vengono in rilievo le convenzioni incentivanti, ossia la premialità edilizia.

La premialità edilizia consiste nell'attribuzione da parte dell'Amministrazione comunale di diritti edificatori in aggiunta a quelli riconosciuti in via ordinaria dal Piano a favore di taluni soggetti ritenuti meritevoli in quanto hanno posto in essere condotte che hanno favorito il raggiungimento di interessi pubblici. Gli interventi di riqualificazione urbana diretti a realizzare attrezzature e servizi in aggiunta a quanto necessario per soddisfare gli standard o migliorare la qualità ambientale determinano, quindi, un premio riconosciuto dalla pubblica amministrazione e consistente nell'attribuzione di un bonus di diritti edificatori in aggiunta a quelli già spettanti all'area.

Volendo ulteriormente differenziare, può dirsi che diverse sono le ragioni che sottendono le distinte misure urbanistiche in esame: redistributive nella perequazione, indennitarie nella compensazione, incentivanti nella premialità.

Ciò posto, è appena il caso di rilevare che i diritti edificatori consistono nella facoltà di poter edificare: si tratta di una facoltà di edificare che appartiene originariamente al fondo, ma che smette di essere tale per agganciarsi su un altro fondo che ancora non è individuato, atteso che il proprietario titolare del fondo perde la capacità edificatoria sul proprio fondo perché la concede ad un altro fondo.

La dottrina, al riguardo, ha distinto tre fasi: una fase di decollo, una fase di atterraggio e una fase di volo.

La fase di decollo interviene nel momento in cui il diritto edificatorio si sgancia dal fondo dal quale si origina; la fase di volo viene in rilievo allorquando il diritto edificatorio è staccato dal proprio fondo di appartenenza, viene privato del requisito della materialità e si trova nell'etere, non appartenendo ancora a nessun fondo (una sorta di credito edilizio) ed essendo in una fase di quiescenza; infine, la fase di atterraggio viene a configurarsi nel momento in cui il diritto edificatorio viene ad essere riconosciuto ed assegnato ad un determinato fondo, purché nella stessa zona urbanistica.

Le S.U. hanno escluso la natura di diritti reali ai diritti edificatori perché i diritti edificatori non presentano i caratteri sopra ricordati dei diritti reali: difetta, segnatamente il carattere della inerenza al bene e quindi anche il diritto di seguito.

Invero, mentre i diritti reali seguono il bene e sono agganciati al bene, il diritto edificatorio viene sganciato dal terreno originario di appartenenza.

Forse, l'ostacolo più difficile da passare è proprio quello relativo al richiamo all'obbligo di trascrizione di cui all'art. 2643 c.c..

Tuttavia, anche tale richiamo è stato superato perché la stessa Suprema Corte di Cassazione a S.U. ha evidenziato come talora il nostro ordinamento giuridico contempli anche la possibilità di provvedere alla trascrizione di rapporti obbligatori (a titolo esemplificativo, si pensi all'art. 2645 bis c.c. in tema di trasgressione del contratto preliminare: anche il contratto preliminare deve essere trascritto, sia pure in un'ottica prevalentemente prenotativa).

Muovendo da tale considerazione, la Corte di Cassazione ha affermato che la trascrivibilità di un diritto non può costituire di per sé un indice di realità dello stesso.

Pertanto, la natura non reale bensì obbligatoria dei diritti edificatori è stata fatta propria dalle S.U. del 2020, le quali, pur non negando dei profili di realità dei diritti edificatori, hanno rilevato che la qualificazione dogmatico-giuridica più corretta è rappresentata dalla natura dei diritti edificatori come diritti obbligatori, proprio perché i diritti edificatori sono scorporabili, manchevoli di uno degli elementi essenziali costitutivi di un diritto reale quale l'inerenza.

Tale esito interpretativo non acquisita una rilevanza solo teorica, ma anzi produce delle importanti ripercussioni sotto il profilo pratico - applicativo, tenuto conto che la Corte di Cassazione ha risolto altresì la quaestio iuris volta a comprendere se rispetto al terreno dal quale sono sganciati i diritti edificatori si debba calcolare o meno l'imposta di registro, statuendo che un'area prima edificabile, poi assoggettata ad un vincolo di inedificabilità, non è da considerarsi edificabile ai fini ICI ove inserita in un programma attributivo di un diritto edificatorio compensativo, dal momento che quest'ultimo non ha natura reale, non inerisce al terreno, non costituisce una sua qualità intrinseca, ed è trasferibile separatamente da esso, autonomamente rispetto ad esso.




NOTE
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[1] Santise M., Coordinate Ermeneutiche di diritto civile, Giappichelli, 2017;

[2] U. Morello, Trattato dei diritti reali, Vol. I, Proprietà e possesso, Giuffrè Milano, 2008

[3] L. Barassi, Diritti reali limitati, Giuffrè, Milano, 1937

[4] L. Barassi, Diritti reali limitati, Giuffrè Milano, 1937

[5] Cfr. ex multis, Corte di Cassazione, 26.03.1968, n. 944

[6] T. Campanile, F. Crivellari, L. Genghini, I diritti reali, in Manuali notarili, a cura di L. Genghini, Vol. V, Cedam Padova, 2011, p.297

[7] C.M. Bianca, La proprietà, in Dir. Civile, vol. VI, Giuffrè, Milano, 1999

[8] Santise M., op. cit., p. 317 e ss.

[9] R. Galli, Nuovo Corso di Diritto civile, Cedam, 2017; p. 313.






















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