Il giudizio di ottemperanza: all'esame della Adunanza Plenaria il potere del giudice di modificare penalità di mora manifestamente eccessive e i rapporti intercorrenti tra il commissario ad acta adatta e la pubblica amministrazione soccombente
Pubblicato il 29/08/22 09:30 [Articolo 1946]






Il principio di effettività è il principio che orienta l'evoluzione della giurisprudenza amministrativa nonché baricentro del processo amministrativo.

Il fondamento di questo principio è oggi pacificamente rinvenuto negli artt. 24, 111, 113 Cost., che impongono al legislatore di assicurare l'effettività e la pienezza della tutela giurisdizionale nell'ambito del più generale principio del giusto processo, previsto dall'art. 2 del codice del processo amministrativo.

Tuttavia, se non ci fosse un sistema rivolto a far sì che il bene della vita o comunque l'utilità sostanziale ricercata dal privato possa trovare attuazione, il suddetto principio avrebbe una valenza soltanto formale, astratta, sicché le citate disposizioni rimarrebbero delle mere enunciazioni di principio.

Proprio per tale ragione, è stato previsto lo strumento del giudizio di ottemperanza nell'ambito del giudizio amministrativo, che viene in rilievo in tutti i casi in cui la pubblica amministrazione sia inadempiente rispetto all'obbligo conformativo discendente dal giudicato.

Trattasi di un istituto tipicamente italiano, essendo sconosciuto agli ordinamenti stranieri, nei quali manca uno strumento per dare effettività al dictum della sentenza del giudice amministrativo. Carnelutti diceva che un giudizio non eseguibile non è un giudizio e che qualunque vittoria, se poi il giudicato non viene eseguito, è del tutto inutile. Oggi la portata del giudizio di ottemperanza è stata notevolmente esaltata, grazie alla introduzione nel CPA del cd. giudizio di chiarimenti, ossia un mezzo con cui colui sul quale grava l'obbligo di eseguire la pronuncia del giudice civile o amministrativo può formulare delle richieste sulle modalità di attuazione del precetto giudiziale.

Il punctum pruriens è quello di stabilire se si può, nell'ambito del giudizio di chiarimenti, modificare le penalità di mora che sono state irrogate da parte del giudice amministrativo della cognizione.

Nel CPA non esiste una vera e propria nozione di giudicato amministrativo.

Pertanto, bisogna necessariamente fare riferimento alle disposizioni processuali civilistiche e, in particolare, all'art. 324 c.p.c. e all'art. 2909 c.c.: la prima disciplina il giudicato formale; la seconda, invece, il giudicato sostanziale[1].

Per giudicato formale deve intendersi, secondo l'art. 324 c.p.c., l'impossibilità di sottoporre la decisione giudiziale a mezzo di impugnazione ordinaria, o perché questi sono già stati tutti quanti esperiti infruttuosamente o perché sono scaduti i termini.

Il giudicato formale viene in rilievo in tutti i casi in cui quella messa in discussione.


La nozione di giudicato sostanziale, invece, viene prevista dall'art. 2909 c.c., che dispone che l'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto fra le parti, i loro eredi e gli aventi causa.

Gli effetti che scaturiscono dal giudicato sono almeno tre:

- effetti costitutivi;

- effetti preclusivi;

- effetti conformativi.[2]


Quelli costitutivi consistono nella eliminazione dell'atto impugnato; quelli preclusivi si articolano nella efficacia negativa e positiva, cioè con la prima si intende la non proponibilità di alcun nuovo giudizio sulla stessa questione, laddove, invece, la efficacia positiva attiene all'accertamento cristallizzato nel giudicato e di cui ogni giudice negli altri giudizi dovrà necessariamente tenere conto; gli effetti conformativi riguardano il cosiddetto esercizio del potere, in quanto l'amministrazione che interviene nuovamente sulla vicenda oggetto della decisione non è libera, ma è vincolata al decisum contenuto nella sentenza, dovendo necessariamente conformare la propria condotta rispetto a quello che è stato deciso.

L'effetto conformativo è più penetrante nel caso di accoglimento del ricorso per motivi sostanziali, perché se l'accoglimento è per motivi formali, nella sua successiva attività, la pubblica amministrazione potrà agire come vuole, mentre in caso contrario la pubblica amministrazione è vincolata a quello che è stato deciso dal giudice amministrativo.

E allora al fine di evitare il riesercizio all'infinito del potere amministrativo è stata introdotta, in giurisprudenza, la regola del cd. "one shot temperato"[3], nel senso che, dopo il giudicato di annullamento, l'amministrazione può manifestare il potere e negare il bene della vita unicamente un'altra volta, esponendo tutti i motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza del privato.

L'ottemperanza è lo strumento che consente di ottenere l'esecuzione di una sentenza pronunciata nei confronti della pubblica amministrazione, su cui grava questo obbligo di conformazione.[4]

L'elenco dei provvedimenti suscettibili di ottemperanza è indicato all'art. 112 del codice del processo amministrativo.

Il giudizio di ottemperanza si può innescare in presenza di due requisiti: innanzitutto, che la sentenza sia esecutiva, non necessariamente passata in giudicato.

Infatti, tutte le sentenze dei giudici amministrativi si concludono con un ordine per la pubblica amministrazione di eseguire la decisione: e quindi ciò che rileva è che la sentenza sia esecutiva e non che sia passata in giudicato.

Per le decisioni del giudice civile pronunciate nei confronti della pubblica amministrazione, invece, il requisito richiesto è anche il passaggio in giudicato, in quanto il legislatore, a garanzia del principio della separazione dei plessi giurisdizionali, ha ritenuto tollerabile l'ingerenza del giudice amministrativo in materia devoluta alla giurisdizione civile solo ed esclusivamente nei casi in cui la potestas iudicandi del giudice civile sia stata integralmente esercitata.

Quindi, mentre per l'ottemperanza al giudicato amministrativo è necessario e sufficiente che la sentenza sia semplicemente esecutiva e non necessariamente passata in giudicato, per l'ottemperanza al giudicato civile invece occorre che la sentenza sia passata in giudicato.

Questo perché si tratta di una giurisdizione civile e quindi il legislatore pretende che, prima di mettere in esecuzione la sentenza essa non possa mai più essere messa in discussione.

Si discute sulla natura del giudizio di ottemperanza ed in merito esistono tre diversi orientamenti. Secondo un primo orientamento, il giudizio di ottemperanza è un giudizio di esecuzione,[5] proprio perché si parla di mettere in esecuzione un ordine, il dictum della sentenza esecutiva.

A mente di un'altra impostazione ermeneutica, invece, il giudizio di ottemperanza è un giudizio di cognizione, perché è un esempio di giurisdizione di merito, che si caratterizza proprio per la presenza di poteri di cognizione da parte del giudice.

Una tesi intermedia, infine, ritiene che il giudizio di ottemperanza sia un giudizio avente una natura ibrida, mista, sia di giudizio di cognizione, che di giudizio di esecuzione.[6]

Il giudizio di chiarimenti è uno strumento che è previsto dall'art. 114 co.7 del codice del processo amministrativo: "nel caso di ricorso ai sensi del co. 5 dell'art. 112, il giudice fornisce chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza, anche su richiesta del commissario".

Questo istituto ha introdotto quattro problemi: uno relativo alla sua utilità, un altro relativo alla legittimazione ad agire, un altro relativo alla natura del giudizio di ottemperanza, l'ultimo relativo al contenuto di questi chiarimenti.

In ordine alla prima questione, quella relativa all'utilità, si ritiene che il giudizio sia un giudizio particolarmente utile, proprio nell'ottica di effettività della tutela giurisdizionale.

Per quanto riguarda la legittimazione, essa spetta al soggetto che deve eseguire la sentenza, che potrebbe avere un dubbio, ritenendo, quindi, necessario rivolgersi al giudice in sede di ottemperanza per richiedere di chiarimenti: si tratta, ordinariamente, della pubblica amministrazione, perché tendenzialmente sarà la pubblica amministrazione ad eseguire la sentenza esecutiva, oppure, in caso di sua inottemperanza, del commissario ad acta, il quale, quindi, ben a rivolgersi egli stesso al giudice amministrativo in sede di ottemperanza di chiarimenti.

Per quanto riguarda la natura giuridica, invece, si registrano diversi orientamenti: alcuni qualificano questa azione come una azione di accertamento, volta a eliminare l'incertezza e chiarire una volta per tutte il contenuto del dictum.

Secondo altri si tratterebbe di una azione esecutiva di accertamento, volta cioè all'attuazione del comando contenuto nella sentenza, quindi del comando di giurisdizionale.[7]

A mente di una terza impostazione, invece, si tratterebbe soltanto di un incidente di esecuzione nell'ambito del processo di cognizione.

In merito al contenuto è stata raggiunta una unanimità di vedute, nel senso che il contenuto di questo giudizio può essere identificato proprio con la richiesta che viene rivolta dalla parte soccombente al giudice dell'ottemperanza per ottenere chiarimenti in ordine alla definizione dell'obbligo conformativo ovvero in ordine alla modalità di attuazione della sentenza.

La giurisprudenza si è occupata, di recente, del giudizio di ottemperanza, con riferimento particolarmente alla utilizzabilità di questo istituto processuale per chiedere la riduzione delle penalità di mora, le cd. astreintees, in sede di ottemperanza: è possibile in sede di giudizio di ottemperanza di chiarimenti chiedere al giudice di ridurre l'importo precedentemente irrogato a titolo di astreinte?

Ebbene, come noto, la penalità di mora è un istituto di origine francese che viene regolato nell'ambito del processo amministrativo dall'art. 114 co.4 e) del codice del processo amministrativo: "salvo che ciò sia manifestamente iniquo e se non sussistono altre ragioni ostative il giudice fissa su richiesta delle parti la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva o ritardo nell'esecuzione del giudicato".

Quindi l'astreinte consiste nel pagamento di una somma di denaro per il ritardo nell'adempimento dell'obbligazione derivante da una sentenza, ovvero della prestazione dovuta in forza della sentenza. Si tratta di una misura coercitiva a carattere indiretto, perché, attraverso questa minaccia di inflizione della sanzione, l'obiettivo del legislatore è quello di indurre il soggetto soccombente ad adempiere. Oggi si distingue tra un'ottemperanza sostitutiva, che è quella che avviene attraverso la nomina del commissario ad acta e un'ottemperanza compulsoria, che è quella, invece, che si attua attraverso l'applicazione di queste misure di coercizione indiretta.

L'obiettivo è quello di stimolare l'adempimento della prestazione individuata all'interno del dictum, quindi della sentenza esecutiva.

Il problema è capire se si può, in sede di ottemperanza di chiarimenti, chiedere al giudice di ridurre l'importo delle astreintes quando sia manifestamente eccessivo.

La tematica intercetta la questione relativa alla gestione delle sopravvenienze.


Invero, il giudizio di ottemperanza rappresenta indubbiamente il luogo processuale dove poter affrontare e gestire le sopravvenienze e la penalità di mora può essere particolarmente insidiosa quando il giudice amministrativo che ha irrogato questa penalità non ha previsto un tetto massimo, non individuando una limitazione rispetto al quantum del pagamento delle astreintes.

In tale particolare ipotesi, ben potrebbe verificarsi il caso di una richiesta di pagamento di somme di denaro assolutamente sproporzionate rispetto a quelle che potrebbero richiedere le esigenze del caso concreto, arrivando a risultati paradossali ed illogici.

In mancanza di un criterio di determinazione, si potrebbe ricorrere al gemello istituto del codice di procedura civile, previsto dall'art. 614 bis c.p.c. dove il legislatore processual-civilistico indica anche quali sono i criteri che il giudice deve assumere come riferimento per poter applicare queste sanzioni ed individuare correttamente il quantum. Invero, il quantum deve essere individuato tenendo conto del valore della controversia, oppure della natura della prestazione, del danno, se il danno era un danno prevedibile oppure un danno non prevedibile.

Secondo l'Adunanza Plenaria[8] non ci sono ragioni ostative rispetto alla possibilità di poter portare, anche nell'ambito del processo amministrativo, quegli stessi criteri, soprattutto per evitare delle penalità di mora eccessive non avendo altri addentellati riferimenti normativi.

Senza un riferimento, la parte interessata all'ottenimento del bene della vita potrebbe avere più vantaggio dall'erogazione di questa sanzione piuttosto che dal riconoscimento nei suoi confronti del bene della vita per il quale ha agito in giudizio.
Per tutte queste ragioni l'Adunanza Plenaria (9 maggio 2019 n. 7) si è mossa nel senso di ritenere che in sede di ottemperanza di chiarimenti il giudice dell'ottemperanza può mettere mano sulle astreintes e sul quantum, anche perché l'art. 114 fa comunque riferimento al criterio della equità dell'irrogazione di queste sanzioni.

I criteri di cui art. 614 bis c.p.c. possono essere utilizzati nel silenzio del legislatore, ma bisogna comunque tenere distinti i due istituti: i sistemi di coercizione indiretta del codice di procedura civile, rispetto alle penalità di mora, quindi rispetto alle astreinte del processo amministrativo. Infatti, queste sanzioni nell'ambito del processo civile vengono irrogate dal giudice della cognizione, mentre le astreintes possono essere irrogate nell'ambito del processo amministrativo sia dal giudice della cognizione sia dal giudice della esecuzione, quindi, in sede di ottemperanza quando la pubblica amministrazione non ha adempiuto al proprio obbligo conformativo e quindi la fase è quella esecutiva della sentenza. Nel processo civile le sanzioni in questione vengono applicate solo dal giudice della cognizione. Inoltre, le penalità di mora civili non sono applicabili in relazione a condanne aventi ad oggetto obbligazioni pecuniarie, invece, nel processo amministrativo queste sanzioni possono essere applicate anche in caso di obbligazioni di carattere pecuniario e questa è una seconda differenza.

La conclusione a cui arriva l'Adunanza Plenaria è di consentire al giudice dell'ottemperanza di intervenire e circoscrivere il quantum quando non sia stata prevista una limitazione.

Tuttavia, a questa sentenza è stata mossa una critica.


Invero, secondo parte della giurisprudenza, le penalità di mora non sarebbero vere e proprie sanzioni ma unicamente misure di coercizione indiretta e quindi sarebbero degli spostamenti patrimoniali.

Tuttavia, pur muovendo da tale premessa, in realtà, la soluzione è sempre la stessa.

Infatti, le sanzioni devono essere proporzionate e ragionevoli nella loro portata e nella loro applicazione, sicché, qualificando le penalità di mora come delle sanzioni e quindi aderendo ad una visione più pubblicistica, le penalità di mora devono essere comunque proporzionate.

In un'ottica più privatistica che pubblicistica e dunque, considerando le penalità di mora come degli spostamenti patrimoniali, il risultato ultimo comunque non cambia, perché anche gli spostamenti patrimoniali devono essere giustificati e comunque devono essere equi.

Ne deriva che, in sede di ottemperanza di chiarimento, è ben possibile quindi ridurre importo delle astreintes quando risulti manifestamente eccessivo, anche perché l'ottemperanza è una particolare modalità di gestione anche delle sopravvenienze e il giudicato amministrativo è un giudicato tendenzialmente aperto, per cui ben possono venire in rilievo delle sopravvenienze, che vengono fronteggiate anche con l'azione di chiarimenti.

Il GA può applicare le astreintes anche in sede di cognizione e questo oggi è un risultato pacifico.


Tuttavia, in passato, tale esito ermeneutico è stato oggetto di contrasto giurisprudenziale e dottrinale.[9] L'orientamento favorevole, che ritiene che anche il giudice amministrativo in sede di cognizione possa applicare le astreintes, fa leva essenzialmente sull'argomento letterale, basato sull'art. 34 co.1 c)

d) CPA: la prima norma prevede che il giudice della cognizione possa condannare al pagamento di somme di denaro anche a titolo di risarcimento del danno.

A mente di tale impostazione, il termine "anche" alluderebbe ad ipotesi diverse da quella risarcitoria, quale le astreintes; alla lettera e) si prevede che il giudice disponga le misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato e l'astreinte è proprio il prototipo di queste.

Inoltre, il fatto che la legge citi solo la nomina del commissario ad acta non va letto come implicita esclusione delle astreintes, ma anzi come implicita ammissione in virtù del canone lex dixit minus quam voluit, e ciò perché sicuramente la nomina del commissario ad acta è particolarmente invasiva.

Invero, essa è molto più incisiva dell'applicazione di un'astreinte.


Pertanto, se il legislatore ha ammesso la possibilità di nominare un commissario ad acta a maggior ragione dovrebbe consentire l'applicazione delle astreintes, visto che si tratta di una misura di coercizione indiretta e non diretta.

A fronte di questo primo orientamento, ne esiste uno opposto che si fonda proprio sul principio diametralmente opposto, ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacquit.

Facendo la norma riferimento solo al commissario ad acta e visto che in sede di ottemperanza sono state citate entrambe le misure significa che il legislatore ha voluto consentire soltanto al giudice dell'ottemperanza la possibilità di applicare le astreintes.

Scelta che, del resto, non sarebbe neanche così irragionevole visto che solo in sede di ottemperanza e non anche di cognizione il giudice si trova di fronte ad un inadempimento.

La Plenaria aderisce al primo orientamento, affermando che anche il giudice amministrativo in sede di cognizione può applicare le astreintes, specificando però che in ogni caso rimane fermo il potere del giudice di ottemperanza di rimodularne la misura e soprattutto che la comminatoria di una penalità di mora in sede di cognizione è possibile solo in caso di provvedimenti vincolati, in cui cioè la PA può essere costretta ad un facere specifico in tempi predeterminati.

Anche il contrasto in merito al rapporto intercorrente tra il commissario ad acta e la PA soccombente ha richiesto l'intervento dell'Adunanza Plenaria.[10]

Il punctum pruriens al riguardo riguardava l'ipotesi in cui, inadempiente la PA e nominato il commissario ad acta, la prima provvedesse: quale, allora, la sorte di questi atti a fronte della nomina di un commissario ad acta[11]?

Ebbene, secondo una parte della dottrina, dovrebbe predicarsi una nullità per difetto assoluto di attribuzione (la pubblica amministrazione aveva perso il suo potere).

Secondo altri, alla luce del principio di inesauribilità del potere amministrativo, tali atti sarebbero privi di vizi di legittimità.

L'Adunanza Plenaria del 25 maggio 2021 n. 8, afferma che gli atti emanati dall'amministrazione, pur in presenza della nomina e dell'insediamento del commissario ad acta non possono essere considerati affetti da nullità perché sono adottati da un soggetto nella pienezza dei propri poteri, a nulla rilevando la nomina o l'insediamento del commissario ad acta.

Questi atti potranno essere certamente dichiarati nulli dal giudice quando ne ricorrono le condizioni, ma ai sensi dell'art. 21 sexies l. 241/1990, per l'ipotesi di violazione o elusione del giudicato, ma non certo perché sono da considerarsi come atti emanati in difetto assoluto di attribuzione.

Il commissario ad acta viene nominato dal giudice, quindi può esercitare il proprio potere, ma solo fintanto che la PA non abbia eventualmente provveduto. Qualora persista il dubbio del commissario ad acta in ordine all'esaurimento del proprio potere per intervenuta attuazione della decisione da parte della PA, il commissario ad acta potrà rivolgersi al giudice che lo ha nominato con lo strumento dell'ottemperanza di chiarimenti, ai sensi dell'articolo 114 comma 7 CPA. Ebbene, se il commissario ad acta ha un dubbio sull'opzione o meno di provvedere laddove la PA si sia improvvisamente attivata, si rivolge al GA in sede di ottemperanza per chiarimenti. Qualora il commissario ad acta intervenga dopo che l'amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione. questi atti sono da considerarsi, secondo l'Adunanza Plenaria, inefficaci, e ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse al giudice dell'ottemperanza o al giudice del silenzio; allo stesso modo, poi, deve concludersi per la contraria ipotesi di atti adottati dalla P.A. dopo che il commissario ad acta abbia provveduto. Se la P.A. interviene dopo che è intervenuto il commissario ad acta, i suoi atti saranno inefficaci. Tuttavia, a tal fine il commissario deve essere intervenuto, e non soltanto insediato, poiché, come visto, in tale ultima ipotesi la P.A. mantiene il potere di intervento.




NOTE
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[1] In tema, CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2007, 876 ss.; MARUOTTI, Il Giudicato amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it.

[2] Cons. St. sez. VI, 16 ottobre 2007, n. 5409.

[3] Cons. St. sez. VI, 4 maggio 2022, n. 3480.

[4] Sul tema, cfr. GIACCHETTI, Il giudizio di ottemperanza nella giurisprudenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa, in www.giustamm.it.

[5] CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 1994, 851.

[6] VILLATA, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in Dir. Proc. Amm, 1989, 474 ss.

[7] Cons. St. A.P., 15 gennaio 2013, n. 2.

[8] Cons. Stato, Ad. Plen., 9 maggio 2019, n. 7.

[9] Cons. St., sez. V, 16 aprile 2014, n. 1975; Cons. St., sez. IV, n. 5014/2015.

[10] Cons. Stato, Ad. Plen., 25 maggio 2021, n. 8

[11] Cons. St., sez. IV, 10 novembre 2020, n. 6925.






















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