SOMMARIO: 1. I diritti dell'espropriato secondo la Corte di Strasburgo. - 2. L'art. 40, d.p.r. 327/2001 e la caducazione ad opera della Consulta. - 3.1 Cass., sez. U., Sentenza n. 7454 del 19/03/2020 - 3.2 Aree agricole e aree non qualificabili come edificatorie.
1. «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto internazionale. Le precedenti disposizioni non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi oppure di ammende»: così dispone l'art. 1, "Protezione della proprietà", del primo protocollo allegato alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali -d'ora in avanti, CEDU1.
L'interpretazione di questa norma, data dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo, Grande Camera, 29 marzo 2006 (Scordino c. Italia)2, contempla l'esigenza di garantire un giusto equilibrio tra l'interesse generale e il diritto di proprietà (punto 93), considerato diritto fondamentale dell'individuo dal primo protocollo; sebbene la riparazione integrale non sia sempre garantita dalla CEDU, la discrezionalità attribuita agli Stati non consente a questi l'imposizione di oneri sproporzionati a carico del privato, com'è, di norma, prendere dei beni senza corrispondere una somma in ragionevole rapporto con il loro valore (punto 95). Tali principi sono successivamente stati confermati dalla C. Edu con: sentenza del 19 gennaio 2010, in causa Zuccalà contro Italia; sentenza dell'8 dicembre 2009, in causa Vacca contro Italia; sentenza della Grande Camera del 1° aprile 2008, in causa Gigli Costruzioni s.r.l. contro Italia.
Si rammenti che, a partire dalle sentenze gemelle nn. 348 e 349 del 2007, la Corte Costituzionale ha chiarito come le norme della CEDU (nell'esegesi della Corte europea), pur non riconducibili né all'art. 10, c. 1 Cost. -si tratta di norme pattizie- né all'art. 11 Cost. -la disposizione che legittima la diretta applicabilità e l'efficacia obbligatoria in Italia della disciplina dell'Unione Europea- sono fonti integratrici dell'art. 117 Cost., e norme interposte tra l'art. 117 Cost. e la legge ordinaria nazionale: ne consegue che la disciplina interna in contrasto con il paradigma convenzionale, nella misura in cui questo sia compatibile con l'ordinamento costituzionale italiano, è da ritenersi costituzionalmente illegittima, in quanto viola gli obblighi internazionali richiamati dall'art. 117 Cost., tra i quali rientrano altresì quelli di matrice convenzionale. Ora, si ritiene costantemente (e a partire da Corte Cost. n. 5 del 1980) che l'indennizzo, cui l'art. 42, c. 3 Cost. subordina l'ablazione della proprietà privata, non debba integrare una riparazione integrale della perdita subita, ma debba comunque rappresentare un serio ristoro e non possa perciò essere fissato in misura irrisoria o meramente simbolica: "occorre fare riferimento, per la determinazione dell'indennizzo, al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge. Solo in tal modo può assicurarsi la congruità del ristoro spettante all'espropriato ed evitare che esso sia meramente apparente o irrisorio rispetto al valore del bene". Un indennizzo commisurato ad una valutazione astratta perché non correlata alle caratteristiche essenziali dell'immobile espropriato è da giudicarsi del tutto incongruo (Corte Cost., sentenza n. 355 del 1985), poiché punto di riferimento per determinare l'indennità di espropriazione deve essere il valore di mercato (o venale) del bene ablato (Corte Cost. n. 348/07, paragrafo 5.6).
2. L'art. 40 del d.p.r. n. 327 dell'8 giugno 2001, "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità"3, nell'occuparsi della determinazione dell'indennità nel caso di esproprio di un'area non edificabile, proponeva il criterio del valore agricolo medio (VAM) corrispondente al tipo di coltura prevalente nella zona fondo e del valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati. La disposizione, contenuta in un atto normativo dal tono compilativo, riproduceva e rendeva definitiva quella contenuta nell'art. 5-bis, c. 4, d.l. n. 333 dell'11 luglio 19924, che commisurava l'indennità "al valore agricolo medio della coltura più redditizia tra quelle che, nella regione agraria in cui ricade l'area da espropriare, coprono una superficie superiore al 5 per cento di quella coltivata della regione agraria stessa"; il meccanismo richiedeva che tale valore, stabilito annualmente ed entro il 31 gennaio da una commissione provinciale istituita dalla Regione, fosse moltiplicato per un coefficiente variabile a seconda del numero di abitanti del comune nel cui territorio l'aria ricadeva5.
La Corte Costituzionale, investita della questione di legittimità di tali norme per contrasto con gli artt. 117, c. 1, e 42, c. 3, Cost., con sentenza n. 181 del 20116, le dichiarava illegittime così argomentando: i principi espressi tanto dalla Consulta quanto dalla C. Edu (v. supra, n. 1) con riguardo ai suoli edificabili sono operativi pure con riferimento ai suoli agricoli ed a quelli non suscettibili di classificazione edificatoria; nessun motivo appare idoneo a giustificare una disparità di trattamento in rapporto alla qualitas rei, atteso che l'art. 1, primo protocollo CEDU si riferisce, in modo estremamente generico e onnicomprensivo, ai beni (par. 6.4). Il sistema del VAM, invero, non poteva ritenersi conforme a Costituzione in quanto meramente tabellare e disancorato dall'imprescindibile parametro del valore venale del bene: le specificità di questo (posizione ed esposizione del suolo, perizia nella conduzione del fondo, e altre variabili suscettibili di incidere sul valore di mercato tra cui la non trascurabile presenza di acqua ed energia elettrica) non erano oggetto di alcuna considerazione, in elusione della consolidata giurisprudenza costituzionale.
Come già statuito dalla Corte di Cassazione, la pronuncia della Consulta è applicabile a tutti i rapporti non ancora definitivamente esauriti (Cassazione civile sez. 1, sentenza n. 26193 del 19/12/2016).
3.1 Alla declaratoria di illegittimità costituzionale del criterio del VAM consegue il necessario impiego, nella determinazione dell'indennità dovuta per l'espropriazione di terreni agricoli, del valore venale pieno e reale come metodo di stima. La sua previsione è riconducibile all'art. 39, L. 25 giugno 1865, n. 2359, che torna applicabile in via generale a qualsiasi ipotesi espropriativa salva diversa disposizione di legge (Cass. civ., sez. I, 27/09/2016, n. 18928): "Ne' casi di occupazione totale, la indennità dovuta all'espropriato consisterà nel giusto prezzo che a giudizio de' periti avrebbe avuto l'immobile in una libera contrattazione di compra-vendita"; l'adozione di tale metodologia si pone in armonia con il primo protocollo addizionale CEDU e consente di valorizzare le eventuali peculiarità del fondo che ne determinano forme di fruizione diverse dallo sfruttamento agricolo e intermedie tra questo e il livello massimo, dato dalla finalità edificatoria. Al contrario, il VAM comporta un indennizzo del terreno "come se fosse stato sfruttato in agricoltura", senza tener conto della "diversità delle situazioni" e delle "differenze risultanti in particolare dalla configurazione dei luoghi" (C. Edu, Preite c. Italia del 17 novembre 2015, par. 51). Il metodo corretto, applicato anche dalla Corte d'appello, si attagliava bene al caso da ultimo affrontato dalla Corte di Cassazione, nell'ambito del quale il compendio immobiliare risultava interessato da un'attività di trasformazione destinata alla realizzazione di campi da gioco e attrezzature sportive, conformemente al P.R.G. approvato dall'Assessorato Regionale Territorio e Ambiente; tuttavia, il valore venale è certamente impiegabile per la determinazione dell'indennità dovuta in caso di esproprio anche di aree destinate, ad esempio, a parcheggio, deposito, chiosco di vendita di prodotti e in genere attività ricreative varie: ciò che rileva è che tali impieghi siano ammessi dalla vigente normativa, e che siano state rilasciate le previste autorizzazioni normative (Cassazione civile sez. I, 06/03/2019, n. 6527).
3.2 La S.C. ha colto l'occasione per evidenziare, in conformità alla propria pregressa giurisprudenza (ex multis: Cassazione civile sez. VI, 01/02/2019, n. 3168) i parametri che consentono l'identificazione dell'area agricola (alla quale è equiparata quella non classificabile come edificatoria): tale è quella in relazione alla quale non sussiste possibilità legale di edificazione, tenendo conto prioritariamente delle qualità attribuite al suolo dalla disciplina urbanistica. Così, il vincolo di destinazione dell'area a verde pubblico, ad attrezzature pubbliche o ad altri usi tipicamente pubblicistici, posto dallo strumento urbanistico, vale ad escludere qualsivoglia ius aedificandi privato, come facoltà connessa al diritto di proprietà. Alle possibilità legali ed effettive di edificazione, infatti, fa riferimento tanto l'art. 5-bis, c. 3, L. n. 359/92 (tuttora vigente), quanto l'art. 37, c. 3, d.p.r. n. 327/2001.7
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1 Alla stessa, firmata a Roma il 4 novembre 1950, è stata data esecuzione con legge 4 agosto 1955, n. 848, "Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali". Il Protocollo addizionale alla Convenzione è stato firmato a Parigi il 20 marzo 1952.
2 Ricorso n. 36813/97.
3 Pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 189 del 16 agosto 2011, Supplemento Ordinario n. 211 ed entrato in vigore il 1° gennaio 2002.
4 Convertito con modificazioni dalla L. 08 agosto 1992, n. 359 (in G.U. 13/08/1992, n. 190). Si tratta del d.l. "Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica", emanato in una difficile congiuntura economica per il nostro Paese e contenente misure drastiche ma dichiaratamente e necessariamente straordinarie e ad tempus. L'articolo richiamato così disponeva: "Per le aree agricole e per quelle che, ai sensi del comma 3, non sono classificabili come edificabili, si applicano le norme di cui al titolo II della legge 22 ottobre 1971, n. 865, e successive modificazioni ed integrazioni" (si tratta, in particolare, dell'art. 16, commi quinto e sesto, L. n. 865/1971, "Programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell'edilizia residenziale, agevolata e convenzionata", come sostituiti dall'art. 14 della legge n. 10 del 1977, "Norme per la edificabilità dei suoli").
5 Da 2 a 5 se l'area ricadeva nel territorio di comuni fino a 100 mila abitanti; da 4 a 10 se l'area ricadeva nel territorio di comuni con popolazione superiore a 100 mila abitanti.
6Del 7 giugno 2011, depositata il 10 giugno.
7 "Ai soli fini dell'applicabilità delle disposizioni della presente sezione, si considerano le possibilità legali ed effettive di edificazione, esistenti al momento dell'emanazione del decreto di esproprio o dell'accordo di cessione".