Le forme di esercizio della farmacia, tra tradizione e innovazione: il difficile connubio tra professionalità e imprenditorialità
Pubblicato il 01/12/21 07:00 [Articolo 1727]






Sommario: 1. - Ratio decidendi. 2. - Ricostruzione sintetica dei fatti di causa. 3. - I problemi giuridici affrontati dalla Corte. 3.1 - Questioni di ordine processuale. 3.1.1 - Segue: l'incompleta descrizione della fattispecie. 3.1.2 - Segue: l'asimmetria tra i petita del giudizio principale e le sanzioni comminate dalla legge. 3.1.3 - Segue: l'omessa verifica intorno alla praticabilità di un'interpretazione costituzionalmente conforme. 3.1.4 - Segue: l'erronea evocazione di parametri normativi di matrice europea. 3.2 - Questioni di merito. 3.2.1 - Segue: evoluzione diacronica della disciplina sull'esercizio della farmacia. 3.2.2 - Segue: l'interpretazione fatta propria dal giudice a quo in rapporto alla motivazione che la Corte costituzionale pone a base della propria decisione.




Abstract: il presente contributo illustra e commenta il contenuto della sentenza della Corte costituzionale n. 11 del 2020, focalizzando l'attenzione sulle difficoltà ermeneutiche incontrate dal giudice a quo e sulle coordinate culturali della questione di costituzionalità sollevata davanti al Giudice delle Leggi. Premessa una sintetica ricostruzione del percorso evolutivo calcato dalla disciplina legislativa sull'esercizio della farmacia, verranno brevemente riepilogate e chiarificate le ragioni poste dalla Consulta a base della sua decisione, raffrontandole con gli orientamenti di pensiero diffusi a livello giurisprudenziale, con particolare attenzione per il sostrato argomentativo della ordinanza di rimessione.



1. Ratio decidendi

Con la sentenza n. 11 del 2020 la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 8, comma 1, lettera c), della legge 8 novembre 1991, n. 362 (Norme di riordino del settore farmaceutico), in relazione all'art. 7, comma 1, della stessa legge, come modificato dall'art. 1, comma 157, lettera a), della legge 4 agosto 2017, n. 124 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 11, 35, 41, 47 e 117, primo comma, della Costituzione, dal Collegio arbitrale rituale nominato dal Presidente del Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Catania.

Ad avviso della Consulta, in particolare, la suddetta questione si fonderebbe su di un'erronea interpretazione della norma denunciata. Ed invero, a termini della decisione de qua, la causa di incompatibilità di cui alla lettera c) del comma 1 dell'art. 8 della l. n. 362/1991 non riguarderebbe, diversamente da quanto ritenuto dal giudice rimettente, i soci di società di capitali titolari di farmacie che non partecipino alla gestione della farmacia.


2. Ricostruzione sintetica dei fatti di causa

In data 26 giugno 2018, la società Ravanusa s.r.l. presentava al Presidente dell'Ordine degli Avvocati di Catania apposita istanza per la nomina di un Collegio arbitrale che si occupasse di dirimere una controversia, che era scoppiata con uno dei soci.

Detta società, costituita nel marzo del 2018 da taluni dei candidati vincitori di un concorso pubblico straordinario per il conferimento di talune sedi farmaceutiche nella Regione siciliana, aveva ad oggetto esclusivo l'attività di gestione di una o più farmacie. In ragione dunque dell'oggetto sociale, essa rientrava a pieno titolo nel campo di applicazione della disciplina dettata dalla Legge 8 novembre 1991, n. 362, recante "Norme di riordino del settore farmaceutico".

Oggetto della questione sorta tra le parti era la discussa incompatibilità tra la titolarità di un rapporto di pubblico impiego e la partecipazione appunto ad una società farmaceutica.

In particolare, uno dei soci della società Ravanusa s.r.l. esercitava la professione di docente universitaria. Esso era venuto a far parte della compagine sociale in seguito alla cessione della quota detenuta da uno degli originari soci fondatori, in base ad apposito negozio traslativo datato 27 aprile 2018.

Quanto ai profili normativi, assumeva rilevanza, nella fattispecie, l'art. 8, c. 1, della l. n. 362/1991, giusta il quale "La partecipazione alle società di cui all'articolo 7, salvo il caso di cui ai commi 9 e 10 di tale articolo, è incompatibile: (…) c) con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico e privato". In virtù di un'interpretazione letterale della riportata disposizione legislativa, la società quindi contestava che l'attività di docenza espletata dalla socia interessata mal si conciliasse con la partecipazione alla compagine sociale, chiedendo così al Collegio di disporre alternativamente: a) la rimozione dell'incompatibilità, ovvero b) la retrocessione alla cedente della quota partecipativa, che aveva formato oggetto di cessione.

Per contro, la socia, in ciò sostenuta dalla cedente - intervenuta nel procedimento - replicava che la prevista incompatibilità riguardasse esclusivamente la gestione societaria, o comunque i soli soci farmacisti, e non, invece, i c.d. soci finanziatori, cioè quei soci che si limitano a detenere delle quote sociali, senza tuttavia prendere parte alla attività di gestione.

La stessa ha dunque richiesto al Collegio arbitrale di ritenere e dichiarare rilevante e non manifestamente infondata l'eccezione di incostituzionalità del combinato disposto degli articoli 7 e 8, comma 1, legge n. 362/1991, nella parte in cui si prevede che la partecipazione alle società di capitali di cui all'art. 7 della legge n. 362/1991 è incompatibile con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico e privato, per contrasto con gli articoli l, 2, 3, 35, 41, 47 e 117, Cost., rimettendo, quindi, previa sospensione del giudizio, gli atti alla Corte costituzionale.

Il Collegio arbitrale rituale ha reputato rilevante e non manifestamente infondata la proposta questione di costituzionalità, così sollevandola con ord. iscritta al reg. ord. n. 50 del 2019.

Secondo il Collegio rimettente, la norma così denunciata violerebbe gli artt. 2, 3, 4, 35, 41, 47, 11 e 117, primo comma, della Costituzione.

Più precisamente, il giudice a quo sospetta e argomenta:

a) l'irragionevolezza intrinseca dell'equiparazione tra società di persone e società di capitali ai fini dell'integrazione della causa di incompatibilità, tenendo conto anche della sproporzione della previsione sull'incompatibilità rispetto allo scopo di tutela della salute (art. 3 Cost.);

b) l'ingiustificata disparità di trattamento che dalla applicazione della norma denunciata conseguirebbe con riguardo: I) alle società di capitali i cui soci siano persone fisiche anziché persone giuridiche ovvero siano persone fisiche inoccupate; II) alle società di capitali che gestiscano strutture sanitarie o producano farmaci; III) alle incompatibilità previste per i dipendenti pubblici e, in specie, per i docenti universitari, ai quali non è precluso acquisire le quote di società di capitali, purché non abbiano compiti di gestione; IV) alle cause di incompatibilità previste per l'acquisizione di farmacie pubbliche da parte di società di capitali, tra le quali non è individuabile lo svolgimento di attività di lavoro da parte dei soci (art. 3 Cost.);

c) la lesione della tutela del lavoro, che discenderebbe dalla preclusione dell'investimento in una società di capitali titolare di una farmacia privata nei confronti di coloro che svolgano un'attività lavorativa (artt. 4 e 35 Cost.);

d) l'irragionevole compressione della libertà di iniziativa economica privata (artt. 2 e 41 Cost.);

e) la lesione della tutela del risparmio e dell'investimento, che conseguirebbe al divieto di acquisire quote o azioni in società di capitali titolari di farmacie private nei confronti dei soggetti che svolgano qualsiasi attività lavorativa (art. 47 Cost.);

f) la violazione della libertà d'impresa, conseguente alla censurata incompatibilità (artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3 del Trattato sull'Unione europea (TUE); 16 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE); e 49 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), come modificato dall'art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130).

Nel giudizio davanti la Corte costituzionale si sono costituiti la socia docente universitaria e la cedente della quota; è anche intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, per il tramite dell'Avvocatura generale dello Stato.

Tutte la parti hanno in premessa reputato promettente l'esperimento di un tentativo di interpretazione costituzionalmente orientata della norma denunciata.

In subordine, l'Avvocatura, diversamente dalla socia interessata, ha chiesto respingersi la questione di legittimità costituzionale.

Quest'ultima, in particolare, ha preliminarmente eccepito l'inammissibilità della sollevata questione, per le ragioni seguenti:

· Carenza di motivazione in ordine alla sua rilevanza, in ragione della incompleta descrizione della fattispecie concreta;

· Non pertinenza della disposizione denunciata rispetto all'oggetto del giudizio principale;

· Mancato esperimento del tentativo di una lettura alternativa della disposizione denunciata in senso costituzionalmente conforme;

· Erronea evocazione, come norme interposte, di disposizioni del TUE e del TFUE, che il rimettente avrebbe viceversa dovuto direttamente applicare.

Nella denegata ipotesi che il Giudice delle leggi non avesse ritenuto di accogliere la tesi sulla inammissibilità della quaestio, sempre l'Avvocatura ha eccepito l'infondatezza della medesima, sul rilievo che «l'estensione della incompatibilità in esame anche al semplice socio finanziatore di società di capitali […] costituisce legittima - e ragionevole - espressione della discrezionalità della quale il legislatore gode in materia»; salvo poi, attraverso memoria successivamente depositata, premere maggiormente sulla tesi, già sviluppata, inerente la possibilità di una lettura alternativa che limitasse la portata soggettiva della incompatibilità in discussione, «circoscrivendola ai soli soci farmacisti concretamente e fattivamente impegnati nella gestione della farmacia sociale».


3. I problemi giuridici affrontati dalla Corte
3.1 Questioni di ordine processuale

Il Giudice delle leggi decide di affrontare preliminarmente le eccezioni di inammissibilità prospettate dall'Avvocatura dello Stato, poiché potenzialmente ostative all'accesso al merito o comunque rilevanti ai fini della determinazione dell'oggetto della decisione.


3.1.1 L'incompleta descrizione della fattispecie

La prima eccezione formulata dall'Avvocatura dello Stato fa leva sulla asserita mancata specificazione, nelle ordinanze di rimessione, della natura dell'incarico rivestito dalle persone fisiche che hanno acquistato le quote delle società titolari delle farmacie private oggetto delle controversie in sede arbitrale.

La Corte costituzionale dichiara l'infondatezza di tale eccezione sul rilievo che, diversamente da quanto ritenuto dall'Avvocatura, in entrambe le ordinanze si precisa che le acquirenti sono titolari di un rapporto di lavoro pubblico quali docenti universitarie.


3.1.2 L'asimmetria tra i petita del giudizio principale e le sanzioni comminate dalla legge

Ad avviso dell'Avvocatura dello Stato, la questione di legittimità costituzionale in esame sarebbe inammissibile per difetto di rilevanza.

Ed invero, l'art. 8, comma 3, della l. n. 362/1991 prevede che la violazione delle disposizioni che individuano le cause di incompatibilità con la partecipazione alle società farmaceutiche comporta l'applicazione di talune sanzioni interdittive specificamente individuate.

Nelle fattispecie a quibus, tuttavia, le società titolari delle farmacie private domandano l'applicazione di rimedi di carattere generale, radicalmente diversi dalle sanzioni interdittive comminate dalla legge. Ed invero, la Corte costituzionale è richiesta di risolvere la asserita situazione di incompatibilità disponendo alternativamente l'annullamento della cessione delle quote - e dunque la retrocessione agli originari cedenti - ovvero la rimozione della causa di incompatibilità, al fine così di ottenere le autorizzazioni indispensabili all'esercizio della farmacia.

Ne deriverebbe dunque che erroneamente il giudice a quo avrebbe ritenuto rilevante la normativa denunciata. Quest'ultima, infatti, non essendo applicabile ai casi di specie - per la già vista eterogeneità tra i rimedi sanzionatori di stampo legislativo e quelli invece prospettati dalle società coinvolte - non ricoprirebbe un ruolo determinante ai fini della decisione delle controversie rimesse all'attenzione del Collegio arbitrale.

La Corte costituzionale ritiene tuttavia che tali argomentazioni siano prive di fondamento. Essa, infatti, asserisce che nel caso in cui uno dei soggetti incaricati della direzione della farmacia incorra in alcuna delle cause di incompatibilità normativamente tipizzate, la circostanza che la legge stessa commini all'uopo delle specifiche sanzioni non esclude comunque la possibilità di fare ricorso a rimedi generali che traggano comunque causa dallo stesso fenomeno.


3.1.3 L'omessa verifica intorno alla praticabilità di un'interpretazione costituzionalmente conforme

Secondo l'Avvocatura dello Stato, la Corte dovrebbe dichiarare l'inammissibilità per manifesta infondatezza della questione di costituzionalità rimessa alla sua attenzione. Il giudice a quo infatti non avrebbe appurato la praticabilità di un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma denunciata.

In estrema sintesi, il ragionamento che ha indotto il Collegio arbitrale alla proposizione della questione di costituzionalità, sul quale si innestano le censure dell'Avvocatura, può essere riepilogato nella maniera seguente.

La parte convenuta aveva prospettato una soluzione ermeneutica asseritamente in grado di ricondurre la normativa denunciata nell'alveo costituzionale. Essa invero argomentava che l'interpolazione della disposizione di cui all'art. 7 della l. n. 362/1991 da parte della riforma del 2017, mediante l'introduzione nell'ultimo alinea dell'espressione "in quanto compatibili", manifesterebbe l'intenzione del legislatore di lasciare all'interprete la valutazione in sede applicativa della compatibilità delle cause di esclusione alla partecipazione societaria. Ne discenderebbe dunque il potere per il giudice di modulare nella pratica dimensione del diritto gli spazi operativi delle ragioni di incompatibilità di cui alla legge del 1991. In particolare, queste ultime non rileverebbero nelle ipotesi in cui l'attività farmaceutica sia gestita in forma societaria secondo il modulo organizzativo proprio delle società di capitali, poiché appunto a loro volta inconciliabili col regime e le peculiarità di una società di tale genere, nella quale il socio capitalista non è tenuto a svolgere alcuna prestazione lavorativa a favore della società, né a compiti di amministrazione della stessa.

Il Collegio arbitrale ritiene tuttavia che l'esperimento di un tentativo di interpretazione costituzionalmente conforme, nel senso indicato dalla socia convenuta, porterebbe ad una sostanziale disapplicazione della normativa denunciata - la disposizione di cui all'art. 8, l. n. 362/1991, infatti, non distingue tra società di capitali e società di persone, ma uniforma lo status dei soci dell'una e dell'altra; e questo risultato sarebbe intollerabile in un sistema di giustizia costituzionale accentrato, ove compete alla sola Corte costituzionale l'eventuale caducazione di disposizioni e norme ritenute dal giudice rimettente costituzionalmente illegittime. Inoltre, vertendosi in materia di incompatibilità, cioè di previsioni destinate ad incidere in senso limitativo sulla posizione giuridica del destinatario della prescrizione, la modulazione dello spazio operativo delle norme rilevanti "violerebbe imprescindibili esigenze di oggettività e di preventiva conoscibilità di regole di tal fatta".

Già sulla scorta della illustrata ricostruzione del pensiero maturato dal giudice a quo in merito al tema dell'interpretazione conforme è agevole dedurre che la possibilità - e al contempo non condivisibilità - della soluzione ermeneutica proposta dalla parte convenuta sia stata sufficientemente argomentata. Proprio su tali considerazioni, la Consulta respingerà l'eccezione dell'Avvocatura.

Secondo consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, invero, nel caso in cui l'interpretazione conforme sia sperimentata dal giudice, ma questi poi, come nella specie, la ritiene impraticabile, l'eventuale non condivisione di tale lettura incide sul merito e non sul rito, e costituisce quindi ragione di eventuale infondatezza, e non di inammissibilità, della questione sollevata.

In particolare, «la possibilità di un'ulteriore interpretazione alternativa, che il giudice a quo non ha ritenuto di fare propria, non riveste alcun significativo rilievo ai fini del rispetto delle regole del processo costituzionale, in quanto la verifica dell'esistenza e della legittimità di tale ulteriore interpretazione è questione che attiene al merito della controversia, e non alla sua ammissibilità (...). Se, dunque, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne)» (sentenza n. 356 del 1996), ciò non significa che, ove sia improbabile o difficile prospettarne un'interpretazione costituzionalmente orientata, la questione non debba essere scrutinata nel merito. Anzi, tale scrutinio, ricorrendo le predette condizioni, si rivela, come nella specie, necessario, pure solo al fine di stabilire se la soluzione conforme a Costituzione rifiutata dal giudice rimettente sia invece possibile" (Corte cost. n. 42 del 2017; cfr. anche, nello stesso senso, sentenze nn. 221 del 2015, 83 del 2017).

Ne discende dunque che l'eccezione prospettata dall'Avvocatura è del tutto priva di pregio.


3.1.4 L'erronea evocazione di parametri normativi di matrice europea[1]

Ad avviso dell'Avvocatura dello Stato erroneamente il giudice a quo avrebbe evocato le disposizioni del diritto dell'Unione europea, quali parametri interposti per giudizio di costituzionalità. Tali disposizioni, infatti, avrebbero dovuto essere direttamente applicate, avendo efficacia diretta all'interno dell'ordinamento giuridico.

Il riferimento implicito è alle disposizioni del Trattato sull'Unione europea (TUE), del Trattato sul Funzionamento dell'Unione europea (TFUE) e della Carta dei diritti fondamentali della Unione europea (CDFUE), evocati in relazione agli artt. 11 e 117 della Costituzione, in virtù del preteso vulnus recato alla libertà di iniziativa economica privata.

La Corte costituzionale respinge l'eccezione sollevata dall'Avvocatura, rifacendosi ad un orientamento di pensiero in realtà più volte rimaneggiato nel corso dell'evoluzione della giurisprudenza costituzionale. Nelle parole della Consulta, "…qualora sia lo stesso giudice comune, nell'ambito di un incidente di costituzionalità, a richiamare, come norme interposte, disposizioni dell'Unione europea attinenti, nella sostanza, ai medesimi diritti tutelati da parametri interni, questa Corte non potrà esimersi, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, dal fornire una risposta a tale questione con gli strumenti che le sono propri: strumenti tra i quali si annovera anche la dichiarazione di legittimità costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la Carta costituzionale, con conseguente eliminazione dall'ordinamento, con effetti erga omnes, di tale disposizione". Nella fattispecie, per l'appunto, il Collegio arbitrale richiama disposizioni unionali attinenti al - e dunque interferenti con il - valore costituzionale della libertà di iniziativa economica privata.

Siffatta argomentazione, peraltro non più approfonditamente sviluppata dalla Corte costituzionale, che invece si limita a richiamare, adattandolo, un passo di altra precedente decisione, in verità però portata su presupposti di fatto parzialmente diversi, presta il fianco a talune riflessioni critiche delle quali verrà dato brevemente conto.

Secondo la classica impostazione del rapporto "triangolare" tra giudici comuni, Corte di giustizia e Corte costituzionale, così come definita dalla celebre sentenza Granital (Corte cost., sent. n. 170 del 1984), laddove la legislazione nazionale tradisse profili di contrasto con il diritto comunitario (oggi, eurounitario), il giudice comune, prima di rimettere la questione di costituzionalità al Giudice delle leggi, dovrebbe prioritariamente rivolgersi alla Corte di Giustizia dell'Unione europea, al fine per l'appunto di risolvere il problema relativo alla compatibilità comunitaria; solo nel caso che, dopo l'intervento della Corte di Lussemburgo, residuassero dubbi di costituzionalità, detto giudice potrebbe quindi sospendere il giudizio in corso e sollevare la questione di legittimità davanti la Consulta.

Siffatto ordine di priorità degli interventi nel dialogo tra le Corti trova la propria ragion d'essere in un'oculata percezione del rapporto tra diritto interno e diritto comunitario, rapporto che non va declinato in termini di unificazione, ove le parti perdono la rispettiva essenza identitaria, bensì quale fruttuoso coordinamento. Quest'ultima espressione richiama l'idea di entità distinte e separate le quali, senza perdere le proprie connotazioni contraddistinguenti, lavorano insieme al fine di realizzare un obiettivo condiviso. Proprio in questo senso va inteso dunque il legame che vincola l'ordinamento interno e quello sovranazionale, ossia in senso teleologico-funzionale. Accolta questa prospettiva di pensiero discende logicamente che la produzione normativa di matrice europea non viene a far parte, confondendovisi, della legislazione nazionale, rimanendo all'opposto da essa distinta. Ciononostante, l'ordinamento interno riconosce alle norme che provengono dai soggetti istituzionali competenti appartenenti allo spazio europeo la stessa efficacia della legge - rectius, la stessa efficacia che esso ha nell'ordinamento di origine - ammettendone talora in relazione alla relativa natura la diretta e immediata applicabilità dai giudici comuni. Nel contempo, però, dette norme, essendo parte integrante di un ordinamento diverso e distinto, non sono assoggettabili, al pari della legge nazionale, al lavorio interpretativo degli attori del sistema giudiziario nazionale, ai meccanismi di risoluzione delle antinomie normative e al controllo diretto di costituzionalità. In altre parole, se da un lato spetta solo ed esclusivamente agli organi competenti nell'ordinamento sovranazionale, cioè alla Corte di Lussemburgo, il compito di fornire l'esatta interpretazione del diritto dell'Unione, dall'altro, questo, sul versante nazionale, sfugge alle dinamiche proprie della produzione normativa domestica.

Ne discende logicamente che laddove perplessità sorgessero a margine dell'interpretazione del diritto unionale il giudice comune dovrebbe immediatamente interpellare la Corte di Giustizia, unico organo competente a jus dicere in materia di normativa sovranazionale, e non invece l'organo di giustizia costituzionale interno.

Nel corso del tempo, tuttavia, questo assetto dei rapporti tra diritto interno e comunitario è evidentemente apparso alla Corte costituzionale eccessivamente angusto.

Con un famoso obiter dictum contenuto nella sentenza n. 269/2017, poi sottoposto a successive revisioni, la Consulta ha così inaugurato una nuova stagione del dialogo tra le Corti. Nell'ultimo capoverso del paragrafo 5.2 del considerato in diritto, si legge che "…laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso, al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell'Unione, ai sensi dell'art. 267 del TFUE". In altre parole, nel caso in cui intorno al medesimo atto legislativo si riuniscano dubbi di compatibilità sia coi valori costituzionali che con i valori accolti e sanciti a livello eurounitario, il giudice comune è tenuto anzitutto a rivolgersi alla Corte costituzionale, e sarà dunque solo quest'ultima a sollevare eventualmente la questione pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia. Si è giunti, dunque, per tale via alla inversione della "regola" della doppia pregiudizialità, più sopra delineata.

Le ragioni che hanno indotto la Consulta a spingere verso questo revirement dell'impostazione tradizionale vanno ravvisate nell'esigenza di riconquistare quel ruolo centrale che essa stessa aveva in passato ceduto ai giudici comuni, designandoli quali principali interlocutori dei corrispondenti organi di giustizia operanti a livello sovranazionale. Il Giudice delle leggi, si evince dalle sottili argomentazioni del collegio, è certamente più qualificato e autorevole quanto alla formulazione dei quesiti pregiudiziali e, dunque, meglio dei giudici comuni è in grado di alimentare il dibattito con il Giudice del Kirchberg. D'altra parte, si registra altresì la necessità di garantire la certezza del diritto evitando disparità di trattamento, posto che la portata della decisione del giudice ordinario è limitata alla fattispecie rimessa alla sua attenzione, mentre le sentenze della Corte costituzionale hanno efficacia erga omnes.

Dopo soli due anni dalla decisione testé richiamata, la Corte ritorna sulla questione, stavolta, però, correggendo il tiro. Con la sentenza n. 20 del 2019, infatti, la Consulta ridimensiona la predetta doverosità della previa rimessione al Giudice delle leggi in una mera opportunità per il giudice comune, così di fatto complicando la situazione. Ed invero, alla luce di tale temperamento, oggi coesistono due diverse possibili conformazioni del rapporto triangolare tra giudice comune, Corte di Giustizia e Corte costituzionale. In primo luogo, quello tradizionale, di cui alla sentenza Granital. In secondo luogo, quello delineato dalla sentenza 267 del 2017, così come ridimensionato nel 2019. Sotto questo ultimo profilo, il giudice comune potrà, se lo ritiene, interpellare la Corte costituzionale prima di rivolgersi alla Corte di Lussemburgo, rimettendosi dunque al medesimo giudice la decisione di invertire o meno la classica regola della doppia pregiudizialità.

Oltre a ciò, sempre nella stessa sentenza n. 20 del 2019, la Consulta ha esteso lo spazio operativo della deroga al tradizionale assetto dei rapporti tra diritto interno e comunitario. Se infatti, a termini della sentenza del 2017, detta deroga era limitata ai principi e ai diritti enunciati nella CDFUE, i quali costituiscono «parte del diritto dell'Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale», con la successiva decisione del 2019, invece, la immediata rimessione della quaestio alla Corte costituzionale è estensibile anche alle norme di diritto derivato, quando esse forniscono specificazione o attuazione alle disposizioni della CDFUE, ma anche nel senso, addirittura inverso, che esse hanno costituito "modello" per quelle disposizioni, e perciò partecipano all'evidenza della loro stessa natura (costituzionale).

In ulteriori e posteriori pronunce la Corte costituzionale ribadirà il proprio inedito orientamento, non senza talora cadere in apparenti strafalcioni giuridici, magari dovuti ad errori di distrazione in fase redazionale. Con la sentenza n. 63 del 2019, infatti, la Corte pur reiterando i principi già affermati nella nuova più recente giurisprudenza, lascia quasi intendere che il giudice comune abbia il potere di decidere se fare o meno disapplicazione del diritto interno a fronte di norme europee self-executing. Nel punto n. 4.3 del considerato in diritto, infatti, dopo avere riaffermato il principio che "non può ritenersi precluso l'esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia - per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. - alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti", la Corte fa salvo "il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e - ricorrendone i presupposti - di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta". La Consulta porrà subito rimedio a tale errore, che se portato fino alle sue estreme conseguenze finirebbe per far crollare il sistema dei rapporti tra diritto interno e normativa autoapplicativa dell'Unione, mediante la successiva decisione n. 117 del 2019, ove si enuncia ancora il principio più volte richiamato, sia pure "fermo restando che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia dell'Unione europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria…anche al termine del procedimento incidentale di legittimità costituzionale; e fermo restando, altresì, il loro dovere - ricorrendone i presupposti - di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al loro esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta (sentenza n. 63 del 2019, punto 4.3. del Considerato in diritto).

Da ultimo, con la sentenza n. 11 del 2020, qui esaminata, la Consulta sembra fare un altro passo avanti nella direzione della progressiva sgretolazione del sistema Granital. Ed invero, al punto 3.4 del considerato in diritto, si legge che la Consulta non può esimersi dal fornire una risposta alla questione di costituzionalità liberamente sollevata dal giudice comune, secondo l'orientamento inaugurato già dalla decisione del 2017, anche quando il rimettente richiami, come norme interposte - non tanto e non soltanto norme della CDFUE ovvero di diritto derivato che ne diano attuazione o specificazione, bensì - "disposizioni dell'Unione europea attinenti, nella sostanza, ai medesimi diritti tutelati da parametri interni". A tale proposito, giova precisare che nella specie il giudice a quo non si era limitato a richiamare disposizioni della CDFUE, bensì anche taluni principi sanciti nelle richiamate previsioni del TUE e del TFUE.

Che sia questa una nuova tappa verso la progressiva evoluzione del rapporto "triangolare" tra giudice comune, Corte costituzionale e Corte di Giustizia?
3.2 Questioni di merito

Nel merito, il quesito rimesso all'attenzione della Consulta verteva sulla riferibilità della causa di incompatibilità di cui alla lettera c) del comma 1 dell'art. 8 della legge n. 362 del 1991 anche ai soci, di società di capitali titolari di farmacie, che si limitino ad acquisirne quote, senza essere ad alcun titolo coinvolti nella gestione della farmacia. Prima di illustrare le argomentazioni in proposito sviluppate dal Giudice delle leggi, fa d'uopo ricostruire brevemente l'evoluzione diacronica dell'atteggiamento del legislatore verso l'esercizio dell'attività farmaceutica.


3.2.1 Evoluzione diacronica della disciplina sull'esercizio della farmacia[2]

La materia dell'esercizio dell'attività di assistenza farmaceutica alla popolazione ha affrontato un tortuoso percorso di graduale liberalizzazione, culminato nella Legge 4 agosto 2017, n. 124 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza), la quale, tra le diverse modifiche apportate, concede l'ingresso di società di capitali nella titolarità dell'esercizio della farmacia privata; sopprime i requisiti soggettivi per la partecipazione alle società che gestiscono farmacie; e ammette che la direzione della farmacia gestita da una società sia affidata anche ad un farmacista che non sia socio.

La storia della legislazione farmaceutica risente delle repentine trasformazioni ideologiche che nel tempo hanno variamente cadenzato forme e intensità di partecipazione dello Stato alla vita economica e sociale.

Agli inizi del XX secolo, sullo sfondo delle vaste e incisive politiche solidaristiche sostenute dallo Stato sociale campeggia la Legge 22 maggio 1913, n. 468, recante "Disposizioni sulla autorizzazione all'apertura ed all'esercizio delle farmacie" (c.d. riforma Giolitti).

Dalla disamina dell'impianto normativo affiora distintamente che l'opera legislativa fu ispirata da una lucida e profonda consapevolezza della rilevanza pubblicistica dell'attività di assistenza farmaceutica alla popolazione. È esplicito e costante, nelle parole della legge, l'intento di assicurare un servizio qualitativamente pregevole, scevro da condizionamenti di natura economica ed erogato da professionisti seri e muniti delle necessarie competenze.

Così si spiega anzitutto la scelta di subordinare l'autorizzazione all'esercizio della farmacia al superamento di apposito concorso pubblico. Nello stesso ordine di idee è inquadrabile la disposizione che impediva la partecipazione al concorso a coloro i quali non fossero iscritti nell'albo di un ordine provinciale di farmacisti ovvero non dimostrassero di possedere i mezzi sufficienti per il regolare e completo esercizio della farmacia. Fa d'uopo la notazione che la libertà da vincoli di ordine economico, che in effetti avrebbero potuto compromettere la qualità del servizio, era ritenuta più importante della professionalità del candidato: colui che non disponeva delle risorse finanziarie occorrenti, infatti, non sarebbe stato ammesso al concorso, quand'anche avesse comprovato indiscutibili competenze sul piano professionale.

L'esercizio della farmacia veniva dunque delegato dallo Stato ai vincitori del concorso pubblico, in regime di concessione governativa. Dal momento che il provvedimento concessorio era attribuito ad personam, la titolarità della farmacia sfuggiva al potere dell'autonomia privata. Essa cioè non poteva essere né comprata, né venduta, né trasferita per successione o a qualsiasi altro titolo. Era attribuita quindi vita natural durante.

Coerentemente con la ratio legislativa, il titolare autorizzato della farmacia era personalmente responsabile del regolare esercizio della stessa. Vi era insomma perfetta coincidenza tra titolarità della farmacia e imputazione delle responsabilità correlate al suo esercizio.

La legge non contemplava la possibilità che i tipi societari conosciuti dal codice di commercio acquisissero la titolarità dell'esercizio di una farmacia. Lo stretto legame con le finalità lucrative, invero, avrebbe tradito lo spirito dell'attività di assistenza farmaceutica, di natura essenzialmente professionale e di rilevanza pubblicistica. Non solo, qualora il servizio farmaceutico fosse stato assoggettato alle logiche di mercato, la guerra dei prezzi e la spietata concorrenza tra gli attori commerciali ne avrebbe gradatamente deteriorato il livello qualitativo. Era invece ammesso, adesso è intuitivo, l'esercizio della farmacia da parte di istituzioni pubbliche di beneficenza ed altre istituzioni erette in ente morale, nonché di società cooperative italiane di consumo o di previdenza esercitanti il ramo cooperativo di consumo.

Il ruolo rivestito dalla vendita al dettaglio di prodotti farmaceutici sulla scena della tutela della salute dei cittadini avrebbe sempre condizionato l'atteggiamento legislativo riguardo alla disciplina dell'esercizio della farmacia. Le riforme che dopo la c.d. legge Giolitti si avvicenderanno nell'arco di più di un secolo non trascureranno mai l'esigenza di bilanciare le istanze pervenienti dal contesto socioprofessionale con l'efficienza del servizio erogato alla collettività.

Il filo conduttore che guida la successione degli interventi normativi in materia di servizio farmaceutico è ravvisabile nella progressiva valorizzazione del fattore economico-patrimoniale. In un primo momento, nel fenotipo della dispensazione farmaceutica compariva esclusivamente il carattere determinato dall'allele della professionalità, mentre il carattere patrimoniale rimaneva per così dire latente: esso insomma c'era, però era recessivo. I rivolgimenti socioeconomici che hanno cadenzato il c.d. secolo breve, specialmente nella seconda parte del '900, hanno tuttavia spinto verso un radicale ripensamento delle attività professionali. Lo stesso spirito aleggiò altresì intorno al settore sanitario, avvolgendolo accuratamente. In parole povere, diventava sempre più difficile per i professionisti reperire le risorse necessarie all'avviamento e al mantenimento esclusivo di una farmacia, non foss'altro che per i consistenti investimenti iniziali occorrenti, da rapportare alle esigenze dei consumatori e dunque del mercato. Incombeva allora sul legislatore il delicato compito di equilibrare la natura professionale dell'attività farmaceutica con le pressanti sollecitazioni che provenivano dall'economico. E così, anzitutto, la c.d. Riforma Mariotti del 1968 (Legge 8 marzo 1968, n. 475, "Norme concernenti il servizio farmaceutico") reintrodusse la facoltà di trasferire le farmacie, come anche di vendere l'esercizio commerciale. Siffatto intervento trovava la propria ragion d'essere nella esigenza di scongiurare i potenziali pericoli che si annidavano in una inopinata cessazione dell'attività. Nulla escludeva infatti che in cotale eventualità gravissimi danni economici avrebbero travolto il professionista, ruolo questo che assumeva connotati sempre più marcatamente imprenditoriali. Sulla stessa lunghezza d'onda è poi la riforma settoriale dei primi anni Novanta (Legge 8 novembre 1991, n. 362), che reintrodusse, dopo le funeste vicende del XIX secolo, la gestione in forma societaria dell'attività farmaceutica. L'aspetto imprenditoriale del settore farmaceutico non ha qui ancora raggiunto il sommo grado di espressione, però si trattava di certo di un grande passo avanti lungo la via della liberalizzazione dell'esercizio della farmacia: dobbiamo aspettare pressoché la conclusione del primo ventennio del XXI secolo per giungere ad un giudizio così lusinghiero. Intanto, giusto qualche attimo prima del tramonto del secolo ventesimo, la fucina legislativa sfornava una profonda riforma del settore farmaceutico. Si ammette dunque la gestione societaria, nelle forme essenzialmente delle società di persone (limitatamente ai moduli della società in nome collettivo e in accomandita semplice). Sono menzionate anche le società cooperative a responsabilità limitata, ma solo al fine di consentire la prosecuzione dell'attività gestoria già avviata prima dell'andata in vigore del provvedimento de quo.

Il problema più grave con cui il legislatore della riforma ha dovuto fare i conti attiene certamente al contemperamento dell'incursione imprenditoriale nel settore farmaceutico alle esigenze di matrice pubblicistica. Primariamente, al fine di assicurare l'assoluto predominio dell'elemento professionale, il legislatore ha consentito l'esercizio in forma associata della farmacia nelle sole forme delle società di persone, ove i membri fossero tutti farmacisti iscritti all'albo. Di tal guisa, infatti, veniva contestualmente garantito che la farmacia fosse comunque gestita da un farmacista. Lo spirito intimo e originario della professione si rivela però anche attraverso quell'insieme di disposizioni che presiedono alla disciplina della composizione sociale, della gestione societaria, delle vicende traslative e da ultimo, ma non in ordine di importanza, delle incompatibilità con la partecipazione alle società aventi la titolarità dell'esercizio di una farmacia.

È proprio sul profilo delle incompatibilità che focalizzeremo la nostra attenzione. Posto che possono acquisire la qualità di soci delle società aventi come oggetto esclusivo la gestione di una farmacia solamente farmacisti iscritti all'albo della provincia in cui ha sede la società (art. 7, c. 2), ai sensi dell'art. 8, L. n. 362 del 1991, nella formulazione antecedente la riforma del 2017, "La partecipazione alle società di cui all'articolo 7…è incompatibile: a) con qualsiasi altra attività esplicata nel settore della produzione, distribuzione, intermediazione e informazione scientifica del farmaco; b) con la posizione di titolare, gestore provvisorio, direttore o collaboratore di altra farmacia; c) con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico e privato".

Siffatte ragioni di incompatibilità, che in breve impongono ai soci di dedicarsi intensamente all'attività farmaceutica, evitando ogni distrazione e dispersione di energie, mirano contestualmente a prevenire situazioni di conflitto di interessi, che minerebbero la qualità del servizio erogato, con consequenziali rischi per la salute dei consumatori; e a garantire la assoluta canalizzazione verso l'attività di assistenza farmaceutica alla popolazione delle forze fisiche, ma soprattutto psichiche del professionista.

Tale disciplina, complessivamente considerata, "…garantirebbe la preminenza dell'interesse al rifornimento regolare di medicinali alla popolazione rispetto a considerazioni di carattere economico. Infatti, soltanto qualora i titolari delle farmacie, che esercitano un'influenza sulla loro gestione, dispongano di conoscenze e di un'esperienza specifica completa, la gestione anteporrebbe sistematicamente l'interesse alla tutela della salute agli obiettivi economici". Il testo qui riportato riproduce parte degli argomenti formulati dalla Repubblica italiana nel contesto della Causa C-531/06 - Commissione / Italia (sentenza del 19 maggio 2009, ECLI:EU:C:2009:315, punto 33), ove si dibatteva davanti alla Corte di Lussemburgo intorno alla presunta inconciliabilità coi principi della libertà di stabilimento e di libera circolazione dei capitali di una normativa che al pari di quella italiana escludesse che coloro i quali non fossero abilitati all'esercizio della professione di farmacista potessero far parte di una società avente per oggetto esclusivo l'esercizio di una farmacia. I giudici del Kirchberg sono giunti alla conclusione che una opzione normativa pari a quella denunciata non è sindacabile a livello europeo, poiché spetta agli Stati membri decidere il livello al quale intendono garantire la tutela della sanità pubblica e il modo in cui questo livello deve essere raggiunto. Entro i margini di tale discrezionalità, dunque, "uno Stato membro può ritenere che la gestione di una farmacia da parte di un non farmacista, a differenza della gestione affidata ad un farmacista, possa rappresentare un rischio per la sanità pubblica, in particolare per la sicurezza e la qualità della distribuzione dei medicinali al dettaglio". Ciò per la ragione che "la finalità di lucro, nell'ambito di una siffatta gestione, non incontra elementi temperanti quali quelli che caratterizzano l'attività dei farmacisti" (punto 63). Riguardo al gestore che possiede la qualità di farmacista, infatti, "…non si può negare che esso persegua, come altre persone, una finalità di lucro. Tuttavia, in quanto farmacista di professione, si ritiene che quest'ultimo gestisca la farmacia in base non ad un obiettivo meramente economico, ma altresì in un'ottica professionale. Il suo interesse privato, connesso alla finalità di lucro, viene quindi temperato dalla sua formazione, dalla sua esperienza professionale e dalla responsabilità ad esso incombente, considerato che un'eventuale violazione delle disposizioni normative o deontologiche comprometterebbe non soltanto il valore del suo investimento, ma altresì la propria vita professionale. A differenza dei farmacisti, i non farmacisti non hanno, per definizione, una formazione, un'esperienza e una responsabilità equivalenti a quelle dei farmacisti. Pertanto, si deve constatare che essi non forniscono le stesse garanzie fornite dai farmacisti" (punti 61 e 62).

Questo è il contesto normativo in cui il legislatore innesta l'ultima, per data di promulgazione, riforma in materia di esercizio della farmacia. La Legge 4 agosto 2017, n. 124, recante "Legge annuale per il mercato e la concorrenza", segna la tappa definitiva di un tortuoso percorso di liberalizzazione del settore farmaceutico, delineato verso la fine degli anni Sessanta del Novecento dalla timida legge Mariotti, e abbreviato dalla riforma settoriale di fine anni Novanta.

La novella più recente percepisce il peso delle vicende che storicamente hanno cadenzato l'esperienza dello Stato italiano nella vita di relazione soprattutto a livello sovranazionale, così come recepisce quell'asfissiante senso di oppressione che promana da una disciplina oramai ritenuta anacronistica e inconciliabile con le dominanti ideologie politico-economiche.

Acclamato il modulo concorrenziale quale virtuoso criterio di assestamento del mercato e sulla spinta delle allettanti prospettive di sviluppo in termini di maggiore accessibilità dei medicinali a beneficio dell'utenza e di ridimensionamento della spesa pubblica, il legislativo decide di rimuovere gli ostacoli all'apertura del mercato, liberando l'ingresso in favore delle società di capitali. Tale novella, salutata con clamore dall'opinione pubblica, ha avuto serie ripercussioni sulla superficie dell'opera legislativa originaria, ovverossia l'impianto normativo, rendendone la conformazione irregolare e comunque ricolma di asperità ermeneutiche.

Il nocciolo della questione risiede nella evidente asimmetria tra l'ideologia diffusa in materia di esercizio dell'attività farmaceutica e la rinnovata volontà legislativa consegnata alla riforma. In altre parole, gli addetti ai lavori inizialmente non sono riusciti a scrollarsi di dosso il peso della tradizionale teorica sulla natura del servizio farmaceutico, oramai parzialmente retriva e non più attuale, giungendo così persino a storcere il significato della riforma, allontanandolo dalla linea di fondo tracciata dal legislatore, complice pure una formulazione normativa non proprio cristallina. Così si spiegano quegli orientamenti di pensiero restii ad ammettere che le incompatibilità contemplate dalla legge del 1991, in seguito alla riforma del 2017, non trovassero applicazione nei riguardi dei soci di società di capitali aventi la gestione di farmacie che non sono coinvolti in alcun modo nell'attività di gestione, perseguendo un mero fine lucrativo. E proprio questi orientamenti ci conducono alla presente questione di costituzionalità.


3.2.2 L'interpretazione fatta propria dal giudice a quo in rapporto alla motivazione che la Corte costituzionale pone a base della propria decisione

Nella parte della ordinanza di rimessione (Ordinanza 6 dicembre 2018, n. 50, punto 4 dei motivi in diritto) dedicata alla illustrazione delle ragioni per le quali il collegio arbitrale ha ritenuto di non poter dare un'interpretazione costituzionalmente orientata alla normativa derivante dal combinato disposto degli artt. 7, commi 1 e 2, e dell'art. 8, comma 1, lettera c), della Legge n. 362 del 1991, come modificati dalla novissima riforma del 2017, il giudice a quo formula e sviluppa le proprie argomentazioni facendo altresì appello ai precedenti formati dagli organi di giustizia amministrativa.

Già il Consiglio di Stato, in sede consultiva, con parere del 3 gennaio 2018, aveva manifestato delle perplessità in ordine alla esatta delimitazione dello spazio di operatività dell'art. 7, comma 2, ultimo periodo, della legge del '91. La sua formulazione, infatti, si prestava a soluzioni interpretative diverse, suscettibili di modulare variamente l'ampiezza dei confini applicativi delle ragioni di incompatibilità normativamente previste. In base ad un'interpretazione letterale, la locuzione "per quanto compatibili" si riferirebbe in via esclusiva all'ipotesi che a partecipare ad una società di farmacia sia un'altra società di farmacia. In effetti, le disposizioni di cui all'art. 8 postulano che soci della società di farmacia siano tutte persone fisiche: esse, invero, sono state introdotte quando l'unica forma di organizzazione sociale ammessa era la società di persone. Tuttavia, nulla esclude che il filtro della compatibilità abbia portata generalmente riferita alla partecipazione a tutte le opzioni organizzative menzionate dall'art. 7, comma 1, comprese le società personali. Ciò condurrebbe alla modulazione delle ragioni di incompatibilità contemplate dall'art. 8. In proposito, si argomenta che le disposizioni di cui a tale ultimo articolo sono state concepite per soci che dovevano essere necessariamente anche farmacisti. Ragionando in questi termini, il regime delle incompatibilità ed il correlato impianto sanzionatorio individuerebbero il proprio spazio di azione entro i confini della qualifica professionale: quelle regole si indirizzerebbero, insomma, solamente ai soci che siano anche farmacisti. Quale delle due soluzioni prospettate merita accreditamento? L'orientamento tendenzialmente maggioritario abbraccia la tesi più rigorosa, basata su un'interpretazione letterale delle disposizioni rilevanti.

Con Ordinanza, Sez. II, 17 settembre 2018, n. 5488, il TAR del Lazio, pronunciandosi su una questione analoga a quella su cui verteva il giudizio a quo, ha ritenuto che l'argomento facente leva sul mancato coinvolgimento nella gestione della farmacia non potesse avvalorare la tesi sull'assenza di ragioni di incompatibilità con la partecipazione alla società farmaceutica. Tale conclusione poggiava sulla necessaria correlazione esistente tra contitolarità e cogestione della farmacia. Preme rilevare, tuttavia, che la decisione appena richiamata verteva su una fattispecie concreta totalmente altra rispetto a quella su cui il giudice a quo si è pronunciato. I contitolari, infatti, avevano concorso "per la gestione associata, sommando i titoli posseduti", con la conseguenza che la "titolarità della farmacia assegnata era condizionata al mantenimento della gestione associata da parte degli stessi vincitori, su base paritaria, per un periodo di tre anni dalla data di autorizzazione all'esercizio della farmacia, fatta salva la premorienza o sopravvenuta incapacità". Nel caso rimesso all'attenzione della Corte, invece, l'istituto della farmacia in gestione associata non viene assolutamente in rilievo.

Al di là di tali precedenti, invalicabili ostacoli all'accoglimento della soluzione favorevole alla ricorrente nel giudizio a quo promanano, ad avviso del giudice a quo, dalla stessa formulazione dell'art. 8, c. 1, L. n. 362 del 1991. Essa, invero, non distinguerebbe tra società di capitali e società di persone, uniformando invece lo status dei soci dell'una e dell'altra. A tale riguardo, basterebbe considerare che nella parte in cui la citata disposizione stabilisce che la partecipazione alle società di cui all'art. 7 è incompatibile, tra l'altro, con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico o privato, essa ricomprende altresì le società di capitali, senza distinzione alcuna con le società di persone. Stando così le cose, le tipizzate incompatibilità si riferirebbero non solo alla partecipazione a tutti i tipi sociali ammessi dalla disciplina in commento, ma anche a tutti i soci di tali società.

La Corte costituzionale è giunta per dissipare ogni perplessità, acquietando così il dibattito degli esperti. Secondo la Consulta, la questione non è fondata per erroneità della interpretazione della norma denunciata. Questa tesi poggia le proprie fondamenta su di un'interpretazione sia letterale che sistematica delle disposizioni di cui agli artt. 7 e 8 della Legge del 1991.

Sotto il primo profilo, occorre distinguere tra la disposizione che si occupa del rapporto tra titolarità e gestione della farmacia (art. 7), da un lato, e la disposizione che individua le ragioni di incompatibilità rispetto alla gestione societaria (art. 8), dall'altro. Quest'ultima, argomenta il Giudice delle Leggi, riferisce l'incompatibilità ex lettera c), comma 1, al soggetto che gestisca la farmacia. Ciò emerge da una pluralità di fattori: a) la rubrica della disposizione de qua collega la "gestione" alla "incompatibilità"; b) nel caso che una delle ragioni di incompatibilità normativamente date si verifichi in concreto troveranno applicazioni delle sanzioni di natura interdittiva: e queste sono per loro natura applicabili solamente al socio che sia fattivamente coinvolto nella gestione della farmacia; c) in caso di successione mortis causa ovvero per atto inter vivos nella titolarità di una quota del capitale sociale, l'avente causa è obbligato alla cessione della quota soltanto se egli incorra nelle incompatibilità relative a "qualsiasi altra attività svolta nel settore della produzione e informazione scientifica del farmaco, nonché all'esercizio della professione medica". Nella eventualità, invece, della titolarità di un rapporto di lavoro, pubblico o privato, nulla osterebbe alla permanenza nella società.

Quanto alla disposizione di cui all'art. 7 della Legge n. 362 del 1991, come modificato dalla novella del 2017, se è vero che essa riferisce la previsione per cui la partecipazione alle società di gestione di farmacie è incompatibile con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico o privato anche ai soci di società di capitali, men vero non è tuttavia che tale riferimento è subordinato alla condizione che ciò risulti "compatibile" con il ruolo rivestito nella società stessa. Da qui, se la specifica incompatibilità di cui alla lettera c), comma 1, è legata ad un ruolo gestorio della farmacia, essa non può riguardare quelli fra i soci che un tale ruolo non ricoprano all'interno della società.

Sotto il secondo profilo, quello insomma sistematico, occorre rilevare che la causa di incompatibilità relativa a qualsiasi rapporto di lavoro pubblico o privato non è affatto conciliabile con il nuovo modello organizzativo introdotto dalla riforma del 2017. Questa, invero, nelle parole della Corte, "segna il definitivo passaggio da una impostazione professionale-tecnica della titolarità e gestione delle farmacie ad una impostazione economico-commerciale". Ciò è testimoniato dalla possibilità che oggi anche le società di capitali acquistino la titolarità di una farmacia; e dal momento che siffatti moduli organizzativi ammettono la partecipazione altresì di soci che nulla abbiano a che fare con la gestione della società, è certamente consentito che vi partecipino soggetti che non sono farmacisti iscritti all'albo, spinti dunque da meri interessi di lucro. Da qui, in definitiva, l'infondatezza della questione in relazione a tutti i parametri evocati.

La Corte costituzionale, in definitiva, rigetta la questione di costituzionalità evocata dal collegio arbitrale nel giudizio a quo per erroneità della interpretazione della norma denunciata.





NOTE
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[1] Amalfitano Chiara, "Il rapporto tra rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia e rimessione alla Consulta e tra disapplicazione e rimessione alla luce della giurisprudenza "comunitaria" e costituzionale", in Rivista Associazione Italiana dei Costituzionalisti (AIC), n? 1 del 2020, pp. 295-307.

[2] Cfr. in argomento, Nicoloso, Il sistema farmacia, Milano, 2001; P. GUIDA, L'oggetto sociale della società di gestione di farmacia e riflessi notarili, in Studi e materiali, 2009, 1084 ss.





















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