Vademecum sul garante nel sovraindebitamento (e la regola dell'accessorietà della garanzia) e l'imprenditore cessato o cancellato (con debiti misti)
Pubblicato il 20/11/23 19:33 [Articolo 2132]






A quali procedure può accedere l’imprenditore cessato? E l’imprenditore cancellato? Possono essi, se ex-imprenditori, essere considerati consumatori, anche se hanno debiti della precedente impresa non pagati (ed eventualmente anche debiti personali)?

Gli stessi quesiti si pongono per l’ex-professionista e i debiti professionali.

Il tema si interseca con quello della presenza di debiti misti (d’impresa e personali) e delle procedure accessibili in tal caso e coinvolge pure quello della procedura utilizzabile dal garante.

Occorre muovere però da quest’ultimo argomento.

Tratto comune a tutti questi casi, infatti, è verificare se, per scegliere lo strumento adatto per comporre la crisi, occorra aver riguardo alla natura dell’obbligazione (criterio oggettivo) oppure alla qualità personale del debitore (criterio soggettivo).

Quale procedura può utilizzare il garante: quella che gli compete in base al suo status personale (di imprenditore, professionista o consumatore) o la stessa che compete al debitore principale garantito?

Perciò, in tale ultimo caso, se il garantito è un consumatore, anche il garante può presentare un piano di ristrutturazione dei debiti; se invece il garantito è un imprenditore o un professionista, il garante è obbligato a presentare un concordato minore, pur essendo lui stesso un consumatore (ad es. il lavoratore dipendente o la casalinga coniuge dell’imprenditore garantito).

Sotto un profilo più tecnico, sono praticabili in astratto due criteri discretivi: a) quello della natura dell’obbligazione, basato sull’accessorietà della garanzia: per stabilire quale strumento di risoluzione della crisi usare, bisogna vedere la tipologia di obbligazioni coinvolte nel risanamento, per cui le obbligazioni di impresa o professionali (del garantito) richiedono (per entrambi) il concordato minore (o la liquidazione controllata), le obbligazioni solo personali (del garantito) consentono invece (per entrambi) la ristrutturazione dei debiti del consumatore, proprio per la natura accessoria dell’obbligazione di garanzia, in virtù della quale l’obbligazione del garante segue le vicende dell’obbligazione garantita (v. ad es. gli artt. 1939, 1941, 1945 e 1952, co. 2, c.c.); b) quello basato sull’intuitus personae, in base al quale lo strumento di risoluzione della crisi in concreto applicabile dipende solo dalla qualità personale del soggetto sovraindebitato, e ciò a prescindere dalla natura dell’obbligazione garantita, o, al di fuori di un rapporto di garanzia, a prescindere comunque dalla natura dell’obbligazione (ad es. l’ex-imprenditore potrebbe proporre un piano di ristrutturazione dei debiti anche se fossero - solo o anche - quelli sorti durante l’esercizio dell’impresa dismessa).

La giurisprudenza aveva in origine optato, nell’ambito del rapporto di garanzia, per il primo criterio squisitamente oggettivo dell’accessorietà e della natura dell’obbligazione (v. Trib. Treviso 21 dicembre 2016; Cass. 22 gennaio 2019 n. 1691), mutuando l’orientamento della giurisprudenza comunitaria in materia di codice di consumo, che riteneva applicabile la tutela approntata da quest’ultimo al garante del consumatore, in virtù dell’accessorietà della garanzia, ma non al garante dell’imprenditore (quand’anche il garante fosse un consumatore) (Corte di Giustizia 18 marzo 1998 in causa c-45/96).

La Corte di Giustizia ebbe tuttavia in seguito a mutare orientamento, ritenendo che la tutela del codice di consumo doveva essere riconosciuta al consumatore intuitus personae, a prescindere dalla natura dell’obbligazione garantita e dalla qualità personale del garantito (che può anche essere un imprenditore, dunque confinando all’area dell’irrilevanza il parametro della natura della obbligazione (Corte di Giustizia 19 novembre 2015 nel caso c-74/15 e 14 settembre 2016 nel caso c-534/2015).

Questo si spiega, ed è condivisibile, perché in materia di codice di consumo si tratta di proteggere il contraente debole (nel rapporto con il produttore/commerciante), che è sempre il consumatore; dunque, correttamente viene utilizzato il criterio dell’intuitus personae per applicare il codice di consumo.

Nell’ambito del sovraindebitamento, invece, non esiste, sotto questo profilo, un problema di tutela di un soggetto debole, trattandosi bensì di scegliere lo strumento più adatto a regolare una crisi di un certo tipo, che va individuata in base al tipo di crisi e non in base al soggetto che la subisce o, se vogliamo, lo stesso soggetto può assumere una qualifica o l’altra a seconda del tipo di crisi (debiti di impresa o professionali ovvero debiti personali).

Successivamente anche la Giurisprudenza interna si è adeguata a quella comunitaria, mutando orientamento in favore del criterio soggettivo personale (intuitus personae) e a scapito di quello della natura dell’obbligazione (v. Trib. Padova 27 giugno 2018).

In particolare, Cass. 16 gennaio 2020 n. 742, con riferimento alla garanzia prestata da un non imprenditore in favore di un imprenditore, ha affermato, in modo prima facie persuasivo, che l’accessorietà della garanzia non può avere il potere di trasformare il garante in un imprenditore, cioè il primo in un replicante del secondo (tesi del professionista c.d. di riflesso), sicché ha ritenuto consumatore il fideiussore dell’imprenditore sulla base della sua qualità personale non riflessa (cfr. anche, a favore dell’intuitus personae, Cass. 8 maggio 2020 n. 8662 e Cass. SS.UU. 27 febbraio 2023 n. 5868).

In realtà, il tema dirimente non è chi sia il soggetto debitore (la qual cosa è rilevante con riferimento al codice di consumo, ma non lo è nell’ambito del sovraindebitamento), ma quali tipologie di debiti egli debba regolare.

La Cassazione è oggi attestata in argomento, per un verso, sul criterio soggettivo (intuitus personae) (Cass. ult. cit.), ma per un altro verso, interpellata ex art. 363-bis c.p.c., su una questione preliminare posta dal Tribunale di Firenze circa una situazione di debitoria mista (debiti di impresa e debiti personali), ha ribadito (in scia a Cass. 1° febbraio 2016 n. 1869) che è sempre dirimente il criterio della natura dell’obbligazione (Cass. 26 luglio 2023 n. 22699), per cui l’ex-imprenditore o ex-professionista con debiti lavorativi inestinti non potranno mai proporre un piano di ristrutturazione dei debiti, ma solo l’apertura della liquidazione controllata, in base alla natura delle obbligazioni (che restano pur sempre imprenditoriali o professionali anche dopo la cessazione dell’attività).

Ed è stata questa, infatti, la scelta operata dal Legislatore, con l’art. 2, co. 1, lett. e), CCII, ove si dice che è consumatore colui che “agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigiana o professionale eventualmente svolta, anche se socia di una delle società appartenenti ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile, per i debiti estranei a quelli sociali.” e con l’art. 66, co. 1, CCII, ove si afferma che “I membri della stessa famiglia possono presentare un unico progetto di risoluzione della crisi da sovraindebitamento quando sono conviventi o quando il sovraindebitamento ha un’origine comune. Quando uno dei debitori non è un consumatore, al progetto unitario si applicano le disposizioni della sezione III del presente capo.”, cioè il concordato minore: un solo debito di impresa o professionale di uno solo dei componenti il nucleo familiare o di coloro il cui debito ha un’origine comune (garante e garantito) vincola tutti al medesimo strumento concordatario, precludendo l’uso del piano di ristrutturazione dei debiti per tutti, anche se tutti gli altri non sono né imprenditori né professionisti.

Conta dunque la natura dell’obbligazione.

Ecco perché, con una situazione di debitoria mista (che è anche il caso dell’ex-imprenditore), questi non potrà mai considerarsi consumatore, in ragione della natura delle obbligazioni di impresa rimaste inadempiute.

Lo stesso vale per il debitore professionista.

Un discorso a parte può essere fatto invece per il debito fiscale, comunque prodottosi, dunque anche nell’ambito di un’attività d’impresa, propria o altrui (della società di cui il debitore era od è socio), cessata o meno.

Il debito fiscale, una volta generato (anche se in occasione di un’attività imprenditoriale o professionale, propria o altrui (di una società), è assorbito nel rapporto tributario con il fisco, che è un rapporto personale complesso, in cui l’obbligazione è dovuta a causa dell’obbligo di contribuzione alla spesa pubblica che grava su ciascun soggetto, a prescindere dall’origine dell’obbligazione stessa.

Il rapporto tributario di diritto pubblico è cioè causa giustificatrice ultima dell’obbligo contributivo gravante sul soggetto, che ha quindi, in ultima analisi, sempre natura personale.

Per questa ragione, l’imprenditore o il professionista, a maggior ragione se ex, e quindi attualmente consumatori, possono presentare un piano di ristrutturazione dei debiti che comprenda, in via esclusiva o non, debiti fiscali (propri o della società) rimasti a loro carico, ma non debiti di impresa o professionali (per i quali occorre il concordato minore).

Tornando ai debiti di impresa o professionali rimasti inestinti dopo la cessazione dell’attività, viene in rilievo la disciplina di cui all’art. 33, co. 1 e 4[1], CCII, da leggere in ottica sistematica con gli artt. 74, co. 1 e 2[2], e 271, co. 1 e 2[3], CCII.

Ne discende la seguente lettura complessiva.

L’art. 33 riguarda esclusivamente gli ex-imprenditori o ex-professionisti, visto che fa riferimento alla “cessazione dell’attività” (primo comma) e alla cancellazione dal registro delle imprese (quarto comma), situazioni entrambe che possono verificarsi soltanto per gli imprenditori e i professionisti, ma non per il consumatore.

Entro un anno dalla cessazione dell’attività (che può coincidere, ma non necessariamente, con la cancellazione dal registro delle imprese), un creditore può chiedere l’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del suo debitore, che si può difendere chiedendo l’apertura di una procedura alternativa e costringendo il creditore ad attenderne l’esito, fino alla sua definizione (art. 7, co. 2[4], CCII); una norma del genere (art. 33, co. 1, CCII)) non è però prevista per la liquidazione controllata, ma è fuori di ogni ragionevole dubbio che si tratti di situazioni analoghe, diverse solo per quantità di soglia (ex art. 2, co. 1, lett. d), che non possono certo essere trattate così diversamente, a pena di incostituzionalità ex art. 3 Cost., non ravvisandosi alcuna ragione per limitare ad un anno l’iniziativa creditoria nei confronti del debitore sopra soglia e lasciare invece che si dispieghi senza limiti di tempo l’iniziativa dei creditori nei confronti del debitore sotto soglia, che rimarrebbe esposto per sempre a tale incerta eventualità.

Dunque, altro punto fermo, il creditore può chiedere l’apertura della liquidazione controllata nei confronti del proprio debitore insolvente (se il passivo supera € 50.000,00, ex art. 268, co. 2, CCII), soltanto entro un anno dalla cessazione dell’impresa o dell’attività professionale (per analogia ex art. 33, co. 1, CCII), mentre non incontra questo limite temporale il creditore del consumatore insolvente con un passivo superiore ad € 50.000,00, perché non è riscontrabile per tale figura la cessazione dell’attività.

Peraltro, anche il debitore (consumatore o non) che voglia chiedere l’apertura della liquidazione controllata può farlo senza limiti di tempo, se è in stato di crisi o insolvente (art. 2, co. 1, lett. c, CCII), e senza il limite del passivo di € 50.000,00, che vale solo per i creditori istanti.

La norma di cui all’art. 33, co. 1, CCII, ha invero natura difensiva ed opera alla stregua di un’eccezione, che il debitore è onerato di proporre per evitare le iniziative ultrannuali (dalla cessazione dell’attività professionale o d’impresa) dei suoi creditori, ma nulla vieta che egli rinunci a far valere l’eccezione (aderendo alla domanda ultrannuale altrui o) chiedendo direttamente oltre l’anno l’apertura della liquidazione controllata.

Quel che il debitore non può fare d’iniziativa, invece, anche prima che sia decorso un anno dalla cessazione della sua attività, nel caso in cui abbia chiesto anche la cancellazione dal registro delle imprese, è proporre un concordato minore, essendogli precluso dall’art. 33, co. 4, CCII, la qual cosa però potrebbe far pensare ad una illegittima disparità di trattamento tra il debitore (imprenditore o professionista) cessato, ma non cancellato, il quale, attinto entro l’anno da un’istanza di apertura della liquidazione controllata, potrebbe proporre in alternativa un concordato minore liquidatorio e il debitore cancellato, a cui ciò sarebbe precluso ex lege.

Ad evitare l’eccezione di incostituzionalità (e per giustificare il diverso trattamento), si potrebbe ritenere che la norma in questione abbia natura sanzionatoria nei confronti di chi non solo abbia cessato l’attività, ma si sia anche cancellato dal registro delle imprese, scomparendo dal mondo giuridico nonostante la permanenza di debiti inestinti, posto che nei confronti del debitore cessato, ma non cancellato, è ancora possibile agire esecutivamente, ma non così nei confronti di chi si sia anche cancellato.

Questo potrebbe peraltro indurre a ritenere la non applicabilità della preclusione di cui all’art. 33, co. 4, CCII al debitore persona fisica ex-imprenditore che non sia “sparito”, essendo ancora vivo (anche dopo la cancellazione dal registro delle imprese) e responsabile con tutto il suo patrimonio, nei cui confronti non ha mai operato alcuna limitazione di responsabilità, e non avendo la cancellazione avuto per lui alcun effetto estintivo (cfr. Trib. Ancona 21 gennaio 2023, IlCaso.it, 2023, 28577), come avviene per le società, per le quali soltanto avrebbe senso la sanzione dell’inammissibilità del concordato, non operante invece per le società cessate, ma non cancellate.

Si è affermato[5] che la norma de qua sarebbe la trasposizione di un orientamento formatosi prima del codice della crisi (Cass. 29 febbraio 2020 n. 4329), secondo cui l’imprenditore cancellato dal registro delle imprese non potrebbe accedere al concordato preventivo (né chiedere l’omologazione di un ADR), perché mancherebbe l’impresa da risanare con il concordato stesso[6], orientamento che, tuttavia, non tiene conto del fatto che il concordato può essere anche liquidatorio, e non avere perciò finalità di risanamento.

Sicché, se questo fosse il motivo sostanziale (mancanza dell’impresa da risanare), l’imprenditore cancellato dovrebbe poter comunque proporre un concordato liquidatorio senza limiti di tempo.

In realtà, dovrebbe essere dato rilievo al fatto che nessun concordato può essere proposto da un soggetto che non esiste più, ma allora non si giustificherebbe l’apertura della liquidazione entro un anno, non compensata dalla possibilità difensiva di proporre, entro l’anno, un concordato (maggiore o minore) liquidatorio, anche dovendosi considerare che i concordati comportano sovente una maggior soddisfazione dei creditori per l’apporto di finanza esterna.

Pertanto, se la ragione giustificatrice dell’art. 33, co. 4, CCII fosse la mancanza dell’impresa da risanare, essa non potrebbe valere per il concordato liquidatorio; se invece fosse una norma punitiva di chi è sparito dal mondo giuridico (società cancellata e quindi estinta), non potrebbe comunque valere per la persona fisica.

Ha peraltro natura difensiva e, lato sensu, di eccezione, anche la norma di cui all’art. 271, co. 1, CCII, secondo cui, nel caso di istanza dei creditori, il giudice deve concedere un termine al debitore che glielo chieda, per poter praticare una diversa soluzione della crisi, mercé l’accesso ad una procedura a carattere negoziale, come appunto è il concordato.

Per cui, se un creditore chiede l’apertura della liquidazione controllata di un debitore la cui attività è cessata da meno di un anno, peraltro eventualmente anche cancellato (v. art. 33, co. 4, CCII), il debitore può “parare il colpo” (con norma difensiva) chiedendo un termine per preparare una diversa procedura a carattere negoziale, poniamo un concordato minore liquidatorio (posto che è cessata l’attività).

Questa interpretazione potrebbe indurre alla non applicabilità dell’art. 33, co. 4, CCII entro l’anno dalla cancellazione-cessazione dal registro delle imprese, poiché un creditore può chiedere, entro l’anno dalla cancellazione, l’apertura della liquidazione (comma 1) e il debitore dovrebbe poter chiedere, come alternativa, una diversa procedura negoziale, ivi compreso il concordato minore (sia pure liquidatorio).

Dando, invece, rilievo alla tesi della natura sanzionatoria della norma di cui all’art. 33, co. 4, CCII, il creditore può chiedere entro un anno dalla cancellazione l’apertura della liquidazione controllata, ma il debitore cancellato invece non potrà giovarsi del disposto di cui all’art. 271, co. 1, CCII, che gli consentirebbe di chiedere un termine per avviare il concordato minore, comunque ad eccezione del debitore persona fisica, nei cui confronti questa sanzione non avrebbe ragione di operare, perché il soggetto è ancora esistente e pur sempre in grado di proporre un concordato minore liquidatorio.

In ogni caso, oltre l’anno dalla cessazione (o anche cancellazione), soltanto il debitore potrebbe chiedere l’apertura della procedura di liquidazione controllata.

In conclusione, secondo un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata, anche nel rispetto del diritto sovranazionale (Direttiva Insolvency n. 1023 del 20 giugno 2019:

A) entro l’anno dalla cessazione dell’attività:

la società non cancellata (quindi ancora esistente) o la persona fisica (cancellata o meno) possono opporre al creditore istante per l’apertura della liquidazione controllata la richiesta di un termine per proporre un concordato minore liquidatorio;

la società cancellata (non più esistente) non può proporre alcun concordato, ma subisce (o anche può chiedere, visto che possono farlo i suoi creditori) la liquidazione controllata;

la persona fisica può proporre d’iniziativa un concordato liquidatorio o chiedere (o subire) la liquidazione controllata;

B) oltre l’anno dalla cessazione dell’attività:

i creditori non possono più chiedere l’apertura della liquidazione controllata del loro debitore;

il debitore persona fisica (ex-imprenditore o ex-professionista, anche se cancellato) può sempre chiedere l’apertura della liquidazione controllata o proporre un concordato minore liquidatorio[7];

la società non cancellata può proporre un concordato minore liquidatorio o chiedere l’apertura della liquidazione controllata;

la società cancellata non può più proporre il concordato minore, e neppure può chiedere la liquidazione controllata, perché non esiste più come soggetto (e manca la finestra temporale di un anno per l’apertura della liquidazione, consentita ai creditori e giocoforza anche alla società) e questo vale sia per il concordato in continuità (come sembra evidente da Cass. 20 febbraio 2020 n. 4329 e da Cass. 26 luglio 2023 n. 22699), sia per il concordato liquidatorio, mancando comunque il centro di imputazione giuridica del medesimo.

Fuori dei casi di cessazione dell’attività (per mancanza di quest’ultima) non trova invece applicazione l’art. 33 CCII, per cui la persona fisica consumatore può sempre chiedere (o subire) l’apertura della liquidazione controllata, o proporre (direttamente o in alternativa alla liquidazione) un piano per la ristrutturazione dei debiti del consumatore.

Una diversa interpretazione, tale per cui fossero ristrette le concrete possibilità del debitore di ristrutturazione del passivo per mezzo di uno strumento di natura negoziale, potrebbe invero confliggere con l’art. 9 della Direttiva Insolvency n. 1023 del 2019, secondo cui i debitori hanno “il diritto di presentare piani di ristrutturazione”, diritto che trova attuazione, peraltro, anche negli artt. 7, co. 2, e 271, CCII, in cui è chiara la prevalenza data dal Legislatore nazionale alle procedure negoziali rispetto a quelle liquidatorie.

Per vero, da Cass. 20 febbraio 2020 n. 4329 fino all’art. 33, co. 4, CCII (che ne ha recepito il decisum), passando per la Relazione al Codice della crisi, sembra essersi consolidato un errore di prospettiva, che porterebbe ad applicare l’art. 2495 c.c., pensato per le società, alle imprese individuali e alla persona fisica, che però non si estingue con la cancellazione dal registro delle imprese, negandole il diritto (come previsto dalla Direttiva Insolvency) a proporre un concordato liquidatorio, quando le argomentazioni utilizzate da Cass. n. 4329/2020 (insussistenza dell’impresa da risanare), esplicitamente recepite dall’art. 33, co. 4, CCII, sembrano senz’altro attagliarsi al concordato in continuità, ma non certo alla persona fisica (che non si estingue con la cancellazione dal registro delle imprese) e neppure al concordato liquidatorio (V. Trib. Vicenza 14 novembre 2023, IlCaso.it, 2023, doc. 12619).

 


[1] 1. La liquidazione giudiziale può essere aperta entro un anno dalla cessazione dell'attività del debitore, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo. (…) 4. La domanda di accesso alla procedura di concordato minore, di concordato preventivo o di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti presentata dall'imprenditore cancellato dal registro delle imprese è inammissibile.

[2] 1. I debitori di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c), in stato di sovraindebitamento, escluso il consumatore, possono formulare ai creditori una proposta di concordato minore, quando consente di proseguire l’attività imprenditoriale o professionale. 2. Fuori dai casi previsti dal comma 1, il concordato minore può essere proposto esclusivamente quando e? previsto l’apporto di risorse esterne che aumentino in misura apprezzabile la soddisfazione dei creditori.

[3] 1. Se la domanda di liquidazione controllata è proposta dai creditori o dal pubblico ministero e il debitore chiede l’accesso a una procedura di cui al capo II del titolo IV, il giudice concede un termine per l’integrazione della domanda. 2. Nella pendenza del termine di cui al comma 1, non può essere dichiarata aperta la liquidazione controllata e la relativa domanda è dichiarata improcedibile quando sia aperta una procedura ai sensi del capo III del titolo IV.

[4] 2. Nel caso di proposizione di piu? domande, il tribunale esamina in via prioritaria quella diretta a regolare la crisi o l’insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale o dalla liquidazione controllata (…).

[5] Così la Relazione al Codice della Crisi, sub art. 33: “Per risolvere una questione che si era posta nel regime attuale, si specifica, poi, che l’imprenditore cancellato dal registro delle imprese non può fare ricorso né al concordato preventivo, né all’accordo di ristrutturazione, con conseguente inammissibilità della domanda presentata.”.

[6] “…l'intervenuta e consapevole scelta di cessare l'attività imprenditoriale, necessario presupposto della cancellazione, preclude "ipso facto" l'utilizzo della procedura concordataria per insussistenza del bene al cui risanamento essa dovrebbe mirare

[7] Art. 74, co. 2, CCII: “il concordato minore [liquidatorio] può essere proposto esclusivamente quando e? previsto l’apporto di risorse esterne che aumentino in misura apprezzabile la soddisfazione dei creditori























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