"La massima armonizzazione": un importante obiettivo della MIFID messo a rischio
Pubblicato il 19/03/09 02:00 [Articolo 643]






1. La MIFID e la massima armonizzazione
La Direttiva 21 aprile 2004, n. 2004/39 (c.d. Direttiva ISD2 o MIFID, Market in Financial Instruments Directive) - entrata in vigore il 30 aprile 2004 - è stata invocata da più parti come la direttiva che trasformerà radicalmente il mercato degli strumenti finanziari.
Tra i principali obiettivi della direttiva medesima vi è la creazione di un mercato europeo integrato dei servizi finanziari, al fine di garantire agli investitori un adeguato livello di protezione permettendo, al contempo, alle imprese di investimento di prestare i propri servizi in tutto il territorio dell'Unione Europea.
Tale obiettivo viene visto dal legislatore comunitario - e a buon ragione - di fondamentale importanza, a tal punto - è forse opportuno ricordare - che nel luglio 2000 il Consiglio dell'Unione Europea ha istituito - proprio allo scopo di rafforzare l'integrazione dei mercati finanziari e di innalzare il livello di armonizzazione della regolamentazione comunitaria in materia - un comitato di saggi (cd. Comitato Lamfalussy in onore del suo presidente, Alexandre Lamfalussy), i cui lavori si sono conclusi nel febbraio 2001 con la pubblicazione di una relazione sulla regolamentazione dei mercati dei valori mobiliari europei (consultabile su http://ec.europa.eu/internal_market/securities/lamfalussy/index_en.htm).
In detta relazione - come noto - il Comitato Lamfalussy ha proposto l'introduzione di nuove tecniche legislative e regolamentari basate su un approccio a quattro livelli e l'istituzione di due comitati incaricati di assistere la Commissione Europea nella formulazione delle proposte relative all'adozione degli atti normativi comunitari.
Secondo tale approccio, quindi, la disciplina comunitaria si articola nei seguenti livelli:
? livello 1: esso corrisponde all'emanazione - da parte del Consiglio e del Parlamento Europeo, su proposta della Commissione - di regolamenti e direttive che prevedono principi-quadro: come ricordato, peraltro, dal 64° considerando della MIFID: "il livello 1 corrisponde alla direttiva, che dovrebbe limitarsi a stabilire principi-quadro";
? livello 2: esso prevede la predisposizione da parte della Commissione Europea di misure tecniche di esecuzione dei principi quadro enunciati al livello 1. La MIFID ha delegato al livello 2 la trattazione di numerose e articolate questioni. A tale livello, quindi, è stato attribuito un rilevante ambito di operatività, entro margini di discrezionalità non sempre contenuti. Si pensi al fatto che, tra l'altro, la Commissione UE può, ai sensi dell'art. 4 par. 2 della MIFID, "chiarire le definizioni (stesse)" rese dalla direttiva, al fine di "tenere conto dell'evoluzione dei mercati finanziari", oltre che di assicurare l'applicazione uniforme delle disposizioni comunitarie;
? livello 3: esso prevede la cooperazione fra le autorità di vigilanza dei mercati finanziari dei singoli Stati membri per assicurare un'omogenea ricezione e applicazione a livello nazionale degli atti normativi adottati ai livelli 1 e 2;
? livello 4: esso prevede (i) la vigilanza da parte della Commissione Europea sull'osservanza della normativa comunitaria, con l'ausilio delle autorità di vigilanza nazionali e delle segnalazioni degli interessati, e (ii) l'avvio - ove necessario - delle procedure di infrazione del diritto comunitario1.
Con le nuove tecniche legislative introdotte si cerca quindi di uniformare completamente la disciplina di settore all'interno dell'Unione Europea nonché di accrescere l'efficienza e la trasparenza del processo di regolamentazione comunitaria, facilitandone l'adeguamento ai rapidi sviluppi delle prassi commerciali in questo ambito.
E la MIFID è appunto il frutto delle prime applicazioni della procedura Lamfalussy. Con l'emanazione della MIFID, infatti, è stata predisposta la regolamentazione generale dei mercati degli strumenti finanziari, riconducibile appunto al livello 1 di detta procedura.
Le misure tecniche di esecuzione - riconducibili al livello 2 - sono invece contenute (i) nella Direttiva n. 2006/73 CE del 10 agosto 2006, che contiene indicazioni in merito alle modalità di esecuzione della MIFID, con particolare riferimento ai requisiti di organizzazione e alle condizioni di esercizio dell'attività delle imprese di investimento; e (ii) nel Regolamento n. 1287/2006 sempre del 10 agosto 2006, recante modalità di esecuzione della MIFID, con particolare riferimento agli obblighi in materia di registrazioni per le imprese di investimento, alla comunicazione delle operazioni, alla trasparenza del mercato, e all'ammissione degli strumenti finanziari alla negoziazione.
In seguito, con il D.Lgs. 17 settembre 2007, n. 164 - che è entrato in vigore l'1 novembre 2007 - l'Italia ha quindi recepito la Direttiva MIFID, apportando conseguentemente le relative modifiche al TUIF. Il processo di trasposizione nazionale delle fonti comunitarie è continuato poi, in data 29 ottobre 2007, con l'adozione da parte della Consob del Regolamento Intermediari n. 16190 e del Regolamento Mercati n. 16191 nonché, unitamente alla Banca d'Italia, del Regolamento in materia di organizzazione e procedure degli intermediari che prestano servizi di investimento o di gestione collettiva del risparmio.
Alla luce dello schema delle fonti comunitarie sopra tratteggiato, emerge chiaramente che la disciplina europea - oltre a svolgere ormai un ruolo centrale nel regolamentare i mercati degli strumenti finanziari - è chiaramente indirizzata a voler ridurre al minimo il rischio di frammentazione del quadro normativo europeo in materia di mercati finanziari.
Si dovrebbe garantire in questo modo inter alia un'effettiva parità di trattamento alle imprese di investimento in tutti gli Stati dell'Unione Europea.
Da ciò consegue una chiara tendenza alla armonizzazione generale delle regole di condotta degli intermediari nello svolgimento dei servizi di investimento, tale da non lasciare al legislatore nazionale (e alle autorità di vigilanza nazionali) margini per soluzioni diverse o più stringenti. Si può dire, quindi, che agli ordinamenti nazionali dovrebbero residuare solo taluni ambiti di discrezionalità linguistica per la relativa "traduzione", più che effettivi margini di scelta degli strumenti per raggiungere gli obiettivi delineati dalla disciplina comunitaria.

2. La mancanza di sanzioni espresse e il rischio della frammentazione della disciplina
In questo contesto, tuttavia, è importante sollevare quantomeno un dubbio in relazione all'effettiva possibilità di raggiungere la massima armonizzazione della disciplina di settore.
Tale obiettivo, infatti, potrebbe essere posto seriamente a rischio, tra l'altro, anche dalla scelta del legislatore comunitario - del resto sul punto preceduto dal legislatore nazionale - di non prevedere il tipo di sanzioni che sarebbero conseguenti alla violazione delle regole di comportamento delineate dalla MIFID.
Con la conseguenza che tutto l'impegno profuso dal legislatore comunitario - sopra accennato sinteticamente - per raggiungere la massima armonizzazione potrebbe risultare vano.
D'altra parte, è opportuno rilevare che tutta la normativa comunitaria di settore potrebbe acquisire un significato concreto e tutelare realmente l'interesse degli investitori e del mercato soltanto se l'ordinamento medesimo considerasse tale normativa alla stregua di un adeguato apparato rimediale.
Aderendo all'antico brocardo ubi jus ibi rimedium2, il legislatore comunitario avrebbe dovuto muovere dal piano dell'enunciazione dei principi fino a spingersi al piano dell'effettività delle soluzioni offerte.
Tale approccio quindi avrebbe avuto il doppio vantaggio (i) di palesare le conseguenze negative derivanti dalla violazione delle norme di comportamento, ma anche e soprattutto (ii) di assicurare alla disciplina di settore quella effettiva applicazione uniforme - a tutto tondo - all'interno dell'Unione Europea.
La MIFID invece - e con essa le norme di livello 2 - non avendo previsto alcunché al riguardo ha lasciato piena libertà, se non direttamente al legislatore nazionale, inevitabilmente ai giudici nazionali, chiamati a decidere sulle istanze degli investitori che si dovessero ritenere danneggiati.
Ciò comporterà con molta probabilità che la Giurisprudenza dei singoli Stati membri sarà differente l'una dall'altra, in base alle rispettive tradizioni giuridiche, con il risultato - contrario agli obiettivi di massima armonizzazione - che in realtà vi sarà una forte frammentazione della normativa concretamente in vigore all'interno dell'Unione Europea.
In assenza di sanzioni previste espressamente dalla disciplina comunitaria vigente, infatti, i giudici dei singoli Stati membri saranno portati a prevedere proprie e specifiche sanzioni derivanti, come detto, dalle proprie tradizioni giuridiche.
I giudici quindi potranno prevedere, ad esempio, la nullità o l'annullabilità dei contratti di investimento piuttosto che la risoluzione dei contratti medesimi o solo il risarcimento dei danni, come differenti conseguenze della violazione delle norme di comportamento.
Il rischio della frammentazione del quadro normativo europeo in materia di servizi di investimento è, quindi, dietro l'angolo anche per questa ragione.
A dimostrazione della concreta esistenza di tale rischio è forse opportuno dare un rapido sguardo alla disputa a livello giurisprudenziale che negli anni si è svolta all'interno del solo territorio italiano.
Analizzando il gran numero di pronunce giurisprudenziali sull'argomento, sono stati individuati - in assenza di una espressa previsione legislativa in tal senso - diversi rimedi alla violazione delle regole di condotta che vanno appunto da quelli tipicamente restitutori (nullità, annullamento e risoluzione del contratto) a quelli risarcitori.
Inizialmente la giurisprudenza aveva fatto ricorso al rimedio più radicale tra tutti, ovvero quello della nullità, con l'intento di tutelare al massimo l'investitore-risparmiatore (v. ex plurimis Tribunale di Mantova, 27.4.2004, in Foro it., 2005, I, 3047).
Tuttavia, successivamente, la Corte di Cassazione - prima con la sentenza n. 19024 del 2005 e, più di recente, con due sentenze delle Sezioni Unite del 2007 (nn. 26724 e 26725) - ha fatto registrare un'inversione di tendenza, sottolineando la propria preferenza per il rimedio del risarcimento del danno ed argomentando diffusamente contro la possibilità di ricorrere al rimedio della nullità (cfr. Cass. 19 dicembre 2007, n. 26724, in Corr. Giur., 2008, 2, 223). In particolare, la Corte di legittimità ha svolto la tradizionale distinzione tra regole di validità e regole di comportamento, precisando che la nullità si ricollegherebbe alla violazione di regole che attengono al momento genetico del contratto, laddove nel caso di violazione delle regole comportamentali - come è la violazione degli obblighi informativi - dovrebbe invece parlarsi di un vizio funzionale che accede ad un contratto valido ed efficace.
Da tale impostazione consegue che un rimedio possibile sarebbe il risarcimento del danno (ed eventualmente anche la risoluzione dello stesso ex artt. 1453 e ss. c.c.), senza escludere in ogni caso nemmeno l'ipotesi dell'annullamento del contratto medesimo (i) per vizi del consenso, quali l'errore o il dolo, ai sensi degli artt. 1427 e ss. c.c. oppure - ove naturalmente ricorrano i presupposti - (ii) per l'esistenza di un conflitto di interessi ai sensi degli artt. 1394 o 1395 c.c..
Dalla sintetica panoramica di rimedi sopra prospettati, e ricavabili da differenti orientamenti della sola giurisprudenza italiana, si può comprendere chiaramente come dalla specifica soluzione rimediale accolta dai singoli giudici nazionali possano derivare specifiche e differenti conseguenze - non certo di poco conto - in ordine alle domande proponibili e ai danni risarcibili. Venendosi così a delineare anche un quadro normativo concretamente applicabile piuttosto frammentato. Ed infatti:
- la sanzione della nullità, per le ipotesi di mancata osservanza di determinati obblighi di comportamento, sembra diretta ad attribuire la massima protezione al contraente a favore del quale quegli obblighi siano imposti. Difatti, l'estrema rigidità della disciplina della nullità, la sua indisponibilità, l'imprescrittibilità dell'azione appaiono prima facie una barriera insormontabile e ben difficile da aggirare ove si pensi all'inammissibilità di rinunce preventive e comunque al meccanismo di chiusura contro ogni altro mezzo utilizzabile, costituito dalla nullità per frode alla legge. A ciò si aggiunga, da altra prospettiva, che per l'attore-investitore è enormemente più agevole e sicuro perseguire (e per il giudicante è meno faticoso emettere) una condanna a restituire una somma già predefinita, piuttosto che risarcire una somma ancora da definire. Analogamente risulta evidente come la tecnica della invalidazione del contratto di investimento finisca per rappresentare uno stratagemma per semplificare la posizione del cliente-investitore nei confronti dell'impresa di investimento, in quanto supera le difficoltà probatorie connesse al danno e al nesso di causalità, sostituendovi un ben definito diritto alla restituzione delle prestazioni già eseguite, idoneo a procurare la soddisfazione del cliente medesimo. Da queste brevi riflessioni emerge chiaramente che una giurisprudenza tendente alla nullità dei contratti di investimento porta a configurare un quadro della normativa di settore particolarmente favorevole al cliente-investitore e sicuramente meno all'impresa di investimento;
- diversamente dalla nullità, il differente rimedio del risarcimento del danno invece produce tendenzialmente un notevole aggravio degli oneri facenti capo alla cd. "parte debole" del rapporto contrattuale. Al riguardo, si pensi all'onere, che grava appunto su chi intenda far valere l'inadempimento, di provare il danno effettivamente subito quale conseguenza della violazione delle norme di condotta. Sul punto occorrerebbe poi distinguere anche a seconda che la responsabilità sia di tipo contrattuale piuttosto che precontrattuale, dal momento che nella prima ipotesi il danno risarcibile è soltanto quello prevedibile ai sensi dell'art. 1225 c.c., mentre nella seconda ipotesi la giurisprudenza ritiene risarcibile il danno nei limiti del solo interesse contrattuale negativo. Al rimedio risarcitorio possono essere affiancati anche quelli volti ad ottenere lo scioglimento del vincolo contrattuale e così la ripetizione dell'intera prestazione adempiuta: il soggetto che doveva ricevere l'informazione, ad esempio, potrà sempre dimostrare - a seconda dei casi - (i) che l'inadempimento è grave o (ii) che l'omessa informazione costituiva dolo o ha causato un errore tale da rendere annullabile il contratto o, infine, (iii) che l'intermediario finanziario era in conflitto di interessi. Ovviamente, in tali ipotesi, (i) il requisito della gravità dell'inadempimento (art. 1455 c.c.), (ii) la circostanza che il dolo debba essere determinante (art. 1439 c.c.) o che l'errore debba essere essenziale e riconoscibile dall'altro contraente (art. 1428 c.c.) oppure, infine, (iii) il presupposto che il conflitto di interessi debba essere conosciuto o conoscibile dal terzo e che gli interessi in questione siano realmente incompatibili (art. 1394 c.c.) o che non vi sia stata l'autorizzazione del cliente-investitore (art. 1395 c.c.) opereranno da limitazione alla possibilità di ottenere in restituzione l'intera prestazione, dal momento che questa sarà ripetibile solo quando la violazione delle norme di comportamento assuma connotati di maggior rilievo, risultando cioè idonea alla pronuncia di risoluzione o di annullamento.
Sulla scorta di quanto sopra dedotto consegue chiaramente, quindi, che - in mancanza della espressa previsione di sanzioni per la violazione delle regole di comportamento in materia di servizi di investimento - i giudici chiamati a dirimere le controversie possono applicare rimedi differenti tra loro. Con la conseguenza, quindi, che nella sostanza vi possono essere tante differenti discipline quante sono i differenti orientamenti dei giudici.
Tali frammentazioni normative possono a maggior ragione verificarsi in ambito europeo, in cui i giudici dei singoli Stati membri hanno differenti tradizioni giuridiche e, di conseguenza, differenti modi di affrontare e decidere singole fattispecie.
Di talché si potranno individuare singoli Stati membri in cui la normativa di fatto sarà più severa e Stati, invece, in cui lo sarà di meno, con buona pace dell'uniformità di regole.
È evidente, quindi, che in questa situazione le imprese di investimento, nello scegliere il proprio mercato di riferimento all'interno dell'Unione Europea, terranno in forte considerazione anche l'orientamento giurisprudenziale sviluppatosi all'interno di ogni singolo Stato membro, privilegiando quegli Stati con una giurisprudenza (e quindi con una normativa sostanziale) più favorevoli.
Non si esclude quindi la nascita di una certa competitività tra Stati membri per attirare gli operatori finanziari nel proprio mercato, pur rimanendo tutti teoricamente sotto il "cappello" della MIFID.
In questo contesto, con molta probabilità sarebbe stato opportuno - ed invero lo sarebbe tutt'ora - un intervento diretto del legislatore comunitario tramite una norma che stabilisca, con certezza, quale sia il rimedio esperibile in caso di mancato rispetto delle regole di comportamento degli intermediari finanziari.
Diversamente, si dovrebbe forse ipotizzare - al fine di garantire la massima armonizzazione della disciplina di settore all'interno dell'Unione Europea - un costante e continuo coordinamento tra tutti i giudici dei singoli Stati membri?










1) Cfr. BAGLIONI, Verso il mercato finanziario unico in Europa, in www.assbb.it.
2) La norma di diritto positivo dovrebbe essere necessariamente connessa con la sanzione posta per il caso di sua violazione, cfr. KELSEN, La dottrina pura del diritto, Torino, 1952, p. 95.






















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