Sommario: 1. Imprenditore occulto ed abuso della personalità giuridica; - 2. L'estensione di fallimento "da responsabilità patrimoniale" e l'autonomo fallimento "da responsabilità risarcitoria"; - 3. La partecipazione di società di persone a società di capitali; - 4. segue. L'orientamento della Cassazione; - 5. La supersocietà affetta da nullità è pur sempre una supersocietà in liquidazione che è venuta ad esistenza; - 6. Abuso della personalità giuridica ed affectio societatis.
1. Imprenditore occulto ed abuso della personalità giuridica
Una recente sentenza della Suprema Corte è intervenuta sul tradizionale fronte della Supersocietà di fatto, riaperto ormai da un decennio1 a seguito delle novelle al codice civile ed alla legge fallimentare2. Si tratta di un tema classico del diritto commerciale che tuttavia più di ogni altro riflette la profonda evoluzione del sistema prodotta anche (e non solo) dalle riforme. L'ambito di riferimento è quello del c.d. imprenditore occulto, ovvero dell'ampia e diversificata casistica in cui un imprenditore, individuale o collettivo, domina una o più società di capitali 3, per abusare della personalità giuridica e della responsabilità limitata.
Tullio Ascarelli nei suoi saggi, diretti a confutare la teoria dell'imprenditore occulto di Walter Bigiavi, scriveva più di mezzo secolo orsono che «non è possibile imputare un'attività indipendentemente dall'imputazione degli atti che la integrano e non è perciò possibile qualificare un soggetto in funzione dell'attività compiuta da un altro ..La "spendita del nome" non è affatto un requisito che si possa aggiungere o non aggiungere agli altri necessari per qualificare l'imprenditore, .essa invero si identifica con la imputabilità a un soggetto degli atti nei quali si concreta l'attività imprenditrice .l'art. 2082 riporta l'attribuzione della qualifica dell'imprenditore innanzi tutto all'esercizio di un'attività che a sua volta si traduce in una serie di atti»4.
L'impostazione era evidentemente diretta a dimostrare che non esiste nell'ordinamento un criterio di imputazione sostanziale della responsabilità degli atti di impresa e quindi dell'attività di impresa, diverso da quello formale della spendita del nome, salvo che non si tratti del committente che, aggiunge Ascarelli, è «sicuramente imprenditore ed imprenditore in nome proprio e quand'anche la sua impresa si svolga solo attraverso commissionari come imprenditore il committente è soggetto al fallimento; come committente è responsabile a sua volta nei confronti del commissionario per i debiti da questi contratti per suo conto. Fallendo il commissionario, il committente sarà responsabile verso di questi e, in quanto ne ricorrano i presupposti, potrà venir dichiarato a sua volta il fallimento »5.
Tuttavia, il totem della imputazione formale degli atti d'impresa e della spendita del nome nelle more ha dovuto fare i conti con la progressiva affermazione del ruolo della informazione nel diritto commerciale e della tendenza a tutelare nel mercato non solo i creditori involontari6 ma anche quelli non adeguatamente informati, in una logica diversa dal vecchio "incolpevole affidamento"7. D'altra parte già nel 1877 il celebre giureconsulto inglese sir George Jessel scriveva «non vedo la ragione per cui le persone non possano gestire affari liberi da ogni responsabilità che ecceda la somma che hanno sottoscritto, se ciò si è debitamente notificato ai creditori, sia con responsabilità limitata ad una determinata somma, superiore all'apporto, sia con responsabilità completamente illimitata» 8.
In particolare è emersa nel nostro ordinamento, fino ad essere codificata (artt. 2497 ss. c.c.), l'attività di direzione e coordinamento di società: quindi non singoli atti di direzione ma l'attività di dominio che, come dice Ascarelli, a sua volta si traduce in una serie di atti.
Una autonoma attività che per sua natura non esige spendita del nome e che non ha una autonoma economicità rispetto a quella dell'impresa dominata e che può generare uno specifico tipo di responsabilità risarcitoria in caso di abuso, che è una responsabilità appunto da attività e non da atti9.
Tradizionalmente però lo snodo normativo più utilizzato, in dottrina e giurisprudenza, per l'attuazione delle diverse tecniche di «superamento» della personalità giuridica per abuso della stessa e per sanzionare questi contegni di fatto od occulti, è stato per decenni l'art. 147 l. fall.10.
Tra le diverse teorie, emerse già prima dell'entrata in vigore del codice civile11, quella della società di fatto (od occulta) fra società di capitali12 aveva registrato un certo successo13, arginato poi dalla questione della nullità di questo tipo di partecipazione societaria, divenuta pacifica in giurisprudenza, specie dopo l'intervento della Suprema Corte a sezioni unite alla fine degli anni '80 14. Come noto la posizione della Suprema Corte era legata alla preoccupazione che una rottura degli argini del diaframma della personalità avrebbe potuto generare una tracimazione sul terreno della certezza del diritto delle società e della tenuta complessiva del sistema15.
La riforma del diritto delle società di capitali ha, come noto, superato il problema, almeno apparentemente, rendendo ammissibile, a certe condizioni, la partecipazione di società di capitali a società di persone.
La novella alla legge fallimentare, ha poi, dal canto suo, espressamente contemplato l'estensione del fallimento di uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del codice civile ai soci illimitatamente responsabili pur se non persone fisiche.
Questo nuovo quadro normativo ha appunto riaperto l'antico fronte usato per poter arrivare allo squarcio del velo della personalità attraverso il fallimento della società di fatto (od occulta) tra società di capitali e la conseguente estensione della procedura. E' infatti apparso subito chiaro che il tema dell'insolvenza della c.d. supersocietà di fatto, era destinato a diventare una delle reazioni all'abuso della personalità "preferite" in giurisprudenza per efficienza16.
L'impostazione, infatti, lasciava aperti comunque diversi problemi in ordine all'ammissibilità sul piano generale di una supersocietà di fatto e alla dimostrazione, sul piano probatorio, dell'esistenza di una concreta affectio societatis tra persone fisiche e giuridiche, tale da far qualificare la società di capitali socio delle persone fisiche e non veicolo strumentale delle loro condotte in mera posizione di dominata, come viceversa accade nella gran parte dei casi. Solitamente, infatti, le società dominate sono utilizzate da imprenditori (individuali o in società di fatto con altri soggetti), come mero strumento abusivo (adoperato come una cosa propria per definirlo alla Bigiavi)17, e non certo sulla base di un contratto sociale.
D'altra parte, il comma 1 dell'art. 147 l. fall. ha circoscritto espressamente la regola dell'estensione ai soci illimitatamente responsabili, di società appartenenti a specifici tipi. Per queste ultime in assenza di dati formali riguardanti l'imputazione della responsabilità, la scelta normativa non è l'esistenza nell'ordinamento di criteri di imputazione sostanziale diversi dalla spendita del nome oppure l'assimilazione, altrettanto sostanziale ed improbabile, tra socio illimitatamente responsabile e imprenditore individuale, ma una vera e propria eccezione normativa che altri ordinamenti hanno peraltro abbandonato. Eccezione che il legislatore fallimentare, alla luce dell'art. 2361 c.c., inevitabilmente (e per alcuni versi pleonasticamente) ha esteso anche ai soggetti diversi dalle persone fisiche che rivestano la qualità di soci illimitatamente responsabili della società fallita.
Orbene - nel caso in oggetto - i giudici della Corte si sono pronunciati su un ricorso in cui come al solito si denunciava la violazione o la falsa applicazione degli artt. 2361, 2384 e 2479 c.c. e dell'art. 147 l. fall., in quanto l'acquisto della partecipazione, da parte di una società di capitali, in una società di persone sarebbe di competenza esclusiva dell'assemblea, quale limite legale ai poteri gestori e di rappresentanza degli amministratori, onde lo stesso dovrebbe essere necessariamente espresso, restando inefficace ove compiuto senza le condizioni previste dall'art. 2361 c.c..
In sostanza, parte ricorrente affermava, sulla base delle note impostazioni emerse negli ultimi dieci anni, la inammissibilità di una società di fatto tra società di capitali, in quanto sarebbe consentita solo quella in società regolare, con disposizione applicabile in via diretta alla s.r.l., per la quale l'art. 2479 c.c., da leggere alla luce dell'art. 2361, paleserebbe come vi sia un'area inderogabile di competenze dei soci, fra cui andrebbe ricondotta l'assunzione della partecipazione. Ciò, a tutela dei soci e dei creditori di società di capitali, che vedrebbero la propria società assumere, a loro insaputa, lo status di soggetto fallibile pur in assenza di insolvenza, come avviene per il fallimento in estensione ai sensi dell'art. 147, comma 4, l. fall. Nè l'estensione del fallimento iniziale di una società di capitali ad una presunta società di fatto potrebbe fondarsi sull'art. 147, comma 5, l. fall., norma eccezionale e riferibile - come noto - solo al fallimento originario di un imprenditore individuale.
2. L'estensione di fallimento "da responsabilità patrimoniale" e l'autonomo fallimento "da responsabilità risarcitoria"
Il fenomeno in esame, ha - salvo casi peculiari - uno schema tipo: una o più persone si servono di una o più società di capitali per frammentare e segregare attività e patrimoni, subornando le stesse società ad una strategia complessiva che può avere connotazioni patologiche.
Se l'imprenditore si serve di società strumentali in maniera conforme alla legge, e soprattutto alla sua ratio (sul rispetto della quale anche altri soggetti hanno fatto affidamento), allora è corretto e doveroso che egli si giovi del beneficio della responsabilità limitata.
Ma se viceversa opera nell'interesse imprenditoriale contrario a quello delle società utilizzate ed in violazione dei principi di corretta gestione (rendendole meri veicoli strumentali all'interesse proprio od altrui), deve diventare in qualche modo responsabile in via diretta per il pregiudizio patrimoniale provocato alle subornate verso i creditori di queste. Ed è irrilevante, a tal fine, se sia una persona fisica o giuridica, e nel primo caso se abbia o meno rivestito cariche formali di amministratore o legale rappresentante.
Qualora infatti il travalicamento delle forme societarie avvenga, non in relazione alla gestione di singole società prescindendo da ogni rapporto con le altre società facenti parte del medesimo gruppo, ma con interventi e modalità coordinate, in attuazione di un progetto unitario, non si è in presenza di un amministratore, ma di chi attua, nei fatti, il governo dell'impresa unitariamente considerata18.
Ora questo schema presenta due situazioni assolutamente ricorrenti: il primo che le società di capitali spesso non hanno alcuna affactio societatis rispetto alle persone fisiche che le dominano ed il secondo che nella pratica quella che emerge è la insolvenza delle società di capitali subornate e solo partendo da questa insolvenza si arriva alla sovrastruttura e non viceversa. Ciò comporta che, al di là delle questioni giuridiche, la figura in esame è stata adattata dalla recente sentenza della cassazione in modo improprio alle due situazioni tipo.
Questo adattamento, forzato sul piano ricostruttivo, presenta i vantaggi competitivi della estensione patrimoniale dell'insolvenza a fronte della tecnica alternativa in cui il curatore della società dominata dichiarata insolvente, acquista, a seguito dell'assoggettamento a procedura concorsuale, la legittimazione ad esercitare la sola azione risarcitoria spettante ai creditori, e non anche quella spettante ai soci, nei confronti della holding, in virtù di un altro riferimento normativo espresso: l'art. 2497, ultimo comma, c.c.
La responsabilità del dominus, individuale o collettivo, per abuso di eterodirezione sulla dominata insolvente può infatti generarne a sua volta l'autonoma insolvenza (e non l'estensione) a due condizioni: che i creditori danneggiati non siano stati soddisfatti, e che ricorrano i presupposti soggettivi della fallibilità. Il dominus (soggetto fisico o giuridico, individuale o collettivo), tuttavia, non sarà automaticamente e necessariamente insolvente e fallibile, come accade col sistema dell'estensione per il socio illimitatamente responsabile nelle ipotesi contemplate dall'art. 147, l. fall., trattandosi di responsabilità comunque risarcitoria.
Occorrerà accertare se il dominus sia o meno capiente e quindi in grado o meno di soddisfare le pretese creditorie rappresentate dal passivo delle società dominate assoggettate a procedura concorsuale ed in secondo luogo accertare se abbia esercitato l'attività di direzione abusiva con quelle caratteristiche di stabilità, professionalità ed organizzazione che integrano lo status di imprenditore commerciale. Pertanto laddove venga dimostrato che l'abuso del dominio abbia avuto i descritti caratteri tipici dell'attività d'impresa e laddove il dominus si riveli insolvente potrà essere dichiarato fallito in via autonoma ed i creditori delle società eterodirette concorreranno sul suo patrimonio con i suoi creditori diretti 19.
Le riforme del diritto societario e del diritto fallimentare hanno chiarito, a nostro avviso, il rapporto esistente nell'ordinamento giuridico tra titolarità dell'impresa, imputazione dei relativi atti, imputazione dell'interesse imprenditoriale e responsabilità patrimoniale20.
Orbene, il sistema delle responsabilità di chi nell'interesse imprenditoriale proprio od altrui svolge attività di direzione e coordinamento di società, titolari dell'impresa, risulta strutturato, a seguito delle riforme, su due modelli alternativi: la responsabilità risarcitoria per abuso del dominio e la responsabilità patrimoniale in estensione ex art. 147 l. fall..
L'art. 2497, c.c., conferma che l'attività di dominio è di per sé lecita e configura una situazione soggettiva attiva di cui può, e talora deve, farsi uso21: non contrasta con i principi inderogabili dell'ordinamento giuridico il fatto che il centro decisionale delle strategie venga posto al di fuori delle singole società controllate22.
L'attività di dominio diviene fonte di responsabilità diretta solo se abusiva, e l'abuso si verifica là dove il dominus la eserciti nell'interesse imprenditoriale proprio od altrui, e comunque non nell'interesse del dominato, e là dove venga svolta in violazione dei criteri di corretta gestione imprenditoriale e societaria.
Il dominio può essere esercitato mediante tutti gli strumenti possibili. Il controllo assembleare e l'influenza dominante (in via partecipativa o contrattuale) possono rappresentare indici meramente presuntivi, ma il controllo e la direzione possono concretizzarsi anche e soprattutto di fatto od occulto con le modalità più disparate.
Queste ultima forma di controllo c.d. esterno è particolamente rilevante ai nostri fini, in quanto si identifica con un potere effettivo nei confronti della società dominata - che prescinde dalle regole organizzative della stessa - di determinarne o comunque influenzarne l'attività d'impresa. Lo stesso sistema delle presunzioni evidenzia implicitamente che il dominio non ha modalità tipiche di attuazione e quindi neppure di accertamento quando si verifica di fatto, soprattutto attraverso direttive impartite fuori da schemi organizzativi eo negoziali (e comunque senza rilievo esterno, perché indirizzate esclusivamente verso la società dominata) e frutto di un potere effettivo.
D'altra parte l'eterodirezione è cosa completamente diversa dalla partecipazione alla gestione (o dalla ingerenza nella stessa) che invece ha una sua diversa regolamentazione e che può soltanto rappresentare in taluni casi un indice rivelatore dell'attività di dominio. Quest'ultima si concretizza insomma nello svolgimento di una funzione finanziaria, e più precisamente capitalistica di direzione strategico-finanziaria, accompagnata (solo eventualmente) dal potere di nominare e di revocare le persone preposte allo svolgimento di funzioni direttive o dal potere di amministrazione diretta. Il dominus può essere un socio (di maggioranza) oppure un perfetto estraneo alla società, che ne dipende economicamente o finanziariamente 23, od anche l'amministratore (di diritto o di fatto), senza che però rilevi, ai fini della configurazione del fenomeno, che tale dominio venga esercitato in virtù di poteri formali o meno.
L'attività di dominio su società di capitali, poi dichiarate insolventi, viene esercitata in genere da altre persone giuridiche, da enti 24, da società di persone, anche di fatto od occulte, da soggetti di diritto e soprattutto da persone fisiche. Le tecniche giurisprudenziali di reazione all'abuso della personalità giuridica non sono superate dal nuovo impianto normativo si muove come visto su un doppio binario: l'estensione della responsabilità derivante dalla eccezione tipologica ed in particolare della società ai soci di capitali, e la responsabilità derivante dalla subornazione sull'impresa dichiarata insolvente.
Quando l'impresa o le imprese dominate (assoggettate poi a procedura concorsuale) sono società di capitali subornate contro l'interesse sociale, e cioè utilizzate come veicolo di una condotta economica e strategica unitaria nell'interesse extrasociale, la questione non è più l'imputazione sostanziale degli atti nè l'abuso della personalità giuridica, nè lo squarcio della segregazione 25, né la simulazione di società26, nè la trasformazione tacita in società in nome collettivo irregolare27, né il ripristino della regola della responsabilità illimitata di cui all'art. 2740 c.c.28, ma l'abuso del dominio.
Se partiamo da questa costruzione complessiva, allora il caso del fallimento della c.d. supersocietà di fatto e della estensione ai soci illimitatamente responsabili società di capitali, appare fenomeno assolutamente residuale nella pratica che può diventare giudizialmente prevalente solo mediante qualche forzatura, su cui torneremo alla fine.
3. La partecipazione di società di persone a società di capitali
L'art. 2361, secondo comma, c.c., esige - come noto - che l'assunzione di partecipazioni in società di persone, almeno per le società per azioni, deve essere deliberata dall'assemblea ed evidenziata poi in nota integrativa.
La preventiva delibera sarebbe posta a tutela dei soci, che hanno il diritto di decidere se effettuare un investimento che sottrae la porzione di patrimonio sociale alle regole che disciplinano l'amministrazione e la redazione del bilancio delle società di capitali, mentre l'evidenza della partecipazione nella nota integrativa andrebbe a tutela dei creditori sociali, affinché abbiano la consapevolezza (ed il conseguente monitoraggio), delle reali condizioni di rischio e di garanzia, influenzate dalle vicende della società partecipata29. Si è rilevato che sarebbe incongruo che "in antinomia a tali principi, i soci ed i creditori di una s.p.a. vedessero la loro società acquisire, a loro insaputa e inconoscibilità, lo status di soggetto fallibile in assenza di insolvenza"30.
Una parte giurisprudenza di merito ha perciò ritenuto che le disposizioni di cui all'art. 2361, comma 2, c.c., siano preclusive rispetto alla configurazione di un rapporto partecipativo di fatto od occulto, e comunque attuato sulla base di facta concludentia e non di una delibera assembleare espressa 31, con la conseguente inapplicabilità dell'art. 147 comma 1, l. fall., ad una società irregolare, o di mero fatto, fra società di capitali 32.
In senso diametralmente opposto si è mossa altra giurisprudenza basata sulla disposizione di cui all'art. 2384 c.c.33, che introducendo il principio della rappresentanza generale degli amministratori, travolgerebbe, nell'interesse preminente dei terzi, ogni argine all'efficacia esterna di atti ultra vires 34.
Il tema è stato riproposto dalla Corte costituzionale nell'ordinanza del 12 dicembre 2014 n. 276 35 e poi - recentemente - nella decisione del 29 gennaio 2016, n. 1536, che ha dichiarato la questione posta inammissibile in quanto i giudici rimettenti non si erano espressi sull'eventualità che una società di capitali partecipi ad una società di persone anche per fatti concludenti, senza osservare le prescrizioni dettate dall'art. 2361 c.c. e solo una interpretazione favorevole a tale eventualità, infatti, avrebbe, eventualmente, potuto consentire l'applicazione dell'art. 147, co. 5, l. fall., di cui si chiedeva l'illegittimità costituzionale nella parte in cui prevede l'applicazione al solo imprenditore individuale.
Le vicende trovavano origine da ricorsi proposti dalla curatela di S.r.l. fallite che avevano adito il Tribunale di Bari37, di Parma e di Catania38 al fine di ottenere la declaratoria di fallimento anche delle presunte società di fatto costituite tra le società di capitali e persone fisiche.
In ogni caso, gli ostacoli evidenziati per le società per azioni potrebbero, come rileva anche la Consulta, non riguardare le società a responsabilità limitata alle quali da un lato non è applicabile per rinvio espresso l'art. 2361 c.c., ma che dall'altro lato, a norma dell'art. 111 duodecies disp. att. c.c., sono annoverate tra le persone giuridiche che possono partecipare a società personali39.
Il legislatore, parla semplicemente di s.n.c. e s.a.s. non facendo riferimento al fatto che la stessa società debba essere regolare, sicchè potrebbe anche implicitamente dedursi la possibilità di dare vita a società irregolari o più semplicemente di fatto40. Ciò che l'art. 2361,c.c. consente, infatti, è la partecipazione "in altre imprese comportante una responsabilità illimitata" e la società di fatto è sicuramente tale.
Per le società a responsabilità limitata sembrerebbe quindi, in assenza di prescrizioni normative, che l'assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle stesse, rappresenti un atto gestorio proprio degli amministratori, non rimesso alla competenza dei soci ai sensi dell'art. 2479, comma 2 n. 5, c.c. Ciò anche se a contrario va rilevato che in ogni caso sono riservate alla competenza dei soci di società a responsabilità limitata le decisioni di compiere operazioni che comportino una sostanziale modificazione dell'oggetto sociale o una rilevante modificazione dei diritti dei soci, quale potrebbe essere la partecipazione in oggetto41. Non vi sarebbero preclusioni per l'applicazione analogica della disciplina di cui all'art. 2361, comma 2, c.c., in quanto nella s.r.l. sussistono interessi interni paragonabili a quelli di una s.p.a.42. Le limitazioni al potere degli amministratori previste per quest'ultima, sussistendo l'eadem ratio, si giustificherebbero anche per questo tipo di società 43.Resta infine la considerazione che l'ordinamento delle società di persone non impone generalmente la forma scritta per esprimere la volontà sociale, ed è quindi preferibile ritenere che la S.r.l. possa assumere tale qualifica senza una formale deliberazione o attraverso comportamenti concludenti anche in una società palese 44.
In ogni caso, nonostante le diverse aperture45 , parte della giurisprudenza ha continuato ad affermare che l'assenza della necessaria delibera assembleare renderebbe inefficace la partecipazione (torneremo più avanti sulla supposta patologia), con ogni conseguente effetto sulla configurablità società di fatto tra o con società di capitali, in quanto la violazione del precetto precluderebbe la riferibilità o imputabilità giuridica, non dei singoli atti compiuti, ma dell'attività d'impresa unitariamente considerata (intesa come coordinamento temporale e funzionale dei singoli atti) ed effettivamente svolta dagli amministratori46.
4. segue. L'orientamento della Cassazione
Secondo la Suprema Corte chi entra in contatto con l'ente deve poter confidare sulla spendita del nome dello stesso da parte di coloro che ne hanno la rappresentanza senza dover avere l'onere di accertare se siano stati rispettati o meno i procedimenti endo-corporativi per quelle operazioni che gli amministratori potrebbero porre in essere con i terzi47. Agli amministratori dunque sarebbe conferito un potere di rappresentanza generale - sino al punto in cui la legge "consente di conferirlo" ed il terzo deve poter contare su tale estensione restando così indifferente la divisione delle varie competenze - e, al contempo, non vi sono norme che dettano una diversa disciplina per i limiti legali.
La norma di cui 2384 c.c. rappresenterebbe proprio un rimedio diretto ad evitare che il terzo possa abusare della tutela offertagli dal principio dell'inopponibilità, attribuendo all'ente la possibilità di sollevare l'exceptio doli.
Pertanto, l'assenza della delibera assembleare dovrebbe considerarsi inopponibile ai terzi, tranne qualora si provi che gli stessi hanno agito intenzionalmente a danno della società.
L'ordinamento, in linea generale, esclude la nullità o l'inefficacia di un atto posto in essere dall'organo gestorio senza il rispetto delle regole sull'autorizzazione assembleare, quando richieste, al fine di privilegiare una tutela obbligatoria rispetto ad una reale. E l'art. 2361 c.c. non rappresenterebbe una norma di divieto, né una condizione di efficacia dell'atto da parte degli amministratori autorizzati. Il potere gestorio e rappresentativo, anche per le materie sottoposte all'assemblea, rimarebbe sempre in capo agli amministratori.
Nella detta sentenza per i giudici di legittimità la delibera va insomma intesa a guisa di una "autorizzazione", distinta come tale dall'atto gestorio, e come tale inidonea a configurare patologie invalidanti48, in linea con la sentenza d'appello secondo cui l'art. 2361 c.c. "mira a rimuovere un limite ai poteri gestori all'unico fine di esonerare gli amministratori da responsabilità sociale, mentre l'assunzione della partecipazione resta valida ed efficace", anche in considerazione del fatto che la delibera non è soggetta a iscrizione e pertanto "non sarebbe ragionevole, nel bilanciamento degli interessi dei creditori della società di capitali e di quelli della società di fatto che sull'unicità del centro d'imputazione abbiano confidato, preferire i primi".
Dunque per la Cassazione "nessuna disposizione sancisce il divieto di assumere la partecipazione in una società che preveda la responsabilità illimitata della società azionaria - esistendo, al contrario, una norma di permesso - nè commina al riguardo, ai sensi dell'art. 1418, 3° comma, c.c., la nullità della partecipazione stessa, sol perchè manchi la previa deliberazione assembleare o l'indicazione nella nota integrativa; quanto all'inadempimento degli amministratori a detto obbligo di darne notizia nella nota integrativa al bilancio, ancor più dubbio è che da ciò possa derivare, quale adempimento successivo all'assunzione della partecipazione ed in mancanza di espressa previsione contraria, tale conseguenza". La nullità contemplata dall'art. 1418 "postula violazioni attinenti ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto" ma in questo caso, al contrario, la partecipazione è ammessa. Il legislatore della riforma, invero, aveva di fronte il chiaro testo di divieto previsto al preesistente art. 2361 c.c., 1° comma, ("non è consentita"), che ben avrebbe potuto mutuare nella sua struttura: ma ha dettato una disposizione abilitativa costruita all'inverso.
Condizionare la sussistenza di una società di fatto al rispetto delle indicazioni normative andrebbe in contrasto anche con il principio dell'apparenza in forza del quale, proprio al fine di tutelare i terzi, viene considerata centro di imputazione di rapporti giuridici una società priva degli elementi costitutivi che non sarebbe comunque l'ipotesi in esame che, al contrario, riguarderebbe proprio "l'effettiva collaborazione d'impresa tra più soggetti, non situazioni meramente apparenti per i terzi".
Accanto ai soci devono essere tutelati anche i creditori in quanto, a seguito dell'assunzione di responsabilità illimitata, aumenta l'esposizione debitoria dell'ente con conseguente concorso dei creditori della conferitaria sull'intero patrimonio sociale, anche in considerazione la delibera assembleare non è soggetta ad iscrizione. L'art. 2361 c.c. non pare estendere il precetto relativo all'autorizzazione assembleare anche alla S.r.l., ma "intende solo dire che la società personale interamente partecipata da società di capitali sarà soggetta alle medesime prescrizioni di bilancio, mentre le partecipanti avranno l'obbligo del consolidamento". Ma se si ammette che la partecipazione di una S.p.A. sia comunque efficace in assenza dell'autorizzazione, la stessa sarebbe tanto più superflua qualora la partecipazione riguardi una S.r.l., essendo difficile immaginare che i soci non siano a conoscenza dell'operato dell'organo gestorio avendo poteri di indirizzo e di controllo sulla società. In ogni caso "dovrebbe accertarsi che la partecipazione sia così eterogenea rispetto ai fini sociali da modificare l'oggetto in concreto" ed anche i diritti dei soci non risultano modificati, continuando ad essere vincolati entro il conferimento, ma unicamente quelli della partecipante stessa che diviene illimitatamente responsabile. L'indicazione contenuta nell'art. 2497, n. 5, c.c., può rappresentare una limitazione legale al potere degli amministratori, ma, in particolare, solo al "loro potere decisionale"; quindi l'operazione modificativa dell'oggetto sociale compiuta in assenza della delibera esporrebbe gli amministratori ad una eventuale azione di responsabilità o a revoca, ma non andrebbe a travalicare il limite al potere di rappresentanza, nei rapporti esterni: L'operato resterebbe impegnativo per la società perchè la legge consente di conferire quei poteri agli amministratori, anche se a quelle condizioni.
Secondo tale orientamento va dunque valorizzato l'accento posto sull'eccesso dai poteri agli amministratori conferiti per legge ed anche da quelli che essa "consente di conferire" loro. La riserva "posta dall'art. 2384 c.c., comma 2 post riforma rappresenta un rimedio diretto ad evitare che il terzo possa abusare della tutela offertagli dal principio dell'inopponibilità, attribuendo alla società una vera e propria exceptio doli, volta a garantire che la regola del contenuto inderogabile della rappresentanza non sia utilizzata per finalità contrastanti con gli interessi tipici che il legislatore ha inteso tutelare". Qui la soluzione prescelta per la tutela dei terzi non utilizza il criterio della tutela dell'affidamento incolpevole, ma è più radicale, ricorrendo il legislatore ad un'astrazione del potere di rappresentanza dal sottostante potere di gestione.
Le limitazioni al potere di rappresentanza degli amministratori non operano nei confronti dei terzi, salva la prova che essi abbiano intenzionalmente agito in danno della società: onde si esclude sia la sussistenza di un onere del terzo di accertarsi preventivamente dell'esistenza di tali limitazioni, sia la rilevanza della mera conoscenza delle stesse da parte del terzo. Del resto, "come si è osservato da molti, sarebbe assai semplice, per gli amministratori della società, aggirare le norme sulla responsabilità patrimoniale e quelle a ciò collegate, invocando la mancata autorizzazione in caso di risultati negativi e, invece, acquisire gli effetti favorevoli di quella partecipazione".
5. La supersocietà affetta da nullità è pur sempre una supersocietà in liquidazione venuta ad esistenza
Occorre innanzitutto prendere in considerazione un aspetto fondamentale che nè la Cassazione né la dottrina ha preso in considerazione, nonostante sia stato da che da tempo rilevato, rappresentato proprio dagli effetti che la violazione del limite comporterebbe49.
Il fenomeno della configurazione di una "supersocietà" di fatto, quand'anche fosse viziato sul piano genetico, produce comunque delle conseguenze rilevanti di natura sostanziale.
Se infatti, propendendo in astratto per una interpretazione più rigida e restrittiva, si giungesse ad affermare che il mancato rispetto delle prescrizioni di cui all'art. 2361 c.c., comporta l'inefficacia o la nullità dell'assunzione della partecipazione o del vincolo associativo nella superocietà di fatto, bisogna pur sempre considerare che, in forza di un principio di conservazione degli atti posti in essere in forza di un contratto di società nullo50, l'attività di fatto compiuta dall'ente dovrebbe comunque continuare ad avere rilevanza51.
Si badi bene che nella fattispecie non ci troviamo al cospetto di una società di persone regolarmente costituita ed iscritta al registro delle imprese e della quale una o più S.r.l. acquistano quote di partecipazione, ma al contrario si tratta di una partecipazione nascente dalla costituzione "di fatto" e per comportamenti concludenti di un centro autonomo di imputazione di diritti soggettivi, attivi e passivi.
Qui non si tratta della inefficacia di un acquisto di quote, ovvero di una vicenda in cui la società vede venir meno uno dei soci senza generare lo scioglimento dell'intero contratto sociale. Come noto nel contratto di società la tendenziale plurilateralità associativa comporta che il venir meno di una delle parti del contratto, a differenza di quanto accade nei negozi di scambio, non genera la fine dell'intero contratto, a meno che quella parte (ed il relativo conferimento) non fosse essenziale al raggiungimento dello scopo sociale.
Nella casistica in esame non parliamo dell'acquisto di una quota, ma parliamo dell'assunzione di una partecipazione generata da facta concludentia "costitutivi" dell'ente. Dunque il vizio generato dal mancato rispetto delle norme di legge contenute nell'art. 2361 comma 2 c.c. (da cui trova origine la super-società di fatto) sarebbe così sanzionato con la nullità dell'intero rapporto, che si convertirebbe quindi sempre e comunque - nel sistema del diritto societario - in una causa di scioglimento con la necessaria apertura della fase liquidatoria52. Quando dal comportamento concludente nasce infatti il centro autonomo di imputazione dei rapporti soggettivi, attivi e passivi, la regola diventa la liquidazione, per la necessità di definire i rapporti pendenti.
La società nulla è considerata, per il passato, una società valida e, per il futuro, una società valida in stato di liquidazione53.
In questo caso quindi non sarebbero comunque travolti gli atti posti in essere sino a quel momento che rimangono vincolanti per la compagine sociale né i relativi effetti complessivi. Gli effetti dell'invalidità della società, infatti, in deroga ai generali principi dell'ordinamento sulla nullità del contratto, non retroagiscono e sono applicabili anche alle società di persone.
Come ha avuto modo di affermare una certa giurisprudenza, aderendo integralmente alla nostra impostazione54, la violazione dell'art. 2361 comma 2 c.c., "pur importando la nullità della partecipazione alla società, non comporta la caducazione retroattiva della sua esistenza, stante la disciplina peculiare delle nullità societarie, applicabile anche alle società di persone"55.
Ed allora, tutte le questioni affrontate dalla giurisprudenza e dalla dottrina, che il fenomeno in esame pone, potrebbero trovare questa soluzione interpretativa se si considera che l'ente di fatto illegittimamente venuto ad esistenza si intenderà sciolto e, per l'effetto, sottoposto alle regole dettate per la fase della liquidazione delle società56. Sembra banale ma è così.
Dal verificarsi di una causa di scioglimento non discende l'automatica estinzione in quanto si rende necessario, preliminarmente adempiere alle obbligazioni assunte dall'ente o meglio alla definizione dei rapporti pendenti. E così, anche nell'ipotesi in commento, dovranno essere definiti tali rapporti, con evidenti effetti sui diritti dei terzi in buona fede. Dunque sarebbe accertata l'esistenza di una supersocietà di fatto sciolta cui resta applicabile lo statuto della società in nome collettivo irregolare e lo statuto dell'imprenditore commerciale a cominciare dal fallimento57.
La citata giurisprudenza di merito ha convenuto che va evidenziata la peculiarità dei contratti societari ed in particolare la loro funzione organizzatoria; i contratti associativi "danno luogo non solo alla costituzione di un rapporto giuridico tra i contraenti, ma alla istituzione di un'organizzazione per l'esercizio di un'attività, alla nascita di un soggetto che a sua volta intraprende rapporti con i terzi. Ciò impone la necessità di valorizzare le conseguenze derivanti dallo svolgimento dell'attività da parte dell'ente, ragion per cui acquistano rilevanza giuridica (e vanno necessariamente regolamentati) gli effetti prodotti dal fatto verificatosi ed ineliminabile consistente nell'avvenuto esercizio dell'attività sociale. Ne consegue che deve ritenersi vigente nel nostro ordinamento un generale principio - valevole per le società di capitali, come per quelle personali - per cui le cause di invalidità del contratto costitutivo provocano la caducazione della società, fermo restando gli effetti prodotti medio tempore, mediante l'esercizio di attività esterna"58.
Si deve rimarcare che sarebbe contrario al principio di buona fede, canone conformante tutte le relazioni tra privati, la condotta di chi, dopo aver concluso ed eseguito un contratto secondo una forma diversa rispetto a quella programmata, pretenda, nel caso in cui il risultato conseguito sia difforme rispetto a quello sperato, di liberarsi dal vincolo negoziale. È agevole osservare che il piano della volontà è distinto rispetto a quello della sua manifestazione e, quindi, della forma tramite la quale essa è indirizzata al suo destinatario. La nullità per mancanza dell'elemento della volontà deriva dalla completa assenza della determinazione soggettiva di regolare i propri interessi e proprio perché si caratterizza per l'inesistenza sul piano empirico della componente volitiva prescinde dal problema della manifestazione e, quindi, della forma.
Le disposizioni di cui all'art. 2332 comma 2 e ss. sono espressione di un principio generale, per cui la dichiarazione di nullità non ha effetto retroattivo e comporta gli effetti propri dello scioglimento e della liquidazione della società59.
In definitiva alla invalidità della partecipazione assunta da parte della S.r.l. nella ipotizzata società di fatto non consegue la caducazione con effetti ex tunc della stessa, con la conseguenza che l'eventuale dichiarazione di nullità lascia pur sempre sopravvivere sino alla sua pronuncia la compagine sociale che abbia agito, consentendone l'assogettabilità alla liquidazione concorsuale, in caso di insolvenza.
6. Abuso della personalità giuridica ed affectio societatis
In ogni caso supposta in astratto l'ammissibilità di una super-società di fatto60, almeno con soci delle S.r.l., va ribadita la necessità di analizzare i due schemi fattuali assolutamente ricorrenti nella realtà.
Nella quasi totalità dei casi è il curatore della società subornata e fallita ad agire per ottenere il fallimento in estensione di altre società di capitali socie, semmai, unitamente a persone fisiche della supersocietà di fatto (basta leggere nelle varie sentenze, comprese quelle della Corte costituzionale il substrato fattuale delle vicende).
Orbene a nostro avviso l'art. 147, comma 1, l. fall., non consente comunque di arrivare in via ascendente dalla società di capitali fallita (utilizzata come veicolo strumentale) alla società di fatto (od occulta) holding, ma viceversa esige, come emerge dallo stesso art. 147 l. fall., la previa dichiarazione di insolvenza della società di persone, anche se di fatto (od occulta), per produrre poi in via discendente (rectius per caduta) il fallimento in estensione della (o delle) società di capitali in successione almeno logica (anche se non cronologica laddove siano contestuali)61.
Nè a questo fine è ipotizzabile un fallimento virtuale prima di una sua effettiva dichiarazione62 o comunque un accertamento meramente incidentale di una supersocietà di fatto 63, come presupposto per la richiesta di estensione del fallimento ai soci, considerato il carattere costitutivo 64 della sentenza di fallimento che ha efficacia erga omnes ed ex nunc 65.
Tra la pronuncia di fallimento della società e quella dei soci illimitatamente responsabili, «esiste un rapporto di dipendenza unidirezionale», nel senso che, anche se non è vero il contrario, «la dichiarazione di fallimento del socio trova il suo presupposto nella dichiarazione di fallimento della società, la cui eventuale nullità infatti travolge anche l'altra dichiarazione»66.
Né ancora - come si è visto - è allo stato immaginabile che ai sensi del quarto comma dell'art. 147 l.fall. dopo il fallimento di una società di persone regolare possa conseguirne il fallimento anche del socio di fatto/società di capitali 67, come testualmente escluso dal disposto del quinto comma del richiamato art. 147 l.fall.68 Quest'ultima disposizione prevede infatti che l'estensione del fallimento della società e dei soci illimitatamente responsabili possa conseguire unicamente all'iniziale fallimento di un imprenditore individuale ed utilizza quindi un' espressione è riferita (e riferibile) soltanto all'imprenditore-persona fisica69. Di conseguenza non è possibile estendere il fallimento iniziale di una società di capitali ad una società di fatto, sia essa formata solo da società di capitali o anche da persone fisiche, anche perché, trattandosi di norma eccezionale70, l'eventuale superamento in via interpretativa non può basarsi su un'applicazione meramente analogica 71.
Quindi ove si configuri una società sottostante all'attività d'impresa apparsa in un primo momento come gestita da un unico titolare, l'estensione del fallimento dovrà necessariamente passare attraverso il fallimento della società (di fatto od occulta) e solo come effetto di quest'ultimo - come nella sentenza in epigrafe - potrà essere estesa ai soci illimitatamente responsabili non falliti, anche non persone fisiche 72. E' evidente che anche nel caso del fallimento della supersocietà l'estensione non sarebbe l'effetto del superamento della personalità giuridica che resta intatta ed impenetrabile, ma la conseguenza di una mera eccezione tipologica, l'essere cioè socio illimitatamente responsabile di un certo tipo di società 73.
La norma insomma non si presta all'estensione al dominus (società o persona fisica) dell'insolvenza di società strumentali utilizzate in un gruppo verticale, ma tutt'al più all'estensione ad un gruppo orizzontale di società (socie tra loro ed eventualmente di persone fisiche) non soggetto a direzione e coordinamento.
Non va dimenticato, al riguardo, che nella società di fatto le partecipazioni ed i poteri di tutti i soci, anche se persone giuridiche, si presumono uguali, visto che le norme dettate in materia di società semplice prevedono esattamente questo in assenza di diverse previsioni contrattuali 74. Ed occorre per tutti l'attività comune, l'effettiva partecipazione ai profitti ed alle perdite dei soggetti interessati, il vincolo di collaborazione tra i soci" (c.d. affectio societatis).
Ecco che anche la giurisprudenza favorevole alla configurabilità della super-società di fatto continua a confondere talora, nell'applicare la tecnica dell'estensione, l'affectio societatis tra persone fisiche e persone giuridiche, con l'abuso strumentale delle seconde da parte delle prime.
Il fallimento in estensione di società di capitali in quanto socie (tra loro od anche con persone fisiche) per facta concludentia di una super-società di fatto, pur sposando la tesi della Cassazione, riguarda fattispecie concrete in cui, almeno sul piano logico (se non su quello cronologico essendo possibile la contestualità), venga accertata prima l'insolvenza della super-società, visto che l'estensione ai soci-persone giuridiche è solo un effetto tipologico. Quindi non può mai avere alla base l'iniziativa di un curatore di una S.r.l. che tenta di risalire alla capogruppo dal basso.
Deve trattarsi viceversa del caso in cui il creditore dimostra che c'è un intero gruppo insolvente dove una o più S.r.l. partecipano e controllano una società di persone (la supersocietà di fatto).
Ma in questo caso come afferma la stessa recentissima citata Corte Costituzionale75, i giudici di merito devono innanzitutto accertare la c.d. affectio societatis in grado di provare l'effettiva esistenza di una società occulta costituita con la partecipazione di S.r.l., e semmai della società originaria fallita.
Insomma tutto si fonda sull'accertamento dell'effettiva sussistenza dell'affectio societatis tra le persone giuridiche e non l'(ab)uso delle stesse, quali veicoli strumentali dominati da parte di persone fisiche (eventualmente in società-holding di fatto tra loro). Questa ultima ipotesi non potrebbe mai configurare l'eccezione tipologica di cui all'art. 147, comma 1, l. fall., ma sarebbe un escamotage diretto a costruire per analogia una fictio, che viceversa configura una situazione sanzionata dall'ordinamento in termini di responsabilità risarcitoria derivante da attività di direzione e coordinamento esercitata dalla holding contro l'interesse sociale delle persone giuridiche eterodirette ed abusate76.
La Cassazione afferma però, nella recente sentenza richiamata in epigrafe, che "per lo più, nelle vicende concrete sussiste, all'opposto, proprio l'intento di collaborare e svolgere attività in comune" invece che l'abuso dell'attività di eterodirezione e coordinamento della capogruppo.
Orbene su questa considerazione dissentiamo in modo netto, se ci fosse affectio societatis - e non abuso strumentale - la super-società non dovrebbe mai agire contro l'interesse dei propri soci (persone giuridiche), cosa che invece accade tipicamente.
L'affectio, infatti, presuppone il perseguimento di un comune interesse sociale, e viceversa l'abuso del dominio sulla presunta socia utilizzata come strumento è proprio una prova contraria dell'esistenza di una super-società con soci persone giuridiche e costituisce prova a favore viceversa dell'esistenza di una holding di fatto che controlla in posizione di dominio le medesime persone giuridiche abusate.
Mentre l'abuso del dominio si concretizza nell'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento nell'interesse proprio od altrui, l'affectio anche per facta concludentia si manifesta nel perseguimento di un interesse comune. Il concetto è un sinonimo della "comunione di scopo" dei contratti plurilaterali associativi previsti dal codice civile del 194277.
E qui viene il punto davvero dolente della costruzione di certa giurisprudenza.
Ma davvero si può affermare nello schema più ricorrente che le società subornate, abusate e strumentalizzate pongano in essere facta concludentia che ne cristallizzano l'affectio societatis e quindi la partecipazione di fatto con chi ne abusa utilizzandole come mero strumento o "adoperandole come cosa propria", come avrebbe detto Walter Bigiavi ? 78
Non è forse vero l'esatto contrario?
Si legge nella sentenza in epigrafe che "gli elementi raccolti, nei provvedimenti impugnati di merito, confermano la prova piena della sussistenza del vincolo sociale, esistendo plurimi indizi della sussistenza di un'unica struttura economica associativa".
Ma si badi bene che ciò che avviene nella pratica configura una partecipazione della società di fatto alle società di capitali controllate ed abusate e non - viceversa - una la struttura associativa capovolta, dove è impossibile che le controllanti siano abusate dalla controllata e dove quindi l'estensione diventa - per così dire - "inversa".
La comunione di scopo, il vincolo di collaborazione tra i soci, il patrimonio e l'attività comune79, l'effettiva partecipazione ai profitti ed alle perdite dei soggetti interessati, l'affectio80 si concretizzerebbero per le s.r.l. - a seguire tale impostazione - paradossalmente nel fatto di farsi abusare nell'interesse esclusivo degli altri soci, persone fisiche, in una sorta di societas leonina81 o di affectio, per così dire, masochista.