I doveri dei creditori nel Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza
Pubblicato il 18/08/20 02:00 [Articolo 984]







Sommario: 1. I doveri delle parti che partecipano alla regolazione della crisi o dell’insolvenza. – 2. I doveri dei creditori: la buona fede e correttezza. – 3. Ambito di applicazione e funzione del dovere di agire secondo buona fede ai sensi dell’art. 4, comma 1, CCII. – 4. Leale collaborazione e dovere di riservatezza: declinazioni di un più ampio dovere di buona fede e correttezza? – 5. Il momento in cui sorgono i doveri di riservatezza e di agire secondo leale collaborazione in capo ai creditori. – 6. Il dovere di leale collaborazione: gli interessi protetti. – 7. Le diverse declinazioni del dovere di leale collaborazione: a) la fase delle trattative. – 8. Le diverse declinazioni del dovere di leale collaborazione (segue): b) la fase dell’adesione o del rigetto della proposta; c) la fase dell’esecuzione. – 9. (Segue) La specifica situazione dei creditori professionali. – 10. L’obbligo di riservatezza. – 11. Conseguenze della violazione dell’art. 4, comma 3, CCII (cenni).



1. I doveri delle parti che partecipano alla regolazione della crisi o dell’insolvenza



Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII)[1] si apre con alcune disposizioni generali, dedicate ai “principi” che devono ispirare l’utilizzazione degli strumenti e lo svolgimento delle procedure ivi regolati (così il Titolo I, Capo II, CCII)[2]. Una parte, nuova e concettualmente importante, di tali principi è costituita dagli “obblighi generali”[3] che fanno carico ai soggetti che partecipano alla regolazione della crisi o dell’insolvenza (artt. 3-5 CCII).



La normazione per principi costituisce assoluta novità per la disciplina della crisi d’impresa, dove la formulazione dei principi regolatori della materia era stata lasciata fino ad oggi all’opera degli interpreti[4]. Con il codice della crisi, il legislatore individua invece i valori che orientano le nuove disposizioni, fornendo in tal modo un indirizzo interpretativo.



La Sezione I del Capo II CCII, in particolare, individua i doveri dei soggetti che partecipano alla regolazione della crisi e dell’insolvenza. Nello specifico:



1)  il debitore è chiamato a predisporre assetti adeguati alla rilevazione tempestiva della crisi e ad assumere senza indugio le iniziative necessarie a farvi fronte (art. 3 CCII, che espressamente richiama il riformato art. 2086 c.c., già in vigore dal 16 marzo 2019). Egli è altresì sottoposto a un dovere generale di agire secondo buona fede e correttezza, fornendo ai creditori tutte le tutele informative necessarie e appropriate allo strumento, assumendo tempestivamente ogni iniziativa idonea a definire rapidamente la procedura, e gestendo il patrimonio, durante la procedura, nell’interesse prioritario dei creditori (art. 4, commi 1 e 2, CCII)[5];



2)  i componenti degli organismi e dei collegi preposti alle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi, la cui nomina deve essere improntata a criteri di trasparenza, rotazione ed efficienza, sono chiamati a rispettare obblighi di riservatezza e segretezza (art. 5 CCII);



3)  i creditori sono tenuti a «comportarsi secondo buona fede e correttezza» durante le trattative e nell’esecuzione di accordi e procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza (art. 4, comma 1, CCII); e in particolare essi sono tenuti a «collaborare lealmente» con l’imprenditore e gli organi della procedura e a «rispettare l’obbligo di riservatezza sulla situazione del debitore, sulle iniziative da questi assunte e sulle informazioni acquisite» (art. 4, comma 3, CCII).



Dagli artt. 4 e 5 CCII emerge, dunque, l’intenzione del legislatore di responsabilizzare tutte le parti coinvolte nella gestione della crisi d’impresa, creditori inclusi. È a questi ultimi e ai doveri comportamentali loro imposti che sarà dedicato il presente lavoro.



L’analisi sarà condotta lungo tre direttrici principali, concentrando la riflessione su quale sia il contenuto e la portata funzionale del canone di buona fede e correttezza con riferimento ai creditori nel contesto specifico delle procedure di risoluzione della crisi e dell’insolvenza; su come tale clausola generale si coordini con il richiamo specifico a doveri di «leale collaborazione» e di riservatezza, previsti dall’art. 4, comma 3, CCII; e su come possa impostarsi una riflessione volta a riempire di contenuto il richiamato «dovere di leale collaborazione».



 



2. I doveri dei creditori: la buona fede e correttezza



La previsione di un generico obbligo di agire secondo buona fede e correttezza, di cui all’art. 4, comma 1, CCII, costituisce richiamo alla buona fede in senso oggettivo, intesa come regola di condotta tradizionalmente contrapposta alla buona fede in senso soggettivo, quale stato della coscienza[6]. In quanto clausola generale[7], la buona fede risente fortemente del contesto nel quale si inserisce ed è chiamata ad operare[8].



Nello specifico ambito delle procedure della crisi e dell’insolvenza, tale clausola non fa la sua prima apparizione nel codice della crisi. Difatti, come è noto, non soltanto la giurisprudenza riconosce la fattispecie dell’abuso del diritto nelle procedure concorsuali[9], ma la stessa legge fallimentare, come modificata dal d.lgs. 6 agosto 2015, n. 132, richiama la buona fede all’art. 182-septies che regola l’accordo di ristrutturazione con banche e intermediari finanziari[10].



È solo con l’art. 4 CCII, tuttavia, che l’obbligo di agire secondo buona fede e correttezza è espressamente imposto, in termini generali, in capo ai creditori di un imprenditore[11] in crisi o insolvente.



Ai sensi dell’art. 4 CCII, i creditori sono tenuti a comportarsi secondo buona fede e correttezza «nell’esecuzione degli accordi e nelle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza e durante le trattative che le precedono» (comma 1). Essi «hanno il dovere, in particolare, di collaborare lealmente con il debitore, con i soggetti preposti alle procedure di allerta e composizione assistita della crisi, con gli organi nominati dall’autorità giudiziaria nelle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza e di rispettare l’obbligo di riservatezza sulla situazione del debitore, sulle iniziative da questi assunte e sulle informazioni acquisite» (comma 3)[12].



La previsione di tale obbligo in capo ai creditori impone di interrogarsi, in concreto, sulla portata funzionale della clausola generale di buona fede (infra par. 3) e sul suo contenuto (infra par. 4).



 



3. Ambito di applicazione e funzione del dovere di agire secondo buona fede ai sensi dell’art. 4, comma 1, CCII



La buona fede diviene, nel codice della crisi, un obbligo generale che si impone al creditore durante ogni attività riconducibile alla fase delle trattative che precedono un accordo o una procedura concorsuale e alla loro esecuzione[13].



In ragione della natura di clausola generale, nonché della sua collocazione tra i “principi generali” del codice della crisi, l’obbligo dei creditori di agire secondo buona fede e correttezza si erge certamente a canone interpretativo delle regole di dettaglio, ponendosi dunque, in primo luogo, come criterio di selezione tra condotte abusive e esercizio legittimo di diritti.



La previsione di cui all’art. 4, comma 1, CCII può tuttavia assumere anche una portata funzionale di tipo normativo/integrativo, in quanto dovere generale al cui rispetto è tenuto il creditore di un debitore in crisi o insolvente, a prescindere dalla previsione di una specifica disposizione.



Ovviamente, la capacità delle clausole generali di colmare le lacune normative permette alle stesse di «risolvere conflitti di interesse non regolati dall’ordinamento»[14], ma porta con sé anche un ampliamento dello spazio interpretativo del giudice nell’individuazione delle condotte lecite o illecite, ponendo il tema del rischio di un “governo giudiziario della discrezionalità contrattuale”[15], con conseguente vulnerabilità della certezza del diritto[16], o quantomeno della ragionevole prevedibilità delle conseguenze giuridiche di un comportamento[17], tanto necessaria a favorire la sicurezza dei traffici commerciali. Tali criticità si amplificano nel diritto della crisi d’impresa, dove la risoluzione dei conflitti esplica i suoi effetti, per definizione, al di fuori del rapporto tra le parti, con la conseguente necessità di individuare criteri che permettano di razionalizzare le decisioni giurisprudenziali[18], garantendo la tendenziale prevedibilità del percorso ermeneutico.



Il recupero di elasticità dell’ordinamento, che deriva dalla previsione di cui all’art. 4, comma 1, se da un lato potrà consentire un tempestivo adeguamento della disciplina alle necessità del caso concreto[19], dall’altro tuttavia espone al rischio che, mediante l’interpretazione della clausola di buona fede e correttezza, il giudice possa incidere sulla regolazione privata dei rapporti, rideterminandone il contenuto. Il tema dei limiti all’eterodeterminazione dei rapporti contrattuali, ancora irrisolto nell’ambito del diritto civile, acquista dunque rinnovato interesse e particolare rilevanza nell’ambito della crisi di impresa, per cui diventa essenziale definire i confini dell’agire dei creditori di un imprenditore in crisi o insolvente, e gli spazi di autonomia da garantire rispetto a interferenze esterne.



 



4. Leale collaborazione e dovere di riservatezza: declinazioni di un più ampio dovere di buona fede e correttezza?



Alla clausola di buona fede oggettiva è genericamente ricondotta un’ampia gamma di comportamenti improntati a lealtà e cooperazione, volti ad evitare che siano lesi altri interessi rilevanti[20]. Il legislatore del codice della crisi si è tuttavia occupato di riempire di contenuto tale clausola generale, prevedendo, al comma 3 dell’art. 4, un dovere di leale collaborazione e un dovere di riservatezza durante le trattative e in sede di esecuzione degli accordi o delle procedure concorsuali.



Dalla formulazione dell’art. 4 CCII deve però escludersi che i doveri di cui al comma 3 esauriscano il contenuto del dovere di agire secondo buona fede e correttezza. Oltre al dato testuale, che sembra confermare il carattere esemplificativo e non esaustivo di tali doveri («I creditori hanno il dovere, in particolare, di collaborare lealmente con il debitore … e di rispettare l’obbligo di riservatezza…»), la natura stessa delle clausole generali si caratterizza per un intrinseco grado di vaghezza e per l’assenza di una determinazione concreta che permette alle stesse di adattarsi nel tempo; la clausola generale è, per sua natura, norma incompleta, capace di applicazione diacronica[21].



Deve quindi concludersi che il legislatore della riforma abbia voluto imporre ai creditori un dovere generale, quello di operare secondo correttezza e buona fede, in parte concretizzato come dovere di collaborazione leale e come dovere di riservatezza di cui al comma 3, ma non esaurendo in tale previsione il contenuto della clausola generale di buona fede e lasciando dunque agli interpreti, in relazione alla singola fattispecie, la definizione in concreto delle ulteriori declinazioni che può assumere il richiamo a tale clausola generale, con il solo limite di assicurare coerenza e ragionevolezza alle proposte interpretative[22].



Anche il dovere di leale collaborazione di cui al comma 3, che quindi «si presenta come una specifica declinazione di quello di buona fede e correttezza»[23], lascia aperti numerosi profili di incertezza circa il suo concreto significato sul piano applicativo. Esso può essere interpretato secondo due diversi approcci.



In base a un’interpretazione “debole” il dovere di leale collaborazione non è altro che una riformulazione letterale del dovere di agire secondo buona fede e correttezza. Secondo un’interpretazione “forte”, invece, il dovere di leale collaborazione pone in capo ai creditori doveri ulteriori e rafforzati rispetto al mero obbligo di astenersi dal porre in essere condotte in mala fede o abusive.



Il secondo approccio interpretativo sembra preferibile in quanto valorizza il senso della specifica previsione normativa (che altrimenti potrebbe essere ritenuta superflua rispetto al richiamo alla clausola generale di buona fede e correttezza), riconoscendo così autonoma dignità alla previsione espressa del dovere di leale collaborazione. In questa accezione, l’art. 4, comma 3, CCII non si limiterebbe a recepire l’orientamento giurisprudenziale in tema di buona fede precontrattuale nonché di divieto di abuso del diritto, ma sembrerebbe voler imporre ai creditori obblighi ulteriori.



In realtà le due posizioni si avvicinano nel momento in cui si avverte, come nei più recenti orientamenti dottrinari e giurisprudenziali, che il dovere di comportarsi secondo buona fede non si limita a comportamenti omissivi, al fine di astenersi da attività abusive o contrastanti con il generale principio del neminem ledere, ma può implicare anche comportamenti positivi per favorire la realizzazione dell’altrui interesse[24].



La distinzione perde valore anche qualora si aderisca a quell’approccio dottrinale che pone in discussione l’identità concettuale tra buona fede e correttezza, interpretando la buona fede come «principio di collaborazione per il raggiungimento di un risultato comune», mentre la correttezza esprimerebbe «un comportamento leale, che è tale quando non si fanno prevalere gli interessi personali al fine di danneggiare gli altri partecipi al rapporto stesso»[25]. Se si sposa questo approccio interpretativo il dovere di leale collaborazione tende ad avvicinarsi a quello di agire secondo correttezza, e quindi a fortiori sono imposti ai creditori doveri ulteriori rispetto al mantenere “passivamente” una condotta non in mala fede e non abusiva.



Secondo le interpretazioni preferibili, il dovere di leale collaborazione introduce quindi una tensione ideale verso un atteggiamento più partecipativo del creditore nel momento in cui questo è chiamato dal debitore a contribuire alla ricerca di una soluzione alla crisi.



 



5. Il momento in cui sorgono i doveri di riservatezza e di agire secondo leale collaborazione in capo ai creditori



I doveri di leale collaborazione del creditore e di sua riservatezza sono imposti dal codice della crisi già al momento delle trattative antecedenti un accordo stragiudiziale o una procedura, e solo dall’avvio di una fase definibile come trattativa.



I doveri di cui al comma 3, e in particolare il dovere di leale collaborazione, non sembrano infatti poter scattare già nel momento in cui si determina a carico del debitore una condizione di crisi o insolvenza (o nel successivo momento in cui il creditore ne venga a conoscenza) e prima che si avviino trattative funzionali alla regolazione della crisi. Potrebbe cioè porsi il dubbio se, quando un soggetto entra in crisi, scattino di per sé, dal momento in cui ne vengono a conoscenza, nuovi doveri in capo ai suoi creditori in ragione del cambio di paradigma che la crisi impone: gestione collettiva dei debiti al fine della conservazione del valore (quando il valore c’è) od ordinata liquidazione del patrimonio. Se questa interpretazione venisse accolta, il dovere di agire secondo leale collaborazione si applicherebbe a prescindere dall’attivazione del debitore, di altro creditore, del pubblico ministero, o degli organi e delle autorità amministrative legittimate ai sensi dell’art. 37 CCII, con la conseguenza che potrebbero essere sanzionate condotte dei creditori che esulino dalle trattative, come la proposizione di azioni esecutive, o persino loro condotte omissive come la mancata presentazione di una istanza di liquidazione giudiziale.



Salvo che tali condotte non siano dirette a danneggiare il buon svolgimento delle trattative, o sfocino in comportamenti abusivi, la mancata conformità ai canoni della leale collaborazione non sembra possa essere sanzionata sulla base dell’art. 4 CCII. Ciò sia in ragione della lettera del primo comma, che chiarisce espressamente il momento in cui opera tale dovere (menzionando solo le trattative e la fase di esecuzione delle procedure), sia da un’interpretazione sistematica della riforma: se è vero che, con l’art. 4 CCII, si attribuiscono al creditore dell’imprenditore in crisi o insolvente maggiori obblighi comportamentali, è anche vero che lo stesso resta impossibilitato a proporre domanda di concordato preventivo, se non nella forma di proposta concorrente ex art. 90 CCII, che tuttavia presuppone la previa domanda del debitore (e dunque l’avvio, nemmeno di una trattativa, ma persino di una procedura)[26]. Sarebbe quindi contraddittorio dedurre dalla norma un’intenzione del legislatore di generale responsabilizzazione del creditore dell’imprenditore in crisi, senza attribuire allo stesso il potere di presentare una proposta di concordato preventivo. All’opposto, sembra preferibile un’interpretazione della norma che ammetta il sorgere del dovere di leale collaborazione (così come del dovere di riservatezza) solo dal momento in cui si avviino le trattative, ossia quantomeno nel momento (eventuale e temporalmente anticipato) di inizio di una procedura di composizione assistita della crisi davanti all’OCRI che, com’è noto, è funzionale proprio al raggiungimento di un accordo con i creditori[27].



Se così è, anche con l’entrata in vigore dell’art. 4 CCII, il creditore potrà legittimamente avviare un’azione di esecuzione forzata o attivare ogni altro rimedio legale volto a tutelare il proprio diritto di credito, anche nella consapevolezza dell’incapienza del patrimonio del debitore, e dunque anche con l’intento di battere sul tempo gli altri creditori. Tali condotte saranno al più “sanzionate” mediante azioni revocatorie, o attraverso l’emersione di una eventuale responsabilità del terzo creditore che cooperi all’aggravamento del dissesto del debitore, ad esempio mediante concessione “abusiva” del credito[28].



 



6. Il dovere di leale collaborazione: gli interessi protetti



Assodato che una volta che il debitore si rivolge ai suoi creditori scatta in capo a costoro un dovere di adottare un atteggiamento collaborativo, resta da accertare quale sia il fine di questa (doverosa) collaborazione.



In una sua precedente formulazione – di cui all’art. 5, comma 3, di una delle prime bozze del codice della crisi[29] –, il dovere di leale collaborazione era espressamente imposto «al fine di raggiungere prioritariamente una soluzione concordata» della crisi. Il fine della collaborazione scompare, invece, nella versione finale dell’art. 4, comma 3, CCII.



Se non è il legislatore a stabilire gli obiettivi della collaborazione, la definizione degli stessi sembra dover essere rimessa ai creditori come complessivamente considerati. Con la crisi o l’insolvenza, infatti, il rapporto debitore-creditore perde la sua struttura di rapporto bilaterale, acquisendo inevitabilmente una prospettiva collettiva[30], nel senso che la realizzazione dell’interesse di ciascuno dei creditori impatta sulla realizzazione dell’interesse degli altri.



La problematica non è nuova, ed è recentemente tornata al centro del dibattito a fronte dell’aumento di ipotesi in cui ai creditori del debitore in crisi sono imposti sacrifici a vantaggio dell’interesse collettivo – che ha persino portato a discutere della natura di diritto soggettivo del diritto di credito nell’ambito delle procedure concorsuali[31]–; prospettiva destinata ad accentuarsi con il prossimo recepimento della Direttiva europea sulla ristrutturazione e sull’insolvenza (Direttiva 2019/1023), che fa delle soluzioni concordate (benché non sempre lasciate alla sola iniziativa del debitore) un pilastro dell’ordinamento.



Nonostante l’eclissi della dimensione puramente bilaterale del rapporto tra creditore e debitore in crisi, vi è pur sempre un nucleo incomprimibile del diritto di credito che non può essere messo in discussione. L’obiettivo delle procedure resta, infatti, quello della tutela dell’interesse dei creditori, e una soluzione diversa sarebbe inefficiente e probabilmente incostituzionale.



Questo è il quadro che emerge anche dal codice della crisi, che, da un lato, ambisce a salvaguardare la continuità dell’impresa e, con l’articolo 4 CCII, chiaramente impone ai creditori obblighi di solidarietà e collaborazione. Dall’altro lato, lo stesso art. 4, al comma 2, dispone che: «il debitore ha il dovere di (…) gestire il patrimonio o l’impresa durante la procedura di regolazione della crisi o dell’insolvenza nell’interesse prioritario dei creditori». La norma sembra riconoscere l’esistenza di più interessi sottesi alle procedure di regolazione della crisi, ma tra questi chiaramente attribuendo rango primario all’interesse dei creditori[32].



La difficoltà sta dunque nell’individuare il punto di equilibrio (o, più realisticamente, i punti di equilibrio) tra l’autonomia negoziale del singolo creditore e l’interesse collettivo a non distruggere imprese ancora dotate di valore.



Certamente, il rispetto del dovere di collaborare lealmente incontra il limite secondo cui nessun creditore può essere tenuto a operare in proprio danno. Al di fuori di questa ipotesi limite, invece, il tema si sposta su quale sia il parametro di riferimento, lo scenario alternativo, che legittima un sacrificio dell’autonomia negoziale del singolo in ragione di un miglior soddisfacimento dei creditori come complessivamente considerati. Se per l’operatività del “cram-down” l’alternativa della liquidazione del patrimonio può essere uno scenario prevedibile (cfr. art. 112, comma 1, CCII), risulta maggiormente complesso immaginare le alternative concordatarie.



Davanti alla difficoltà di rappresentare tutti i possibili scenari alternativi a una procedura o a uno strumento di ristrutturazione (così da poter valutare se il comportamento del creditore che si adoperi per far arenare una proposta sia o meno legittimo) – a meno che non si voglia attribuire al giudice il potere di stabilire, ex post, come fosse più opportuno negoziare ex ante, o quale percentuale di soddisfazione era “razionale” accettare, etc. –, i creditori restano gli unici attori legittimati a valutare l’offerta del debitore e le sue alternative. Questa soluzione sembra l’unica ammissibile sia alla luce della tutela che la nostra Costituzione garantisce alla libertà economica in generale (art. 41 Cost.) e al credito in particolare (art. 47 Cost.), sia per evitare, a livello di sistema, un incremento del costo del credito conseguente all’incertezza nell’aspettativa di tutela che deriverebbe dall’attribuire al giudice un forte potere di ingerenza nel rapporto contrattuale[33].



È in questo spazio, dunque, che dovrà essere misurata l’operatività del dovere di leale collaborazione dei creditori, in una ricerca di equilibrio tra l’esercizio dell’autonomia privata e una domanda di eteronomia che è proposta con insistenza dall’ordinamento, probabilmente quale reazione al rilievo di come numerose ristrutturazioni naufraghino a causa di un atteggiamento passivo, se non ostruzionistico, dei creditori durante le trattative[34].



Ne consegue che il dovere di leale collaborazione non potrà declinarsi in modo univoco, ma dovrà distinguersi quantomeno con riferimento alle diverse fasi della gestione della crisi e alla tipologia di creditore.



 



7. Le diverse declinazioni del dovere di leale collaborazione: a) la fase delle trattative



Per esaminare il concreto atteggiarsi del dovere di leale collaborazione, è opportuno realizzare una duplice distinzione circa, da un lato, il momento in cui opera il dovere in esame e, dall’altro lato, la natura del creditore (se professionale o meno).



In primo luogo, sembra ragionevole ritenere che il dovere in commento operi in modo più o meno pregnante a seconda che il creditore si trovi (1) nella fase delle trattative, (2) in sede di espressione del voto o di adesione all’accordo, oppure (3) nella fase di esecuzione della procedura o dell’accordo.



Durante la fase delle trattative, la leale collaborazione si esplica nel dovere di astenersi dal porre in essere condotte opportunistiche volte a danneggiare direttamente o anche indirettamente, purché in modo sistematico, le trattative a discapito del debitore e degli altri creditori. Si pensi, ad esempio, al recesso ingiustificato dalle trattative di un accordo di ristrutturazione del creditore che ha fatto sorgere un legittimo affidamento in capo agli altri partecipanti alla negoziazione. O ancora, alla proposizione strumentale del ricorso di liquidazione giudiziale del creditore in pendenza di trattative nel caso in cui l’istanza sia presentata da un creditore “minore” al solo fine di avvantaggiarsi in termini di potere negoziale nell’ambito delle trattative per un accordo di ristrutturazione[35]. Altresì, potrebbe integrare gli estremi di un atteggiamento non collaborativo, il comportamento del creditore volto a intralciare il flusso informativo tra debitore e altri creditori, o con gli organi della procedura. Più incerta è, invece, l’ipotesi di configurabilità di un dovere “attivo” di far circolare, tra i soggetti invitati dal debitore al tavolo delle trattative, le informazioni attinenti alla propria posizione creditoria, alle eventuali azioni individuali intraprese e, più in generale, ogni informazione posseduta circa l’affidabilità del debitore e la sua condizione debitoria. Ancora, è incerto se la leale collaborazione possa declinarsi in un dovere del creditore di richiedere tempestivamente integrazioni o chiarimenti delle informazioni comunicategli dal debitore.



In conclusione, sembra possibile affermare che il dovere di leale collaborazione impone ai creditori:



a) l’obbligo “passivo”, di astenersi dall’attuare determinate condotte (ad esempio, astenersi dal porre in essere condotte dirette a danneggiare il buon esito delle trattative);



b) una volta che si sia preso parte alle trattative, l’obbligo “attivo” di tenere determinati comportamenti (ad esempio, l’obbligo di fornire le informazioni, non riservate, richieste dal debitore in fase di trattative).



È dubbio, invece, se dal dovere di leale collaborazione possa desumersi anche un obbligo di partecipare alle trattative, inteso come dovere del creditore di sedersi al tavolo delle trattative su richiesta del debitore in crisi. Tuttavia, il dovere di leale collaborazione riesce ad assumere un autonomo rilievo all’interno dell’ordinamento (che già riconosce in capo ai creditori un dovere di operare secondo regole di correttezza, ex art. 1175 c.c., e che richiama, all’art. 1337 c.c., la buona fede nelle trattative in vista della conclusione del contratto) solo se interpretato come effettiva risposta all’esigenza che al debitore in crisi venga assicurata una reale chance di individuare, insieme ai propri creditori, una soluzione alla crisi. La soluzione non sembra poter essere unitaria, ma dovrà trovare diversa definizione in ragione della tipologia di creditore (v. infra par. 9).



Ad ogni modo, sembra ragionevole ammettere una compressione della libertà negoziale del creditore durante la fase delle trattative in ragione dell’interesse collettivo a regolare la crisi (purché nei limiti sopra esposti, e dunque non potendo mai spingersi fino a determinare un danno al singolo creditore).



 



8. Le diverse declinazioni del dovere di leale collaborazione (segue): b) la fase dell’adesione o del rigetto della proposta; c) la fase dell’esecuzione



La forza espansiva del dovere di leale collaborazione si attenua, invece, nella fase di espressione della volontà di aderire a un accordo di ristrutturazione o a un piano di concordato preventivo.



Il voto è il momento in cui l’autonomia negoziale dei creditori di debitore in crisi si manifesta nella sua pienezza; è in questa fase che si verifica la tenuta di «un principio cardine del diritto privato, quello dell’autonomia negoziale, vista nel suo risvolto negativo di divieto di eteronomia, ossia quale principio di intangibilità della sfera giuridica di ciascuno da parte della volontà altrui»[36]. Tuttavia – come è stato osservato già con riferimento all’accordo di ristrutturazione ex art. 182-septies l. fall. – il riferimento alla buona fede «dà veste formale al requisito essenziale che il “voto” (i.e., in questo contesto l’adesione o la non adesione alla proposta del debitore) sia sincero e quindi non viziato da conflitto di interessi (per la maggioranza), né strategico (per la minoranza)»[37]. Se così è, ne consegue la possibilità per il giudice di sanzionare, quale violazione del dovere di leale collaborazione, il voto espresso in conflitto di interessi[38]. Ciò si pone in linea con il dettato dell’art. 109, comma 5, CCII che regola le limitazioni al diritto di voto sulla proposta di concordato preventivo, ammettendo l’esclusione dal voto e dal computo delle maggioranze per ogni creditore in conflitto di interessi[39].



Al di fuori dell’ipotesi di conflitto di interessi, il dissenso opportunistico di un creditore capace di far fallire il tentativo di ristrutturazione non sembra invece sanzionabile ex art. 4, comma 3, CCII, a meno che tale condotta non sfoci nella più grave ipotesi di abuso del diritto.



Nemmeno sembra che il dovere di leale collaborazione possa legittimare ingerenze del giudice nel processo decisionale che arrivino fino a contestare il merito della decisione. Nello specifico, sembra debba ritenersi precluso al giudice contestare condotte individuali difformi da quelle della collettività e della razionalità comune, arrivando fino a imporre l’adesione al piano o all’accordo. Ciò persino nel caso estremo in cui il creditore faccia naufragare un piano di concordato o una proposta di accordo di ristrutturazione (non permettendo di raggiungere i quorum necessari) nonostante la soluzione concordataria sia oggettivamente migliore rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale anche per quel singolo creditore dissenziente, e dunque nel caso in cui il dissenso sia mosso da “irrazionalità” o, nel caso di creditori professionali, da una razionale strategia di mantenere una reputazione di creditore “cattivo”, così da scoraggiare l’inadempimento di altri debitori.



Nel bilanciamento tra interessi individuali e collettivi imposto dal dovere di leale collaborazione non sembra quindi che si possa arrivare a contestare la poca razionalità, o più in generale il merito, del voto espresso dal creditore, in quanto una simile interpretazione aprirebbe la strada al governo giudiziario della discrezionalità contrattuale cui si è fatto precedentemente cenno.



È invece nella fase di esecuzione del piano o dell’accordo in cui il dovere di leale collaborazione acquista nuovamente una particolare forza cogente: il creditore che ha potuto, più o meno liberamente[40], scegliere se aderire all’accordo o al piano è ora obbligato a rispettarne tempi e contenuto, ponendo in essere tutte le condotte che si rendano necessarie all’attuazione del piano o dell’accordo (o del piano di riparto della liquidazione), in piena e leale collaborazione con gli organi della procedura[41].



 



9. (Segue) La specifica situazione dei creditori professionali



Il dovere di leale collaborazione si atteggia diversamente non solo in ragione del momento in cui esso opera, ma anche in base alla natura del creditore.



In particolare, alla luce dell’art. 1176, comma 2, c.c. che, nel regolare la diligenza nell’adempimento del contratto, riconosce gradi diversi di diligenza che variano in base alla natura dell’attività esercitata, sembra possibile imporre ai creditori professionali un livello più elevato di collaborazione in ragione del maggior grado di diligenza loro imposto.



Se così è, con riferimento ai creditori professionali, quali banche, altri istituti di credito e credit servicers, sono fugati molti dei dubbi sopra esposti sul contenuto del dovere di leale collaborazione, essendo anzitutto possibile immaginare la configurazione in capo agli stessi di un obbligo di partecipare alle trattative, rispondendo all’iniziativa del debitore in modo tempestivo[42].



Ai creditori professionali è possibile, inoltre, richiedere un maggiore e più trasparente livello di collaborazione in fase di trattative, in particolare sul piano degli obblighi di circolazione delle informazioni. Coerentemente al più elevato livello di diligenza loro imposto, dai creditori professionali è lecito pretendere un maggior livello di collaborazione non solo con i debitori e gli organi della procedura, ma anche con gli altri creditori. Ciò potrebbe esplicarsi in un dovere di non trattenere informazioni non riservate, una volta avviata la trattativa, e di far circolare agli altri partecipanti alle negoziazioni le informazioni disponibili circa la condizione del debitore[43].



Anche per i creditori professionali, ovviamente, il dovere di collaborazione incontra il limite dell’espressione della volontà di aderire all’accordo, o dell’approvazione del piano di concordato preventivo (qualora possano votare), o all’opposto di rifiutare la proposta di ristrutturazione.



 



10. L’obbligo di riservatezza



Si è accennato al fatto che, ai sensi dell’art. 4, comma 3, CCII, il creditore di debitore in crisi o insolvente deve rispettare non solo un dovere di leale collaborazione ma anche un «obbligo di riservatezza sulla situazione del debitore, sulle iniziative da questi assunte e sulle informazioni acquisite».



Oggetto di tutela diretta della disposizione è il diritto alla riservatezza del debitore, il quale, durante le trattative funzionali a una soluzione concordata della crisi, deve essere messo in condizione di condividere informazioni complete e veritiere senza temerne la diffusione a soggetti non coinvolti nella procedura[44]. Indirettamente la norma tutela anche gli interessi di tutti coloro che potrebbero trarre beneficio dalla continuità aziendale (lavoratori, fornitori, partner commerciali, etc.).



L’obbligo di riservatezza a carico dei creditori fa inoltre da contraltare al dovere del debitore «di illustrare la propria situazione in modo completo, veritiero e trasparente, fornendo ai creditori tutte le informazioni necessarie ed appropriate allo strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza prescelto», di cui all’art. 4, comma 2, lett. a), CCII. Il dovere di riservatezza è infatti coerente con l’indirizzo complessivo della disciplina riformata che spinge verso un’anticipazione dell’emersione della crisi: se da un lato all’imprenditore è richiesto di comunicare tempestivamente lo stato di crisi ai propri creditori, dall’altro è imposto a questi ultimi di non divulgare le informazioni acquisite durante le trattative (o l’esecuzione della procedura).



Non sembra, invece, deducibile dall’art. 4, comma 3, CCII, in assenza di una specifica previsione, il dovere di non utilizzare le informazioni riservate apprese.



 



11. Conseguenze della violazione dell’art. 4, comma 3, CCII (cenni)



Il codice della crisi non prevede alcuna sanzione per la violazione del dovere di riservatezza o del dovere di leale collaborazione, i quali si ritiene tuttavia non restino sprovvisti di precettività.



Si pensi al caso in cui il creditore riesca a ottenere situazioni di vantaggio dalla crisi, avvalendosi di informazioni privilegiate[45]. O, più in generale, a tutte le volte in cui l’atteggiamento non collaborativo sfoci in condotte abusive in danno al debitore o agli altri creditori.



Come è stato osservato, la risposta ad una violazione dell’art. 4, comma 3, CCII non può limitarsi a una sanzione di tipo «meramente etico o deontologico, dal momento che quando la violazione dei doveri incide, pregiudicandoli, sui diritti dei terzi, si aprono le praterie della responsabilità e delle conseguenze risarcitorie»[46].



La violazione dei doveri di leale collaborazione e di riservatezza ammette dunque la configurabilità di un diritto al risarcimento del danno (capace di riflettersi anche sul piano cautelare).



All’opposto, credo che la configurabilità di sanzioni ulteriori rispetto a quella risarcitoria debba essere verificata in concreto, in relazione alla specifica condotta non collaborativa, e alla luce delle previsioni di legge o delle norme “inespresse” ricavabili dalle prime[47]. Ad esempio, è oggi ammessa dalla Corte di Cassazione la sterilizzazione del voto del creditore in conflitto di interessi rispetto al concordato (fallimentare e preventivo)[48].



Nel delineare una prima, preliminare, conclusione alle riflessioni mosse in queste pagine, può dirsi evidente che, nonostante le incertezze contenutistiche sul piano dei rimedi che si accompagnano ai doveri dei creditori di cui all’art. 4 CCII, nel nuovo quadro ordinamentale i creditori non sono più considerati soggetti meramente passivi delle procedure concorsuali, che possono limitarsi a vantare pretese[49]. All’opposto, i creditori – tutti, ma soprattutto i creditori professionali del più elevato livello di diligenza che si può loro imporre – sono chiamati a collaborare con il debitore e con gli organi della procedura al fine di contenere al minimo il rischio di dispersione del valore dell’impresa in crisi.



 




 






[1] D.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14. Ad eccezione delle norme previste dall’art. 389, co. 2, CCII (principalmente costituite dalle modifiche al codice civile), l’entrata in vigore delle disposizioni del codice della crisi, incluso l’art. 4 CCII di cui si discute, è stata rinviata al 1° settembre 2021, ad opera del d.l. 8 aprile 2020, n. 23, “Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali” (convertito con l. 5 giugno 2020, n. 40).





[2] Ad eccezione degli artt. 1 e 2 CCII, dedicati rispettivamente all’ambito di applicazione e alle definizioni, gli artt. 3-11 compongono il Capo II rubricato “Principi generali” e concludono il Titolo I, “Disposizioni generali”, del codice della crisi. Gli artt. 6-11 CCII, di cui non si discuterà nel testo, fissano la regola generale dell’economicità delle procedure (art. 6 CCII), i principi di carattere processuale (artt. 7-10 CCII), e le regole in tema di attribuzione della giurisdizione internazionale (art. 11 CCII).



Per un commento sulle disposizioni definitorie si veda M. Fabiani, Il Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza tra definizioni, principi generali e qualche omissione, in Foro it., 2019, I, p. 162 ss.





[3] Sull’uso incerto delle espressioni “obbligo” e “dovere” da parte del legislatore del codice della crisi, si veda M. Fabiani, Il Codice della crisi di impresa, cit., a p. 166.





[4] Per una recente ricostruzione dei principi e delle clausole generali nel diritto commerciale si veda M. Libertini, Ancora a proposito di principi e clausole generali, a partire dall’esperienza del diritto commerciale, in Orizzonti del diritto commerciale, 2018. L’Autore legge nella previsione di principi nel codice della crisi (ancora in bozza all’epoca dello scritto) un indice significativo di un’evoluzione culturale che abbandona definitivamente l’impostazione propria della riforma del diritto societario del 2003, in cui si scelse consapevolmente di non fare ricorso a clausole generali (così a p. 10).



Sul tema, si vedano anche E. Bertacchini, Clausole generali e autonomia negoziale nella crisi d’impresa, in Contr. impr., 2011, p. 687 ss., la quale sottolinea come il diritto della crisi non sia materia sprovvista di concetti aperti (v. p. 691 ss. e, con particolare riferimento alle soluzioni concordatarie, p. 694 ss.); e, con riferimento specifico alla regolazione per principi nel codice della crisi, G. D’Attorre, La formulazione legislativa dei principi generali nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in AA.VV., La nuova disciplina delle procedure concorsuali, Torino, 2019, p. 247 ss., a p. 257; già in Banca borsa tit. cred., 2019, p. 461 ss.





[5] Nel dettaglio, l’art. 4, co. 2, CCII, attribuisce al debitore il dovere di «a) illustrare la propria situazione in modo completo, veritiero e trasparente, fornendo ai creditori tutte le informazioni necessarie ed appropriate allo strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza prescelto; b) assumere tempestivamente le iniziative idonee alla rapida definizione della procedura, anche al fine di non pregiudicare i diritti dei creditori; c) gestire il patrimonio o l’impresa durante la procedura di regolazione della crisi o dell’insolvenza nell’interesse prioritario dei creditori». Vi è chi fa discendere dall’obbligo di agire secondo buona fede, l’ulteriore dovere del debitore di scegliere lo strumento di regolazione della crisi che risulti il più idoneo e appropriato «all’esito di un giudizio prognostico di ragionevolezza economica»; R. Santagata, Concordato preventivo “meramente dilatorio”, in AA.VV., La nuova disciplina delle procedure concorsuali, Torino, 2019, p. 598 ss., a p. 614.



In tema, si veda anche S. Fortunato, Codice della crisi e Codice civile: impresa, assetti organizzativi e responsabilità, in Riv. soc., 2019, p. 952 ss.: «Segnalo che, per fortuna, è caduto il 1° comma della precedente formulazione del principio presente nella bozza del 17 febbraio 2018 come art. 4 (Diritti ed obblighi del debitore) e che recitava: “Il debitore deve assumere le obbligazioni in modo prudente e proporzionato alle proprie capacità patrimoniali”» (p. 958, nota 17).





[6] Così anche, espressamente, P. Benazzo, L’accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari, in AA.VV. Fallimento, soluzioni negoziate della crisi e disciplina bancaria dopo le riforme del 2015 e 2016, opera diretta da S. Ambrosini, Bologna, 2017, p. 742 ss., a p. 743.



La buona fede in senso oggettivo è genericamente intesa come «regola di condotta: dunque come sinonimo di “correttezza”» e «il dovere di correttezza impone di evitare durante la trattativa comportamenti che implichino intenzione o consapevolezza d’infliggere a controparte danni ingiusti (…). Ma impone anche di evitare comportamenti, fonti di danno ingiusto, che prescindano da siffatta intenzione e consapevolezza e si riconducano piuttosto a superficialità, disattenzione, incompetenza», così V. Roppo, Il contratto2, Milano, 2011, a p. 168.





[7] Nonostante la collocazione nel Capo II dell’art. 4 CCII dedicato ai “principi”, non v’è dubbio che la buona fede nasca come clausola generale. Tuttavia, la stessa è stata riconosciuta dalla dottrina civilistica come avente la forza espansiva propria dei principi generali: per tutti A. D’Angelo, Il nuovo diritto societario e la clausola generale di buona fede, in Contratto e impresa, 2004, p. 769 ss., in particolare a p. 773.





[8] C. Fois, Le clausole generali e l’autonomia statutaria nella riforma del sistema societario, in Giur. comm., I, 2001, p. 421 ss, a p. 441. Per il diverso atteggiarsi della buona fede nel diritto commerciale, si vedano ex multis A. D’angelo, cit.; e M. Libertini, cit.





[9] In tema si vedano, per tutti, Cass. sez. un. 15 maggio 2015, n. 9935 in Foro it., 2015, I, col. 2323; e Cass. 10 febbraio 2011, n. 3274, in Foro it., 2011, I, col. 2118, con nota di A.M. Perrino, Abuso del diritto e concordato fallimentare: un tentativo di affermare il principio della giustizia contrattuale?.





[10] Introdotto dall’art. 9, co. 1, del d.lgs. 6 agosto 2015, n. 132, l’art. 182-septies l. fall. ammette l’estensione degli effetti dell’accordo ai creditori non aderenti purché, tra gli altri presupposti, questi siano stati messi in condizione di partecipare «in buona fede» alle trattative (co. 2°); condizione che per la dottrina postula un’adeguata ed effettiva informazione dei creditori circa l’avvio delle trattative e il loro contenuto. Per tutti, A. Zorzi, L’accordo di ristrutturazione con banche e intermediari finanziari (art. 182-septies legge fallim.): le categorie di creditori e l’efficacia nei confronti dei non aderenti, in Dir. fall., I, 2017, p. 405 ss., e P. Benazzo, cit.



Una simile costruzione si rinviene anche nel codice della crisi, all’art. 61, co. 2, lett. b), per quanto concerne gli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa, e all’art. 62, co. 2, lett. a), con riferimento alla convenzione di moratoria. Per un commento si veda F. D’Angelo, La convenzione di moratoria nel nuovo “codice della crisi e dell'insolvenza”, in Banca borsa tit. cred., 2019, p. 833 ss.



Non è chiaro, tuttavia, se l’obbligo di buona fede di cui all’art. 182-septies l. fall sia posto anche in capo ai creditori o solo al debitore. In particolare, non è chiaro se alle banche e agli intermediari finanziari che partecipano alle trattative di un accordo di ristrutturazione ex art. 182-septies l. fall. sia riferibile un divieto di intralciare il flusso informativo, o persino un dovere di attivarsi per collaborare e condividere le informazioni con gli altri creditori. A favore F. D’Angelo, op. cit., in particolare a p. 850.





[11] In realtà, si dovrebbe più propriamente parlare genericamente di debitore. In ragione della collocazione dell’art. 4 CCII tra le disposizioni generali, infatti, la previsione trova applicazione anche con riferimento al creditore del sovraindebitato, altresì nella sua declinazione di consumatore e professionista.





[12] Si riporta di seguito il testo integrale dell’art. 4 CCII: «1. Nell’esecuzione degli accordi e nelle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza e durante le trattative che le precedono, debitore e creditori devono comportarsi secondo buona fede e correttezza. 2. In particolare, il debitore ha il dovere di: a) illustrare la propria situazione in modo completo, veritiero e trasparente, fornendo ai creditori tutte le informazioni necessarie ed appropriate allo strumento di regolazione della crisi o dell'insolvenza prescelto; b) assumere tempestivamente le iniziative idonee alla rapida definizione della procedura, anche al fine di non pregiudicare i diritti dei creditori; c) gestire il patrimonio o l’impresa durante la procedura di regolazione della crisi o dell'insolvenza nell'interesse prioritario dei creditori. 3. I creditori hanno il dovere, in particolare, di collaborare lealmente con il debitore, con i soggetti preposti alle procedure di allerta e composizione assistita della crisi, con gli organi nominati dall’autorità giudiziaria nelle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza e di rispettare l’obbligo di riservatezza sulla situazione del debitore, sulle iniziative da questi assunte e sulle informazioni acquisite».





[13] Il Codice della crisi lascia fuori dalla regolazione organica della materia, cui dichiaratamente ambiva, la procedura di amministrazione straordinaria, con riferimento alla quale si pone dunque il dubbio dell’applicabilità dell’art. 4 CCII e più in generale degli artt. 3-11 CCII. Sulla portata espansiva (delle clausole definitorie e) dei “principi generali” del codice della crisi si veda M. Fabiani, Il Codice della crisi di impresa, cit., a pp. 162-163, il quale osserva come un’interpretazione in senso restrittivo «non lascerebbe appagati (perché nello stesso sistema si confronterebbero due diversi approcci alla crisi di impresa)», ma «occorrerà stabilire con la giusta precauzione quale sia il significato più profondo delle definizioni e dei principi».



[13] Sul punto si veda M. Fabiani, op. cit.





[14] A. D’angelo, cit., a p. 774.





[15] M. Baraldi, Il governo giudiziario della discrezionalità contrattuale, in Contr. impr., 2005, p. 501 ss.



Mostra perplessità circa l’opportunità di codificazione, nel codice della crisi, dei principi generali della materia, S. Fortunato, cit.., a p. 958.





[16] Il soddisfacimento di esigenze di certezza del diritto, «che postulano un sufficiente grado di prevedibilità della decisione del giudice» è definito come «obiettivo principale» anche dalla Relazione illustrativa al d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, p. 3.





[17] I rischi di una eccessiva discrezionalità dei giudici, nonostante l’assistenza di periti che ne integrino le competenze tecnico-imprenditoriali, si amplificano in un ordinamento, come quello italiano, in cui non vige la regola del precedente (così G. Scarchillo, L’interpretazione delle clausole generali e il running the business giurisprudenziale. Spunti di diritto comparato, in NGCC, II, 2018, p. 596 ss.), incorrendo dunque nell’ulteriore rischio di avere tante interpretazioni del dovere dei creditori di agire secondo buona fede e correttezza quanti sono i tribunali italiani. Tale fenomeno, cui dovrebbe porre rimedio la Cassazione, è particolarmente acuto nella materia fallimentare, in cui i tempi della giustizia tendono a far demordere il ricorrente dal proseguire nei gradi di giudizio.





[18] Così, con riferimento in generale al diritto delle società, A. D’Angelo, cit., il quale sottolinea come la Corte di Cassazione ritenga sindacabile in sede di legittimità le sentenze di attuazione di clausole generali (v. in particolare p. 774).





[19] Tra gli autori che rilevano come ineluttabile il ricorso a clausole generali nell’ordinamento contemporaneo, si veda P. Montalenti, Nuove clausole generali nel diritto commerciale tra civil law e common law, in Osservatorio dir. civ. e comm., 2015, p. 133 ss. Sul tema si vedano anche le riflessioni conclusive di G. Terranova, I princi?pi e il diritto commerciale, in Riv. dir. comm., 2015, p. 183 ss., pp. 221-222.



Sui rischi dell’uso delle clausole generali si veda, per tutti, L. Enriques, Societa? per azioni, in Enciclopedia del diritto - Annali, X, Milano, 2017, p. 966 ss.



Per una ricostruzione del dibattito sull’opportunità del ricorso nel diritto commerciale a principi e clausole generali, si veda, infine, M. Libertini, cit.





[20] Si veda U. Breccia, Clausole generali (buona fede, buon costume, diligenza, ordine pubblico), in Martucci-Pescatore (a cura di) Diritto civile, in Dizionari del diritto privato, Milano, 2011, p. 249 ss., in particolare p. 254.





[21] A. Di Majo, Delle obbligazioni in generale, in Galgano (a cura di), Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1988, p. 305, con riferimento in particolare all’art. 1175 c.c.





[22] Così, in generale sulla buona fede nel diritto commerciale, G. Terranova, I princi?pi e il diritto commerciale, cit., a p. 211.





[23] G. D’Attorre, I principi generali nel diritto della crisi d’impresa, in NGCC, 2019, p. 1084 ss., da cui il virgolettato a p. 1091.





[24] Principio affermato con riferimento alla condizione potestativa; si veda Cass. sez. un. 19 settembre 2005, n. 18450, in Corriere Giur., 2006, p. 212 ss., con nota di F. Mottola.



Si veda anche A. Trotta, I recenti approdi in tema di condizione potestativa mista, in Giur. It., 2014, p. 1862 ss. in commento a Cass. 2 gennaio 2014, n. 12.





[25] Nell’ambito del diritto commerciale, seppur non con riferimento al codice della crisi, si veda per tutti C. Fois, cit., da cui i virgolettati a p. 439.





[26] Si noti, tuttavia, che la Direttiva Europea n. 1023/2019 ammette la possibilità per gli Stati membri di introdurre meccanismi di iniziativa dei creditori (nonché dei rappresentanti dei lavoratori) per le procedure di risoluzione concordata della crisi, purché vi sia l’accordo del debitore (formulazione non di così agevole lettura). Si veda in particolare l’art. 4, par. 8: «Gli Stati membri possono altresì prevedere che il quadro di ristrutturazione preventiva previsto a norma della presente direttiva sia disponibile su richiesta dei creditori e dei rappresentanti dei lavoratori, previo accordo del debitore. Gli Stati membri possono limitare tale requisito per ottenere l’accordo del debitore ai casi in cui il debitore e? una PMI».



La Direttiva dovrà essere recepita dagli Stati membri, in larga parte, entro il 17 luglio 2021, e in minima parte (l’art. 28, per quanto riguarda l’uso di mezzi di comunicazione elettronici) entro il 17 luglio 2024 o il 17 luglio 2026.





[27] V. artt. 19 ss. CCII.





[28] Sulla concessione abusiva del credito si veda, per tutti, Cass. 20 aprile 2017, n. 9983, con nota di F. Pacileo, Concessione “abusiva” di credito ed azione del curatore fallimentare: il cavillo del concorso della banca nella mala gestio degli amministratori, in Banca borsa tit. cred., 2018, p. 167 ss.; L. Balestra, Concessione abusiva di credito e legittimazione del curatore: sulla non facile delimitazione perimetrale, in Fall., 2017, p. 1158 ss.; e G. Tarzia, La Cassazione torna sul tema dell’azione risarcitoria per “concessione abusiva di credito” che abbia ritardato la dichiarazione di fallimento, in Fall., 2017, p. 911 ss. Si veda anche B. Inzitari, Il curatore è legittimato all’azione di responsabilità verso gli amministratori e la banca per abusiva concessione di credito e aggravamento del dissesto, in Dir. fall., 2017, I, p. 720 ss.





[29] Il dovere di leale collaborazione era originariamente previsto dall’art. 5, co. 3, della bozza di codice della crisi consegnata al Ministro della Giustizia il 22 dicembre 2017, disponibile sul sito web dell’Osservatorio sulle Crisi di Impresa (OCI).



L’art. 5, rubricato “Doveri delle parti”, al co. 3, recitava: «In particolare, i creditori hanno il dovere di: a) collaborare lealmente con il debitore e con gli organi preposti in sede stragiudiziale e giudiziale, al fine di raggiungere prioritariamente una soluzione concordata; b) non ostacolare irragionevolmente le trattative tra il debitore e gli altri creditori; c) rispettare l’obbligo di riservatezza sulla situazione del debitore, sulle iniziative da questi assunte e sulle informazioni acquisite».





[30] Cfr., ex multis, M. Fabiani, Contratto e processo nel concordato fallimentare, Milano, 2009, in particolare a pp. 169 e 221.





[31] V. G. Terranova, Diritti soggettivi senza sovranità (a proposito di bail-in, cram-down e altro), in Dir. fall., I, 2018, p. 491 ss.





[32] Così G. D’Attorre, La formulazione legislativa dei principi generali, cit.: «la norma è significativa sia perché introduce espressamente un rapporto di strumentalità della gestione del patrimonio e dell’impresa, e quindi della prosecuzione dell’attività, rispetto all’interesse dei creditori, sia perché – ed è questo il punto centrale – qualifica espressamente l’interesse dei creditori come prioritario», p. 255.



Per quanto sia vero che la collocazione di tale previsione tra i “doveri delle parti” – e non in apposita disposizione dedicata alle finalità delle procedure – possa indebolire, in una prospettiva formalistica, la portata generale di tale affermazione, il riferimento all’interesse primario dei creditori si rinviene anche altrove lungo il codice della crisi: così Id., I principi generali nel diritto della crisi d’impresa, cit., il quale osserva come il quadro derivante anche dalla normativa di dettaglio sia ambiguo, non chiarendo se la priorità sia assoluta o relativa. Un’identica formulazione letterale si trova, infatti, nell’art. 84 CCII, rubricato “Finalità del concordato preventivo”. La norma, dopo aver stabilito che «Con il concordato preventivo il debitore realizza il soddisfacimento dei creditori mediante la continuità aziendale o la liquidazione del patrimonio» (co. 1), prevede che il concordato con continuità sia «funzionale ad assicurare il ripristino dell’equilibrio economico finanziario nell’interesse prioritario dei creditori, oltre che dell’imprenditore e dei soci», così attribuendo rilievo a ulteriori interessi rispetto a quello dei creditori, pp. 1091-1092.





[33] Si veda G. D’Attorre, I principi generali nel diritto della crisi d’impresa, cit., a pp. 1090-1091, secondo il quale a questa (rassicurante e assolutamente condivisibile) prospettiva conducono anche le norme di dettaglio, e in particolare l’art. 109 CCII, che «nel ribadire la regola per cui il concordato è approvato dai creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi, esprime il principio, inespresso ma incontestato, in forza del quale spetta ai creditori, e non ad altri, decidere se approvare la proposta di concordato loro sottoposta, essendo ad essi attribuito un potere di veto insuperabile in ordine alla decisione della soluzione concordataria della crisi, che non può essere surrogato o disatteso da una diversa volontà del debitore o dello stesso tribunale»; oltre alla «assenza nella disciplina di ogni riferimento ad un controllo di merito del tribunale sulla convenienza della proposta (salvo casi marginali), fornisce un saldo criterio per interpretare correttamente il principio generale in tema di doveri dei creditori, riconducendolo entro i corretti limiti».





[34] Tale fenomeno si osserva soprattutto con riguardo ai creditori professionali, i quali rivestono un ruolo centrale in gran parte delle procedure di risoluzione della crisi.



Studi empirici dimostrano come le imprese italiane incontrino spesso difficoltà nell’interazione con le banche creditrici, dalle quali è raro ricevere, in tempi rapidi, una qualsiasi risposta alla proposta di ristrutturazione, anche solo negativa (che comunque permetterebbe di adeguare la proposta di ristrutturazione o di avviare in tempi utili la liquidazione dell’attivo). Si veda, l’Italian National Report, elaborato nell’ambito del progetto di ricerca europeo “Contractualised Distressed Resolution in the Shadow of the Law” coordinato dall’Università degli Studi di Firenze, disponibile sul sito web www.codire.eu" target="_blank">www.codire.eu">www.codire.eu, e in particolare p. 35: «Banks’ internal decisional process has an impact on negotiations: a) The banks decisional process are deemed too slow by other key players: banks decisional process is often affected by various elements (factual and regulatory), which have an impact on the institutions willingness to engage in constructive negotiations (…)».



Sul tema si veda anche L. Stanghellini, R. Mokal, C.G. Paulus, I. Tirado (a cura di), Best Practices in European Restructuring. Contractualised Distress Resolution in the Shadow of the Law, Milano, 2018, p. 113 ss., in particolare il capitolo 2 “Negotiating Restructuring Plans”.





[35] Esempio di G. D’Attorre, I principi generali nel diritto della crisi d’impresa, cit., a p. 1090.





[36] Così, Cass. sez. un. 28 giugno 2018, n. 17186, in Foro it. 2018, I, col. 4028, con nota di F. De Ritis, in tema di conflitto di interessi dei creditori nei concordati (su cui infra nota 38).





[37] A. Zorzi, L’accordo di ristrutturazione con banche e intermediari finanziari, cit., a p. 418.





[38] Il tema del conflitto di interessi nel concordato preventivo è stato recentemente affrontato dalla Corte di Cassazione a sezioni unite, chiarendo come: (1) il conflitto di interessi è configurabile tra il singolo membro di una collettività e l’interesse della collettività anche se questa non costituisce un distinto soggetto giuridico; (2) non è necessaria una espressa previsione che disciplini in via generale il conflitto di interessi, ma lo stesso può rintracciarsi da un’analisi sistematica della legge fallimentare, e in particolare dagli artt. 127, co. 5 e 6, in tema di concordato fallimentare, e dall’analogo art. 177, co. 4, per quanto riguarda il concordato preventivo, norme che «non trovano spiegazione se non con la finalità di neutralizzare, appunto, un conflitto tra l’interesse proprio dei singoli creditori di cui si tratta (in quanto collegato all’interesse del fallito) e l’interesse comune a tutti i creditori»; e (3) il principio di autonomia negoziale può essere messo in crisi se la scelta della maggioranza è inquinata «in maniera decisiva» dall’esistenza di un conflitto di interessi in capo a un creditore: «l’eteronomia nei confronti della minoranza, insita nella regola di prevalenza della maggioranza (…) e? compatibile con il principio dell’autonomia privata, in quanto sia giustificata dalla necessita? di realizzare, appunto, un interesse comune a tutti i partecipanti». Così Cass. n. 17186/2018, cit., al par. 7.5.1.



Per un commento alla pronuncia, si veda per tutti G. D’Attorre, Le sezioni unite riconoscono (finalmente) il conflitto d’interessi nei concordati, in Fall., 2018, p. 963.



Sul tema si veda anche R. Sacchi, Il conflitto d’interessi dei creditori nel concordato, in AA.VV. (diretto da), Società, banche e crisi d’impresa. Liber amicorum Pietro Abbadessa, Torino, 2014, III, p. 3136 ss.





[39] Recita l’art. 109, co. 5, CCII: «Sono inoltre [rispetto ai coniuge, convivente di fatto, parte dell’unione civile, parente o affine fino al quarto grado del debitore] esclusi dal voto o dal computo delle maggioranze i creditori in conflitto di interessi».



Sul tema si rinvia a C. Costa, Il controllo di fattibilità del concordato preventivo tra vecchia disciplina e nuovo codice della crisi e dell'insolvenza, in Dir. Fall., 2020, I, p. 331 ss. Secondo l’Autore: «Trattasi di un principio importante, anche se, così come è formulato, ed in assenza di alcune necessarie ulteriori specificazioni, darà luogo inevitabilmente a rilevanti problemi interpretativi: cosa deve intendersi per conflitto di interessi? Quando ed a fronte di quali situazioni concretamente si pone? Chi e con quali strumenti dovrà rilevarlo, il giudice, il commissario, l’imprenditore e/o gli altri creditori? È tutto da studiare ed approfondire, e non credo che ci si possa molto giovare della ampia elaborazione dell’analogo concetto proveniente dal Diritto delle società. Nel concordato infatti non siamo di fronte ad una comunità di interessi e di scopo, come nelle società, bensì di fronte ad un gruppo di soggetti dagli interessi non omogenei, ove vige il principio, come ebbe a dire molti anni fa la Cassazione, homo homini lupus», a p. 336.





[40] Cfr. l’art. 112, co.1, CCII.





[41] Ad esempio, è stato condivisibilmente rilevato da G. D’Attorre, La formulazione legislativa dei principi generali, cit., p. 258, che potrebbe configurare un’ipotesi di violazione del dovere di leale collaborazione la richiesta di risoluzione per inadempimento di un accordo di ristrutturazione che sia pretestuosa.





[42] Il creditore professionale è tenuto, cioè, non solo a rispondere all’iniziativa del debitore che ricerca un accordo, ma a farlo altresì in tempi ragionevoli.



Lo stesso art. 4 CCII, al comma 2, richiede al debitore di «assumere tempestivamente le iniziative idonee alla rapida definizione della procedura, anche al fine di non pregiudicare i diritti dei creditori». Da ciò può dedursi una declinazione del dovere di leale collaborazione sensibile ai tempi di svolgimento delle trattative.



Più in generale, il fattore tempo è importantissimo. Non solo è importante far emergere per tempo la crisi, ma anche che questa sia gestita in tempi rapidi così da contenere al minimo la perdita di valore del patrimonio dell’imprenditore, quale conseguenza dell’incertezza. Si vedano, ad esempio, M. Spiotta, Il ruolo del fattore tempo nella crisi di impresa, in AA.VV., Crisi e insolvenza. In ricordo di Michele Sandulli, Giappichelli, Torino, 2019, p. 664 ss., a p. 688; e, in una prospettiva comparata, A. Zorzi, Negotiating Restructuring Plans, in Stanghellini-Mokal-Paulus-Tirado (a cura di), Best Practices, cit.: «It should be noticed that timeliness is of the essence not only for the debtor, but for the whole restructuring process. Time plays a crucial role in the reliability and effectiveness of the plan: it is not uncommon that, due to defects and delays in the negotiation, process, plans that were drafted taking into account a certain time horizon are no longer current when creditors consent to the plan, because the underlying situation has changed. The implementation of the plan is, of course, immediately affected as well», a p. 124. Come è stato opportunamente osservato, una tempestiva risposta dai creditori permette: (a) di abbandonare rapidamente piani che dovessero apparire problematici, così da condurre rapidamente alla liquidazione del patrimonio, contenendo la dispersione di ricchezza a tutela dei creditori; (b) di modificare la proposta del debitore, qualora possibile; (c) di aumentare le probabilità di successo della ristrutturazione, che saranno tanto maggiori quanto prima, rispetto all’emersione della crisi, questa sia gestita (p. 125).





[43] L’esistenza di un simile dovere è stata ipotizzata in dottrina, già con riferimento alla convenzione di moratoria, da F. D’Angelo, cit.: «A questo proposito si può porre un problema di conflitto fra il dovere di buona fede (e il connesso dovere di disclosure), e le esigenze di riservatezza che possono riguardare determinate informazioni che, pur riferite al comune debitore, siano da ritenere interne alla banca o all’intermediario finanziario. Tale possibile conflitto può tuttavia trovare composizione valorizzando quello che è il fine cui lo scambio di informazioni tende, ossia l’assunzione di scelte consapevoli ed informate. In questa prospettiva, dunque, sembra doveroso far circolare fra i partecipanti al tavolo negoziale le informazioni che riguardano la tipologia dell’affidamento e l’entità dell’esposizione nonché la determinazione della categoria. Con particolare riguardo ai creditori bancarie finanziari si tratterà delle informazioni disponibili (sia pure non in tempo reale) mediante consultazione della Centrale dei rischi, nonché delle informazioni non altrimenti ricavabili con rapidità (quali la presenza di insoluti su linee autoliquidanti), la presenza di garanzie prestate da terzi, l’indicazione dei beneficiari di eventuali garanzie prestate dal debitore e le condizioni economiche dell'affidamento», pp. 850-851.



Le banche e gli istituti di credito posso inoltre svolgere un ruolo fondamentale nel coadiuvare il debitore nel riconoscere la crisi e la sua gravità. Sull’opportunità della previsione di un tale dovere di disclosure dalle banche al debitore, ad esempio informando lo stesso che il suo credito sta per essere qualificato come “forbearance” o “non performing”, si veda A. Zorzi, Negotiating Restructuring Plans, cit, a p. 136.



Tema anticipato anche da CNDCEC, Assonime, e Università di Firenze, Linee-guida per il finanziamento delle imprese in crisi2, 2015, a p. 25 ss.





[44] Così anche G. D’Attorre, I principi generali nel diritto della crisi d’impresa, cit., in particolare a p. 1091; e S. Sanzo, I principi generali e le disposizioni di immediata attuazione, in Sanzo-Burroni (a cura di), Il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Torino, 2020, p. 3 ss., in particolare a p. 24.





[45] Così, S. Sanzo, cit.: «potrà certamente fondare significative forme di responsabilità a carico di quei creditori che, magari avvalendosi di informazioni o posizioni privilegiate, riescano ad ottenere situazioni di vantaggi proprio in considerazione della situazione di crisi», a p. 24.





[46] Così M. Fabiani, Il Codice della crisi di impresa, cit., p. 166.



Sull’ammissibilità dei rimedi risarcitori a fronte della violazione dell’art. 4 CCII, in adesione rispetto a Fabiani, anche G. D’Attorre, I principi generali nel diritto della crisi d’impresa, cit., a p. 1090. Contra G. Fauceglia, Il nuovo diritto della Crisi e dell’Insolvenza, Torino, 2019, pp. 11-12.





[47] Così, con riferimento alla sterilizzazione del voto del creditore in conflitto su un concordato (fallimentare o preventivo), si veda Cass. sez. un. 17186/2018, cit.: «può senz’altro affermarsi che le ipotesi di esclusione dal voto debbano essere previste dalla legge, l’ammissione del creditore essendo la regola, ma non v’e? alcuna ragione per ritenere che la previsione dell'esclusione debba necessariamente essere “espressa”», par. 7.5.1.





[48] Sterilizzazione da intendersi, per il concordato fallimentare, come divieto di votare o, per il concordato preventivo, come possibilità di votare solo se collocato in apposita autonoma classe. Così Cass. n. 17186/2018, cit. In tema si veda anche supra nota 37.





[49] Così M. Fabiani, Il Codice della crisi, cit., a p. 166.





 
























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